Riflessioni su Le Guin

di Tom Moylan

Tom Moylan, Ralahine Centre for Utopian Studies, University of Limerick, ha scritto e curato diversi volumi sull'utopia e la teoria letteraria. E' fra l'altro autore di Demand the Impossible: Science Fiction and the Utopian Imagination (2° ed. Lang, 2014) e Scraps of the Untainted Sky: Science Fiction, Utopia, Dystopia (Westview P, 2000), nonché curatore, con Raffaella Baccolini, di Dark Horizons: Science Fiction and the Dystopian Imagination (Routledge, 2004). Di prossima uscita è Hunger and Hope: Reflections on Utopia and Political Agency.

traduzione di Luisa Marino

desidero complicare le cose, e le scelgo entrambe

Ursula K. Le Guin, I reietti dell’altro pianeta (1974)

 Ursula Le Guin è stata una delle scrittrici più incisive e stimolanti del nostro tempo. È giusto e appropriato che chi fra di noi ha un’alta considerazione del suo lavoro la onori in occasione della sua scomparsa. Come scrittrice, come guida politica e spirituale, Le Guin ha saputo cogliere lo spirito del tempo in cui viviamo e vi ha risposto con una sensibilità profondamente critica ma sempre fiduciosa nel cambiamento. È stata un’insigne iscritta del partito dell’utopia.

            A me, Ursula Le Guin (insieme all’altro gigante dell’utopia, Ernst Bloch) ha mostrato le possibilità dell’immaginazione e della pratica utopica in modi che hanno cambiato radicalmente la mia vita personale, politica e intellettuale dagli anni Settanta in poi. Quando negli anni 70, durante i grandi movimenti dei Long Sixties, ho unito la mia passione per la fantascienza all’impegno politico di opposizione al capitalismo e all’imperialismo, la fantascienza di Le Guin mi ha offerto un modo di combinare le due cose e portarle avanti nella mia ricerca di dottorato e, in realtà, addirittura nel modo di giudicare la natura e l’evoluzione della mia vita personale e politica. Incoraggiato da Jack Zipes, relatore della mia tesi, e dai suoi studi sulla letteratura per l’infanzia e sulla fiaba, interpretate attraverso l’ermeneutica critica della Scuola di Francoforte, ho cominciato i miei studi sulla nuova fantascienza degli anni 70. Le Guin, Joanna Russ, Samuel R. Delany, Philip K. Dick, John Brunner, Thomas M. Disch, Suzy McKee Charnas e altri stavano mostrando a molti di noi in quali modi gli esperimenti mentali creativi, di cui è capace l’immaginario fantascientifico, possano ri-presentare e ri-configurare il nostro mondo attraverso la grande capacità del genere di provocare uno straniamento cognitivo. L’opera di Zipes e, successivamente, la svolta degli importanti contributi di Darko Suvin (a cominciare da On the Poetics of the Science Fiction Genre nel 1972) mi hanno fornito una cornice teorica a partire dalla quale mi sono potuto dedicare al nuovo sviluppo del genere, mentre allo stesso tempo la tradizione critica SF, con la sua solida base nel fandom, mi teneva ancorato ai protocolli creativi specifici del genere.

            Se i romanzi del ciclo di Earthsea e il provocatorio La mano sinistra delle tenebre (1969) mi avevano già fatto entrare in sintonia con la visione creativa e politica di Le Guin, è stato I reietti dell’altro pianeta del 1974 a dare una svolta al mio lavoro. A quel punto, col supporto di Zipes e del suo lavoro sull’utopismo della Scuola di Francoforte, ero già arrivato a una rivalutazione del potenziale della scrittura utopica, ma “l’utopia ambigua” di Le Guin unì tutto: il fantascientifico, l’utopico, il politico e il personale, intrecciati insieme in una potente narrazione che sfidava fortemente l’ordine mondiale contemporaneo mentre ne offriva una visione radicalmente alternativa – e, soprattutto, una figurazione sul modo di realizzare quella visione, attraverso un filo utopico che cuciva insieme la crescita della capacità di azione sul piano personale e la realizzazione di una trasformazione politica rivoluzionaria (e, in questo senso, I reietti dell’altro pianeta prosegue l’opera di William Morris in Notizie da nessun luogo). Ho iniziato così a concentrare i miei studi sulla fantascienza utopica; e negli anni seguenti ho aggiunto i testi che infine chiamai “utopie critiche”, fra cui Female Man di Joanna Russ (scritto nei tardi anni ’60 ma pubblicato nel 1975), Sul filo del tempo di Marge Piercy e Triton di Samuel Delany (entrambi del 1976). A quel punto, l’ermeneutica utopica di Ernst Bloch, sia nella sua essenza, sia richiamata nelle problematiche critiche sviluppate da Fredric Jameson, stava plasmando ulteriormente la mia prospettiva critica.

