1 – La nave ammiraglia

Marcus Talon

Il mare al di sotto dell’aereo pareva una tavola punteggiata da schiuma leggera. Era così ampio l’orizzonte, mentre l’interno del velivolo mi ricordava costantemente di essere chiuso in una scatola di latta a mezz’aria. Non ero agitato, solo piacevolmente sorpreso dal contrasto dei due ambienti e, ovviamente, delle circostanze che mi avevano portato fin lì.

Sedevo comodamente a bordo di un aereo militare e non riuscivo a smettere di rileggere i dossier che mi erano stati forniti. Il velivolo non era molto popolato e la maggior parte dei presenti a bordo erano soldati. Avevo riconosciuto qualche politico, ma non ricordavo bene i loro insulsi nomi. Continuai a leggere.

Era iniziato tutto una notte di pochi giorni prima. Una portaerei giapponese aveva captato una trasmissione, prima dal cielo, poi dall’oceano. Poco dopo, dal fondale della Fossa delle Marianne era emersa una valanga di segnali radio dove prima c’era stato solo il silenzio di tomba. Il segnale captato era stato inviato agli alti vertici della Coalizione e la zona era stata presa d’assalto dai militari. Ogni rotta commerciale era stata deviata, ogni satellite civile in grado di vedere dallo spazio oscurato.

– Sul Pacifico è sceso il velo nero della censura – mugugnai.

Udii le ruote del carrello di servizio. – Gradisce qualcosa da bere, professore? – domandò una hostess dallo sguardo dolce e dai lunghi capelli rossi.

– No, grazie – risposi, sistemandomi meglio gli occhiali. Ritornai sui fogli, avevo perso il segno. Ripresi a leggere la colonna di testo stampata vicino alla foto della zona interessata dall’anomalia. I segnali captati erano incompatibili con i linguaggi umani e con gli schemi logici conosciuti. Fisici, matematici e ingegneri erano stati convocati da ogni parte del globo per decifrare quel messaggio, richiamati dai loro confortevoli ambienti accademici e catapultati su voli militari, diretti tutti nella stessa zona del pianeta.

Sospirai. Non avevo più l’età o la voglia di rimbalzare da una parte all’altra del globo. Continuai a sfogliare le pagine.

Il mondo, di quello che stava accadendo lì, non ne sapeva assolutamente niente. Avevo dovuto sospendere tutte le docenze universitarie e il motivo impostomi dai federali era stato un corso di aggiornamento. Era una copertura che faceva acqua da tutte le parti. Il semestre volgeva al termine e gli esami si stavano avvicinando. Ero stato costretto a lasciare tutto nelle mani di un inesperto assistente che avrebbe inevitabilmente fatto il gioco dei laureandi, promuovendoli a destra e a manca.

Chiusi gli occhi cercando di realizzare la situazione. Amavo le faccende tranquille e che permettevano di prendersela con calma. L’unica eccezione che mi concedevo a questa regola erano le faticose passeggiate in montagna. Riaprii gli occhi, trovandomi sempre i fogli davanti.

– Accidenti… – La radio di bordo gracchiò fin troppo forte per i miei gusti. Regolai meglio l’aria condizionata sul pannello specchiato in alto, e, muovendolo leggermente, incontrai il mio riflesso.

Quarantaquattro anni, ma avevo conservato la forma fisica di quando ero molto più giovane. Il mio torace era grosso e muscoloso. Capelli grigi, cortissimi e non molto folti mi coprivano la testa tonda, unico evidente segno del passaggio del tempo. I miei amati occhiali circolari, che molti reputavano troppo piccoli, si adagiavano sul naso aquilino tipico della mia famiglia. Una leggera ombra di barba mi abbelliva il volto dai tratti decisi. Sospirai.

– Sembro mio padre – borbotai con una punta di amarezza.

– Avviso per tutti i passeggeri. La portaerei è in vista. Stiamo iniziando le manovre di atterraggio, pertanto vi preghiamo di restare seduti con le cinture allacciate. Grazie.

