Un'immagine della storica serie di Gundam, presto disponibile anche Italia.
Un'immagine della storica serie di Gundam, presto disponibile anche Italia.
Il Giappone invece si è trovato per le mani, a partire dai tardi anni Novanta, un crescente “potere soffice”, senza averlo mai realmente cercato e coltivato. Lo scopo politico internazionale del Giappone è sempre stato quello di essere riconosciuto come pari dalle potenze occidentali, e più volte nel corso della storia recente ha invece trovato cocenti delusioni: il disprezzo razzista a fine Ottocento, il sospetto e il timore negli anni Trenta, la bomba atomica nel 1945, il Japan bashing economico degli anni Ottanta da parte dell’Europa. Oggi invece il Giappone è eletto universalmente come nazione cool, in un periodo in cui la sua industria dei contenuti è quella che esporta di più in tutto il mondo, dopo quella statunitense. Questo ipotetico soft power emerge proprio nel momento in cui forti rigurgiti nazionalisti si fanno avanti in Giappone. Gli operatori governativi che stimolano l’immagine del Giappone all’estero come nazione cool anche attraverso i fumetti e i disegni animati sono gli stessi che professano la necessità del Giappone di dotarsi di forze offensive per riassumere una deterrenza militare nell’area del Pacifico. Essi, se da un lato nominano il gattone dei fumetti Doraemon ambasciatore culturale del Giappone nel mondo, dall’altro sono stati favorevoli alla rinascita del Ministero della Difesa dopo sessant’anni d’assenza (prima era solo una “agenzia di difesa”) e di poderosi stanziamenti economici a destinazione militare. Quindi ci si potrebbe chiedere a che scopo il Giappone voglia eventualmente, alla fine, sfruttare questo “potere soffice”, se nello stesso momento sta reincentivando, dopo decenni di incontestato pacifismo, quello “duro”. Non sono certo un antigiapponese, e ritengo che il Giappone rimarrà ancora a lungo la nazione pacifista e moderata del dopoguerra, però bisogna anche osservare e cogliere i vari segnali, contraddittori, che attualmente il Paese sta lanciando non tanto in Occidente quanto nell’area gepolitica asiatica. 

Per concludere l'intervista, non possiamo non rilevare che il panorama che risulta dal volume dimostra comunque una certa organicità e completezza, pur nell’odierna situazione fluida e – come appare anche da questa intervista – affrontando temi vari e complessi, ma decisamente affascinanti. La conclusione in quarta di copertina su “un affresco teorico di ricchissima intensità argomentativa che lo rende una pietra miliare negli studi del settore” è pomposa e un po’ troppo dettata dal marketing, ma in fondo non troppo lontana dal vero. In attesa della domanda epocale che pose Paul Valéry (1871-1945): l’Europa diventerà quello che in realtà è, cioè un piccolo promontorio del continente asiatico?