            Tuttavia, al centro c’erano sempre Le Guin e I reietti dell’altro pianeta. Possiedo e lavoro ancora con la prima edizione rilegata da lei autografata (acquistata a San Francisco nel dicembre del 1975 durante la conferenza della Modern Language Association, alla quale partecipavo per la prima volta in qualità di relatore con un intervento intitolato “Science Fiction and Young Readers” in una sessione sulla letteratura per l’infanzia organizzata da Jack Zipes). La copia, sulla quale ho condotto la mia prima ricerca e che ho riletto molteplici volte nel corso degli anni, è istoriata con un palinsesto di note, in diversi colori e in diversi caratteri, durante tutti questi anni. A volte, la lettura si concentrava sul mio progetto critico, e specialmente sullo sviluppo delle argomentazioni sull’utopia critica; ma altre volte la mia lettura era profondamente personale e politica, influenzando e costituendo l’instabile struttura del mio sentimento (sulla struttura del sentimento si veda Raymond Williams, Marxism and Literature, Oxford: Oxford UP, 1977, 128-136).

            Due passaggi mi hanno accompagnato nel corso degli anni, entrambi sottolineati, evidenziati, annotati molteplici volte. Il più importante, senza dubbio, si trova alla pagina 197 della mia edizione Harper&Row. È il momento in cui Shevek, appena arrivato a Urras, incontra i fisici suoi colleghi e insieme intraprendono una conversazione che oscilla fra fisica e politica. Mentre da un lato lui si sforza di esporre il senso del proprio studio, ancora in fase di sviluppo, sulla fisica della sequenzialità e della simultaneità, il contrappunto della conversazione è il conflitto storico fra l’originario pianeta Urras e la sua casa anarchica Anarres. Le risposte di Shevek alle domande curiose ma impegnative degli scienziati Urrasti diventano sempre più articolate e appassionate mentre lui intreccia la consapevolezza scientifica e la coscienza politica che caratterizzano la sua vita e il suo lavoro. Nell’asintotica discussione che ne deriva, etica e scienza si avvicinano molto: la questione del cambiamento radicale attraverso l’azione responsabile, nei limiti e oltre le condizioni del mondo dato, diventa più insistente. Dichiarando la propria adesione all’azione radicale pur rimanendo ancorato alla determinazione storica e alle possibilità della realtà sociale, Shevek sceglie di fare “due affermazioni contradditorie sulla stessa cosa” e lo esprime con una frase che da allora ricorre nella mia mente e nei miei studi: “Io invece desidero complicare le cose, e le scelgo entrambe” [dall’ed. it., I reietti dell’altro pianeta, trad. Riccardo Valla (Milano: Nord, 2014)]. Dal momento che ha valore all’interno sia delle dinamiche della storia che dell’esistenza personale, con questo bellissimo e succinto esercizio di dialettica, attraverso le parole di Shevek, Le Guin ci offre un insegnamento sulle sovradeterminate possibilità del futuro racchiuse nel dispiegarsi di una trasformazione radicale della società. Come afferma Shevek dopo la sua dichiarazione (in una sintesi del proprio immaginario scientifico e politico): “Noi non vogliamo la purezza, bensì la complessità, il rapporto di causa ed effetto, fini e mezzi. Il nostro modello del cosmo dev’essere inesauribile come il cosmo stesso. Una complessità che comprenda non solo la durata, ma anche la creazione, non solo l’essere, ma anche il divenire, non solo la geometria, ma anche l’etica. Non è tanto la risposta ciò che cerchiamo, quanto il modo corretto di formulare la domanda…”. Sono tornato più e più volte sulla saggezza di Le Guin, espressa nell’enunciato dialettico di Shevek, ricavandone ispirazione in tutti gli ambiti della vita.