– Siamo arrivati, finalmente – sussurrai, riponendo i documenti nel trolley nero. Prima di chiuderlo, infilai la mano all’interno e dal fondo di una cartellina tirai fuori una tessera. Erano i buoni pasto digitali della Coalizione, necessari per le aree di ristorazione della flotta. La riposi nella tasca interna della giacca e allacciai di nuovo le cinture, fin troppo strette per i miei gusti. Mi preparai all’impatto con la pista.

Contatto.

L’atmosfera era troppo ufficiale e pomposa. Il portellone venne spalancato dopo neanche dieci secondi dallo stop del velivolo. Mi sollevai, slacciandomi la cinghia con difficoltà. Afferrai il bagaglio e mi incamminai. L’aria fresca mi travolse e l’odore di mare riempì le mie narici non appena posai piede sulla scaletta di discesa. Questa cigolò rumorosamente. Issai il trolley per la maniglia e scesi.

C’era un sommario comitato di accoglienza. – Professor Talon, benvenuto. Da questa parte, la prego – mi disse un soldato in divisa, visibilmente infreddolito.

– Sì, certo. La seguo. – Ripresi a trascinarmi la valigia dietro di me. Seguii il militare in un condotto e poi lungo una scala a chiocciola, che mi costrinse di nuovo a portare la borsa a mano.

Arrivammo su un ponte interno molto umido. Mi ritrovai davanti a una barca attraccata direttamente in una delle cavità di ormeggio della portaerei. Queste navi moderne, metà vascello, metà porto di mare.

Un altro viaggio? – Mi scusi, ma non eravamo arrivati? – domandai con una leggera punta di sarcasmo.

Il soldato dall’aria intirizzita mi consegnò un giubbotto giallo di sicurezza. – Non ancora. Lo indossi, professore, è la procedura standard.

– Se lo dice lei…

Salii a bordo una volta calzata quella massa di plastica sulla giacca.

– Siamo diretti verso l’ammiraglia, professore.

Io annuii. – L’avevo capito.

Uscimmo dall’antro metallico e sfrecciammo fra le onde. – Non amo il mare, lo sa? Proprio per questo vivo in montagna! – Schizzi di acqua salata cominciavano a volare tutti intorno a noi. Il soldato non mi aveva neanche udito.

L’ammiraglia era imponente, sempre più grande secondo dopo secondo. Era grigia e impersonale, tanto da ricordarmi un modellino in scala. Non esponeva alcuna bandiera e questo mi lasciò perplesso. Dov’era il tipico patriottismo della Coalizione?

Transitammo nel bel mezzo della flotta, dispiegata e operativa. Altri motoscafi convergevano verso la nostra stessa destinazione, sollevando cascate d’acqua salata. Strinsi più forte il bagaglio, ripensando ancora al rapporto che avevo letto e preparandomi a un periodo di lavoro estenuante.

– Professor Talon, come certo saprà, sarà sottoposto a un prelievo di sangue, come da protocollo federale standard per i consulenti esterni. – Il soldato gridava le informazioni sovrastando il rumore del motore.

Annuii. Cercai di non pensare alla nausea causatami dall’oscillare dell’imbarcazione fra le onde. Ogni urto era come un calcio nello stomaco.

L’attracco al molo interno fu rapido e preciso. Mi ritrovai sul ponte di comando, disorientato come non mai. Notai un’infermiera dai capelli rossi in tenuta militare, l’espressione cordiale e gentile. Teneva in mano una cartellina.

Mi avvicinai. – Salve, sono Marcus Talon.

– Benvenuto professore, la stavo aspettando. Prego, una firma qui – disse, rifilandomi dei moduli e una penna nera. – Sono le autorizzazioni per i prelievi di sangue.

Firmai immediatamente, sperando di trovare presto un bar per bere un caffè. – Ecco fatto. – Restituii la penna.

– Grazie, professore. L’ambulatorio è da questa parte. – Seguii la ragazza nel locale bianco in fondo a un corridoio irrorato da tubi grigi. L’odore di alcol mi fece storcere il naso.

La ragazza indossò i guanti. – Braccio sinistro o destro, professore?

Mi scoprii la manica. – Sinistro, grazie.

