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Non sono molti i viaggiatori che si inerpicano sui ripidi sentieri che conducono alle vette del Pòrstal: dopo Ljetzan, l'ultimo villaggio dove si possa trovare una locanda decente in cui alloggiare, è solo foresta fittissima, di bosco ceduo e poi di abeti, prima di arrivare ai pascoli d'alta montagna.

Su uno di quei sentieri, il Primo di Settembre dell'anno di Cristo 1917, 14 Dhu l–Qa'da del 1335 dall'Egira, settimo del Regno della Beatissima Imperatrice Nambui IV, arrancavano due personaggi che difficilmente avrebbero potuto essere più diversi.

Alto e asciutto l'uno, il viso abbronzato incorniciato da una giovane barba che ancora non aveva patito la lama del rasoio; gli occhi dardeggianti, perennemente in movimento, gli davano un non so che di feroce: parevano quasi mettere in guardia anche l'uomo più coraggioso su quello che si apprestava a dire o a fare. Dai tratti del viso, dalla struttura fisica, e anche dall'abito, lo si sarebbe facilmente riconosciuto come un indiano di casta elevata. La folta capigliatura nera, di cui usciva qualche ciocca negletta, era trattenuta da un candidissimo turbante di cotone. A tracolla, un corto fucile inglese a colpo singolo.

L'uomo che lo seguiva era un europeo, tarchiato quantunque ancora vigoroso, sulla cinquantina, con soltanto un leggero accenno di pinguedine. Fronte ampia, castani e brizzolati sulle tempie i capelli, un bel paio di baffi importanti e ben curati fregiavano il volto abbronzata dal sole e dal riverbero dei mari d'Oriente. Vestiva una pratica uniforme di fatica della Fanteria di Marina, con pantaloni bianchi e una vecchia giacca azzurra che, dopo aver patito l'ardore dei tropici e anche qualche proiettile di pirati cinesi e predoni arabi, svolgeva ancora il suo onorato servizio nelle battute di caccia.

– Due ore che marciamo e non c'è ancora traccia di questo fantomatico orso – brontolò l'indiano asciugandosi qualche stilla di sudore.

– Non ti preoccupare, Arjuna, lo troveremo anche troppo presto – replicò il Capitano Salgari fermandosi per accendere l'ennesima sigaretta.

Quasi a confermare le sue parole, Balter, uno dei battitori, fece cenno con la mano di tacere.

– De per is namp – sussurrò.

– L'orso è nelle vicinanze – tradusse Salgari; – puoi fidarti, fratellino: i montanari cimbri li sanno fiutare a distanza, sono meglio dei segugi, quei diavoli.

Come a un segnale convenuto, le altre due guide si accostarono ai cacciatori; se l'animale fosse apparso, si sarebbero protetti a vicenda.

I cimbri sono un'antica razza guerriera di origine germanica, leale alla Rani, quanto implacabile con chiunque osi sfidare le loro montagne, e avrebbero lottato fino alla morte, se fosse stato necessario, ma mai avrebbero abbandonato un amico in difficoltà. L'orso doveva essere un animale fuori del comune, altrimenti non si sarebbero rivolti a lui, quantunque il Capitano Salgari fosse un vecchio frequentatore delle loro terre.

Sulla foresta calò il silenzio. Solo un picchio solitario, lontano, faceva udire il suo ticchettio, come di un orologio che scandisse gli istanti che precedevano l'assalto.

– Eccolo, lo sento – disse Arjuna.

– Hai gli orecchi ben fini, tu…

– Sono indiano, amico, e sono nato cacciatore.

– Attenti!

L'orso, un vecchio maschio, doveva aver già assalito degli uomini, perché era arrivato controvento e poggiando le piante sul soffice strato di aghi di pino per non far rumore.

Il primo ad affrontarlo fu Balter, che scaricò addosso all'animale la sua doppietta a pallettoni, fece due passi indietro e gli puntò contro il bastone con la cuspide di ferro, ma nonostante la forza erculea del cimbro, l'animale glielo strappò con una zampata, e proseguendo nell'assalto gli lacerò la sopravveste di pelliccia; le unghie affilate penetrarono nella carne e una macchia porpora si allargò sul farsetto. L'uomo non urlò, malgrado il lancinante dolore, ma estratto il suo coltellaccio, prese a colpirlo sul muso, puntando agli occhi e al naso; la belva però sembrava in grado di anticipare le sue mosse, quasi la Natura l'avesse dotata di una misteriosa chiaroveggenza.

Già una volta Arjuna aveva fatto fuoco sulla massa scura; ricaricò e tornò a sparare, ma i formidabili proiettili da 50 sembravano non poter neppure attraversare la pelliccia del plantigrado. Presagendo per un atavico istinto l'arrivo del lungo e gelido inverno di quell'anno, le libbre di carne umana    che intendeva conquistarsi gli parevano appena sufficienti per crearsi lo strato di grasso sufficiente a trascorrere il letargo nella sua caverna e arrivare in buona salute alla primavera successiva.

– Basta – ringhiò Arjuna, e appoggiata l'arma al tronco del larice dietro a cui aveva trovato riparo, sguainò l'affilatissimo talwar, ma non ebbe il tempo di adoperarlo, perché anche il Capitano aveva esploso un colpo con la sua carabina, quasi a bruciapelo. L'animale questa volta arretrò, ma le zampe non lo ressero e si lasciò cadere a terra. Il fratello di Balter si avventò sul bestione e lo finì tagliandogli la gola.