Questa doppia morte si riflette nell’immagine speculare di se stesso che Asimov offre nel romanzo: l’una rappresenta l’Asimov reale, l’altra un’immagine ideale. Il vero Isaac Asimov, in Fondazione Anno Zero, non è tanto Seldon, quanto Yugo Amaryl. Il giovane cisternista appassionato di matematica reclutato da Hari

Isaac Asimov
Isaac Asimov
Seldon nel povero quartiere di Dahl in Preludio alla Fondazione è qui diventato il secondo in comando del Progetto Psicostoria. In Amaryl, Asimov rivedeva se stesso alla fine degli anni Trenta, alla vigilia di quell’esordio che lo avrebbe trasformato, di lì in dieci anni, in uno dei nomi più importanti della fantascienza mondiale. Come Amaryl, il giovane Isaac Asimov è di modestissima estrazione sociale: passa le sue giornate nel candy-store gestito dal padre Judah, emigrato con la famiglia nella zona ebrea di Brooklyn nel 1923, e ha pochissimo tempo da dedicare alla sua passione, lo studio. Legge libri e riviste sotto il bancone del negozio, quando è “di servizio”, e sta iniziando a dilettarsi di scrittura, sognando di pubblicare qualche suo racconto sulla sua rivista preferita, Astounding SF. Porta i baffi, proprio come Yugo Amaryl, anche se – diversamente dal suo personaggio – non ne è entusiasta: li taglierà un paio di anni dopo. Poi, il successo. A sollevarlo da quella condizione non è Hari Seldon, ma John W. Campbell, il nuovo ed energico direttore di Astounding. Come Seldon, che nell’immagine ingenua di Amaryl è il nuovo semi-dio della matematica, anche Campbell scorge nei mediocri lavori di quel giovanotto le stimmate di una genialità latente. Lo incoraggia, e i risultati non mancano: Asimov diventerà una delle più prestigiose firme della rivista. Lo Yugo Amaryl di Fondazione Anno Zero è ormai un matematico scafato, completamente dedito allo sviluppo della Psicostoria: passa le sue giornate rinchiuso nel piccolo ufficio dell’Università di Streeling, nella penombra, lontano da ogni distrazione. La sua vita è tutta nella Psicostoria. Impossibile non scorgere, in quell’uomo precocemente invecchiato, almeno un’ombra di Asimov stesso. Come il suo personaggio, Asimov – acquisita la stabilità e la notorietà – passa dieci ore al giorno nel salotto di casa, chino sulla macchina da scrivere, con le tapparelle abbassate e la luce della lampada sulla scrivania (è nota la sua claustrofilia). In una sua famosissima battuta non esista ad affermare: “Se il dottore mi dicesse che mi restano solo pochi minuti da vivere, non ci rimuginerei sopra. Batterei a macchina un po’ più veloce”. Eccolo, il vero Asimov: lo scrittore che rifugge da ogni vacanza, da una semplice passeggiata nel vicinissimo Central Park, da qualsiasi distrazione che lo possa tirare via dal suo unico scopo nella vita, scrivere. Uno scopo e una passione che lo porteranno alla tomba: la mancanza di moto e la vita sedentaria acuiscono la sua insufficienza cardiaca genetica, costringendolo a un’operazione che, alla lunga, si rivelerà fatale.Quando Hari Seldon, al capezzale di Yugo Amaryl, gli rimprovera di non aver vissuto con abbastanza buon senso e di morire ad appena cinquantacinque anni, l’amico non esista a rispondere: “Vivere con più buon senso? Vuoi dire fare della pause? Andare a fare il turista? Divertirmi con cose inutili? Così avrei continuato a desiderare di ritornare al mio lavoro, o avrei imparato a godere nello sprecare il mio tempo, e negli altri venti o trent’anni di cui stai parlando non avrei fatto alcun progresso”. Non è Amaryl: è Asimov che sta giustificando se stesso. Lo aveva già fatto a più riprese nella sua ultima biografia, I, Asimov. A Memoir, finita di scrivere poco dopo l’uscita dal ricovero ospedaliero nel 1990, ma pubblicata postuma (analogamente a Fondazione Anno Zero: Doubleday, l’editore di Asimov, con molta lucidità, iniziava a mettere da parte le opere da pubblicare all’indomani della morte dello scrittore). A Gertrude, la prima moglie, che gli rimproverava la vita relegata e lo metteva in guardia ammonendogli che sul letto di morte avrebbe rimpianto le giornate che non aveva vissuto, Asimov rispose senza scomporsi che non avrebbe voluto cambiare niente del suo modo di vivere, e che l’unico suo rimpianto, quando sarebbe morto, sarebbe stato quello di non poter scrivere le tante cose che sicuramente avrebbe voluto ancora scrivere.