Disinfettò e punse con la farfalla. Estrasse numerose provette di sangue, una dopo l’altra. Mi girò la testa per qualche secondo. Un rapido controllo della vista certificò ulteriormente la mia ben nota miopia.

– Mi scusi, dov’è il bar? – domandai scocciato, riprendendo il trolley per l’ennesima volta.

– Le verrà mostrato a tempo debito, professor Talon. Adesso è atteso in sala dieci. Buon lavoro e grazie per la pazienza dimostratami. – L’infermiera mi indicò un cestino. – Chewing gum?

Appena uscito dall’ambulatorio con il mio bottino di gomme da masticare, mi ritrovai davanti un ufficiale in attesa. Fronte sudata, cappello sotto il braccio e occhiaie. Il classico soldato federale ansioso di tornare a casa.

Fui più veloce di lui. – Sì lo so, la seguo – risposi rassegnato, già sapendo quale sarebbe stata la domanda. Mi tastai la giacca, la tessera della mensa era ancora al suo posto.

Venni condotto nella sala riunioni dieci della nave ammiraglia – a giudicare dalla piastra di plastica apposta fuori, dai numeri scoloriti – per il primo incontro riguardante l’anomalia oceanica.

– Lasci pure a me la borsa, professore – aggiunse l’ufficiale con tono cortese.

Consegnai il trolley, sistemandomi meglio la giacca sulle spalle. Il militare aprì la porta per me.

– Prego. Buon lavoro, professore.

– Grazie mille – risposi brevemente.

La stanza era affollata e piena di voci differenti. Compresi di essere palesemente in ritardo. Alcuni individui mi guardarono storto, ma la maggior parte dei presenti erano occupati a parlare fra loro o a scrivere sui cellulari. Militari, ricercatori e politici, il peggio del meglio della società umana era concentrato in quella sala. Una serie di lampade bianche rischiaravano il locale e un leggero odore di tabacco aleggiava nell’aria.

Molti erano visi conosciuti, mentre tanti altri erano totalmente nuovi. Presi posto silenziosamente, accomodandomi al grosso tavolo rettangolare fra due perfetti sconosciuti che mi guardarono di sbieco. Ero vestito in maniera semplice in confronto ai presenti. Un maglioncino grigio a collo alto leggermente stropicciato si nascondeva sotto una giacca scura, con sotto un paio di jeans consunti e felpati. Come unico accessorio indossavo un bellissimo orologio nero al polso sinistro, un recente regalo di mia sorella. Pulii velocemente gli occhiali con il maglione, avendo notato una piccola macchia di sale vicino al bordo della lente.

Le lampade si spensero facendo piombare la stanza in una leggera penombra. Rimase solamente un fascio di luce conica proveniente da un proiettore. Un uomo, la cui giacca militare era carica di medaglie e mostrine, si avvicinò al lato corto del tavolo. Si accostò al telo che fungeva da schermo. Toccò i tasti di un portatile.

Scese il silenzio totale.

– Buongiorno a tutti. Benvenuti a nome della Coalizione della Terra Unita. – L’accento dell’ufficiale, che stava parlando in inglese, era palesemente russo. I lineamenti facciali erano forti e, nonostante l’età, emanavano tenacia. La barba bianca marcava il volto affilato e temprato da anni di servizio. Aveva l’espressione di un uomo freddo e calcolatore. – Sono il generale Alexei Soln. Come avrete sicuramente letto nei rapporti preliminari che vi sono stati consegnati, siete stati convocati qui per una questione della massima segretezza. Tutto quello che vedrete e sentirete sarà classificato con il massimo grado di sicurezza esistente. – Si schiarì la gola, bevendo un sorso d’acqua da un bicchiere, sfruttando la pausa per dare l’effetto desiderato a quelle parole. Se era agitato, lo nascondeva bene.

Una leggera foschia iniziò ad aleggiare nella stanza. Qualcuno aveva iniziato a fumare e nella fievole luce si vedevano puntini luminosi accendersi e spegnersi come lucciole.

– Alle ore una e quarantacinque di tre giorni fa, coordinate universali temporali, è stata captata una serie di segnali da una fonte radio non identificata. È stata triangolata a undicimila metri di profondità nella Fossa delle Marianne. – Tutti i presenti ascoltavano, silenziosi e assorti.

