Mi presento e aggiungo: — Anche io lo conosco poco… Mio nonno lavorò trent’anni a Foligno. Quando tornò, ebbe il tempo di insegnarmi qualcosa. — Di comune accordo prendiamo a parlarci in inglese, che comunque in Uganda è lingua ufficiale. L’aria è pesante. Puzza. In cielo c’è caligine, siamo a metà giornata ma non riuscirei a individuare da che parte sta il sole. — Accidenti, anche ora che arriviamo in città sarà così? — chiedo a Snješka. — A Roma, vuoi dire? — risponde lei, e aggiunge: — Certo. Anzi, in tutta l’Italia. O in Europa. Anche a casa mia… In Boemia le cose non vanno molto meglio.

Penso al mio limpido Lago George.

Saliamo su un vecchio pullman, pigiati come pesci nella rete. — Usano ancora la benzina? — chiedo un tantino meravigliato.

— Diamine, ragazzo, da dove vieni?

Snješka mi spiega che i Paesi europei da decenni blaterano di fonti alternative ma continuano a raschiare il fondo degli ultimi pozzi di petrolio, roba che è più melma che altro. Mi dice che le aziende petrolifere ostacolano le altre energie, specie quelle pulite, a suon di bustarelle, omicidi, attentati con autobombe e piccoli robot volanti esplosivi mimetizzati da uccelli. Ufficialmente, da governo e stampa venduta, i morti sono addebitati a fantomatiche fazioni politiche estremiste.

Pensavo che la gente fosse ammassata solo nell’aeroporto, ma arrivati in centro città scendiamo per ritrovarci tra migliaia di persone. Un muro di corpi. Cerco di guardare in giro, oltre le teste in movimento senza fine. Mura sbrecciate, edifici cadenti, asfalto con buche, aria ancora più fetida, cespugli striminziti. Urla, chiasso di clacson, rombi di auto. — Ora che andrò in camera farò una doccia piuttosto lunga. C’è un caldo umido tremendo, qui.

Snješka mi guarda: — Doccia? Vedrai, vedrai che bell’acqua…

Ci incamminiamo tra la folla.

Comincio ad avere la nausea: — Che dici di andarci a prendere un buon caffè? — Fra l’altro Snješka è un fiore di donna. Penso sia sui 40. Matura al punto giusto. Finora è l’unica cosa decente in cui mi sono imbattuto. Ma non voglio azzardare a dirglielo, non so in Occidente come funzionano queste cose. Penso che Snješka a sua volta non veda l’ora di rinfrescarsi. Mi dice: — Ecco, lì c’è un bar.

Cambiamo direzione. 

È più di mezz’ora che siamo seduti al tavolino, ormai ci siamo detti quasi tutto. Lei è divorziata con figli ventenni emigrati nel Sichuan, in Cina. Vive sola. Di me, le ho detto delle mie due lauree in Fisica Multilaterale e in Storia delle Civiltà, conseguite all’università di Kampala, capitale del mio Paese.

— Domattina dovrai andare al Centro Smistamento — mi anticipa lei. — Credo di capire che ti indirizzeranno all’Istruzione.

— È la prima volta, per me. Sarà una cosa difficile, faticosa?

Mi fa un sorrisetto ambiguo: — Diciamo che non sono le parole giuste… Ma vedrai da te. Non devi spaventarti, l’Europa che ti raccontava tuo nonno è sparita. — Resta quasi soprappensiero, poi aggiunge: — Ma in fondo l’abbiamo voluto noi.

Ok, so bene che l’Europa è cambiata, ma non capisco. Insisto: — In che senso l’avete voluto?

Lei mi fissai: — Beh… era prevedibile che man mano lo sviluppo tecnologico eliminasse la maggior parte dei lavori manuali. Restavano le occupazioni legate alla “conoscenza”, ma le abbiamo date in appalto agli ex Paesi poveri, per lucrare sui bassissimi costi di lavoro… Sai dirmi cosa resta? Solo alcuni lavori manuali che, in effetti, non necessitano di particolare istruzione. Il risultato sai già qual è. Le tue…