Sono dentro la mia cabina, l'unica parte della Casa Giardino che mai vedrò. Elettrostimolatori funzionanti, schermo gigante acceso: tutto è teso verso l'attimo in cui aprirò gli occhi per lavorare. Ma resto un attimo immobile a riflettere sulla mia situazione, e mi sento sopraffare dall'angoscia.

Era proprio come temevo. I miei avversari stavano sprecando un'occasione eccezionale. Costruivano mondi stereotipati, ancorati alla realtà, schiavi della storia. Si portavano appresso il solito corpo pesante e debole, incatenato alla terra, preda dei capricci della biologia. Dov'erano loro quando non c'era riparo neanche di notte, quando la luna bersagliata dai raggi solari sfogava contro la terra il suo calore? Non avevano visto i pesci strisciare come vermi fuori dagli oceani disseccati? Non avevano cercato le strade nascoste sotto i cadaveri? Ora che finalmente avevamo l'occasione di cominciare tutto da capo, con nuovi corpi, nuove leggi, si limitavano a cambiamenti insignificanti. In pochi anni tutto sarebbe tornato come ora.

Io sono certamente il più abile nelle costruzioni virtuali. Alcune delle mie città hanno vinto premi prestigiosi. Ma stavolta la posta in gioco è la mia vita. Se vince Ordesmond mi aspetta una vita da sogno: sarò un tigullo, capacità di mutazione praticamente illimitata. Volerò in alto sulle montagne e mi tufferò negli abissi marini, potrò assumere ogni forma alla velocità di una freccia.

Ma se fosse un altro mondo il vincitore? Quale sarebbe la mia fine?

In teoria, secondo le regole del torneo, non ci si possono scambiare favori tra concorrenti, in pratica è ben diverso: la DEUS non può controllare tutto. Dovevo approfittarne per scavarmi una nicchia confortevole anche nei mondi degli altri.

Chi mi preoccupava di più era Yoko, fanatica di Tommaso Moro. Sentivo la sua voce seria, animata di perentoria dolcezza, parlare della necessità di occuparci a turno di agricoltura, ed era come se mi vedessi già con la zappa in mano. Anche il suo modo di lavorare era inflessibile: metodica, dritta, con la benda alzata a sgombrarle il viso dai capelli. Quando mi alzo, è già al computer. Smette alle 14 per la pausa pranzo. Riprende alle 14 e 30. Alle 22 va a letto, anche se le manca un bit per finire una delle sue città. Una delle sue raccapriccianti città che mi aveva mostrato con orgoglio: rigorose e ampie, tutte uguali, dalle strade dritte e pianeggianti che si intersecano. Città quadrate, senza centro e senza periferia, finestre che inquadrano una uguale porzione di verde e di azzurro, la stessa particella di sole.

Se fosse il suo mondo a vincere mi chiederò a cosa sarà servito aver risparmiato i miei occhi per guardare da ogni finestra lo stesso panorama. Dovevo convincerla a fare qualcosa per me, ma con cautela: era proprio il tipo che si irrigidisce sulle sue posizioni.

Nella pausa pranzo, mentre gustavamo la rarissima carne bianca del Kiutcke, scherzosamente l'ho abbordata:

- Yoko me la costruisci una casetta che sia esposta soltanto a nord? Mi esoneri dal coltivare le patate?

Lei non ha risposto, è andata a mettersi il collirio e poi è tornata a lavorare.

Non ero mai stato nel mondo di Bill. Volevo esaminarlo, ma lui disse che non ne valeva la pena: - Sono molto indietro. Ti garantisco che ti conviene risparmiare gli occhi per Ordesmond. O te li riduci come i miei che la mattina sembrano incollati col catrame. Mi ci vuole un'ora di lavacri per poterli aprire. - Era vero, Bill era sempre l'ultimo a entrare in cabina.

Spiros, invece, mi invitò lui stesso, forse perché mi ammirava. Come dimenticare quella passeggiata nell'Antica Grecia! Sotto un cielo azzurro sfolgorante nuotai con sirene e tritoni nel mare reso calmo da Giove per permettere la nascita dei gemelli concepiti con Latona. Cavalcai un centauro tra viti dorate e verdi ulivi, mi riposai all'ombra maestosa di un faggio, bevvi latte schiumoso da una candida giovenca. Visitai l'Olimpo, sede degli Dei. Spiros li stava costruendo uno ad uno, Zeus il lanciatore di fulmini, Hermes dai piedi alati. Per sé aveva riservato il posto di Apollo, il suonatore di cetra. Avrei amato anch'io essere un dio. Ma non era il genere di favore che poteva farmi: richiedeva almeno quattro mesi di lavoro. Lo pregai allora di trovarmi un posto in cui senza far nulla potessi vivere riverito e apprezzato. Mi propose di essere un filosofo e accettai. Ma che gli davo in cambio?