Ero lì solo da pochi minuti e già percepivo puzza di sudore. Il tabacco si aggiungeva al tanfo, creando un mix insopportabile. Qualche colpo di tosse riempì quel silenzio e un bicchiere cadde dalle mani di un uomo barbuto, rovesciando l’acqua sulla superficie cromata, bagnando uno dei posacenere.

– Oh, scusate. – La sua parlata inglese aveva un accento inequivocabilmente italiano. L’evento venne ignorato da tutti. Il liquido rimase sul tavolo, formando un piccolo laghetto pieno di riflessi.

Alexei Soln continuò: – Il segnale si è ripetuto più volte, sempre uguale, per tre ore. Successivamente c’è stata una lunga pausa. Ha ricominciato questa notte e non ha più smesso. La seconda trasmissione è estremamente disomogenea rispetto alla precedente. – L’ufficiale premette un tasto. Sullo schermo apparve un protocollo composto da sequenze di bit e orari.

– Mi scusi, generale – interruppe il delegato politico degli Stati Uniti d’Europa, riconoscibile dalla spilla metallizzata sulla giacca. – Tutti, in questa sala siamo stati informati con le generalità dell’evento. Mi sta dicendo che nessuna entità civile o militare ha a che fare con la caduta in mare di qualche sonda, satellite o simile? – Aveva la faccia sudata e due baffi folti e poco curati. Il suo tono era molto seccato e, come per sottolineare l’affermazione, fece cadere nel posacenere un pezzetto di sigaro carbonizzato con un tocco secco dell’indice.

– Nulla di questo genere, signore. Però questa sua domanda ci porta a un altro tipo di avvistamento, effettuato poco prima dell’inizio delle trasmissioni dalla Fossa. Questi media che state per visionare provengono da varie fonti. – Avviò la proiezione di un video sul grande schermo, un filmato, a giudicare dal suo aspetto, processato da un telescopio.

Strinsi gli occhi, in quanto avevo capito dove tutto quel circo pomposo voleva andare a parare. La situazione mi ricordava molto le storie dei giornaletti che leggevo da piccolo o le serie televisive che mi vedevo la sera. Mi accomodai meglio sulla sedia per godermi lo spettacolo. I miei vicini fissavano il video a bocca aperta. Nella ripresa agli infrarossi c’era una luce verde che precipitava nel mare come una stella cadente. Terminava la folle corsa con un grande tonfo muto, pieno di schizzi. Le coordinate riportate in basso erano proprio quelle triangolate sul fondale.

– Bene. Ecco un altro video, questa volta dal satellite di una compagnia privata. – I fotogrammi successivi provenivano da una ripresa orbitale. Stessa scia minuscola, stesso luogo di impatto, stessa fine della corsa. Il video terminò. – Idee? – domandò Soln.

Un alveare preso a calci avrebbe fatto meno rumore. La sala si riempì di voci sovrapposte, trasformando la formalità della riunione in puro caos incontrollato. Io tacevo, riflettendo tra me e me su quelle informazioni, mentre il delirio si diffondeva tutto intorno.

– Ufo o spie, magari come qualche centinaio di anni fa. La storia si ripete sempre, ricordate!

– Alieni! Sono di nuovo gli alieni, ve lo dico io…

– Ma che dici, non ci sono prove!

Una gara a chi urlava più forte. Si sentirono gli scenari più assurdi. Rapimenti, alieni, robot assassini, nazisti su dischi volanti.

– Signori, vi prego! – Il generale Soln tentava di ripristinare l’ordine, invano.

Ero molto divertito dal comportamento infantile che i miei colleghi avevano dimostrato. Gli spettri del passato erano rimasti sedimentati nella società umana e anche nel 2119 venivano tirati fuori dal cappello per spiegare l’inspiegabile. I politici erano senz’altro i migliori perché dicevano letteralmente ogni cosa che gli passava per la mente senza alcun filtro.

Il silenzio tornò pian piano nella sala, mentre il generale finiva di bere un altro bicchiere d’acqua, presumibilmente per evitare di rispondere a domande senza senso.