            L’altro passaggio è più chiaramente politico, e cattura un’altra dimensione importante del processo utopico come lo discutevo nei miei primi studi sull’utopia critica e nella più recente esplorazione sulle dinamiche della formazione della soggettività e dell’azione utopica (il tutto fortemente plasmato dagli studi di Bloch, Jameson e Ruth Levitas). La tesi è questa: affinché faccia effetto, sia da un punto di vista personale che storico, un autentico metodo utopico richiede una rottura critica col pensiero e con le pratiche egemoniche (la denuncia implicita nell’ermeneutica negativa) prima che l’articolazione di un giudizio radicale e di una visione anticipatrice, che abbia lo scopo di costruire un mondo migliore per tutta l’umanità e la natura (l’annuncio implicito nell’ermeneutica positiva), possa essere concretamente espresso ed esercitato. Non mettere in pratica entrambe le cose significa rischiare una ricaduta nella chiusa e soffocante realtà dell’ordine dominante oppure una fuga in un immaginario castello in aria utopico che può soltanto lenire lo sconforto più nero. A questo punto della storia, Le Guin cattura in maniera splendida quel cruciale momento negativo fondamentale e negativo (momento che Alain Badiou ha più recentemente identificato come rupture événementielle [“evental break”]) di trasgressione che deve precedere la trasformazione totalizzante richiesta per un’azione autenticamente rivoluzionaria (si veda Alain Badiou, Saint Paul: The Foundation of Universalism, tr. Ray Bressier, Stanford: Stanford University Press, 2003 e Ethics: An Essay on the Understanding of Evil, tr. Peter Hallward, London/New York: Verso, 2001).

            Ancora su Urras, Shevek si imbatte in un’insurrezione per le strade della capitale, e ascolta i discorsi di un leader anarchico che arringa gli insorti e sollecita un’azione rivoluzionaria. Shevek ascolta, pronunciati da un portavoce dell’emergente movimento sul repressivo pianeta dal quale proviene, i principi che hanno dato forma alla società Anarresti, espressi in quel caso come aspirazioni, non come politica ufficiale. In risposta, aggiunge il suo contributo alla dimostrazione con un appassionato discorso che si conclude con le seguenti parole: “Non potete comprare la Rivoluzione. Non potete fare la Rivoluzione. Potete soltanto essere la Rivoluzione. È nel vostro spirito, oppure non è in alcun luogo”, dichiara il giovane leader. Com’è prevedibile, l’elicottero d’assalto del governo al potere si lancia all’attacco, spingendo i ribelli contro le porte bronzee del Direttorato, forzandoli a cercare una via di scampo nei grandi atrii di marmo, cosa che termina con un massacro annunciato. Il brano chiave si verifica dunque mentre le truppe di terra marciano sopra e in mezzo ai corpi dei manifestanti: “Quando quelli giunsero, risalendo in marcia, nei loro bei cappotti neri, i gradini, tra uomini e donne morti o morenti, videro sulla parete alta, grigia, levigata del grande atrio una parola scritta all’altezza degli occhi di un uomo in piedi, con grandi macchie di sangue: ABBASS”. Con questa dichiarazione così eloquentemente negativa nel suo grande rifiuto verso il potere dominante, non cresce solo la rivoluzione interna, ma anche la stessa determinazione di Shevek a sostenere la ribellione Urrasti così come a realizzare la distruzione e trasformazione dialettica del proprio ordine sociale, fossilizzato e compromesso, su Anarres. Per questo, la sua grande scoperta in fisica della Teoria Temporale Generale (che permette alla scienza e all’ingegneria di rendere possibile la comunicazione trans-galattica attraverso l’ansible, che poi apre la strada per una Federazione Galattica più efficace e avanzata, sotto il governo degli illuminati Hainish) si combina con la scoperta sulla leadership politica che contribuisce tanto alla rivoluzione su Urras quanto a portare al successo l’utopia critica del Sindacato dell’Iniziativa che esce vittorioso dalla seconda rivoluzione su Anarres.

            Con questo breve resoconto di questi passi, crucialmente formativi, di I reietti dell’altro pianeta, voglio solo dare un’indicazione della portata e del significato del contributo di Le Guin al modo in cui conosciamo e abitiamo il mondo in cui viviamo, poiché lei ci mostra come un cambiamento radicale, a livello politico e personale, possa intrecciarsi e avanzare verso un orizzonte utopico. In questo spirito, suggerisco di ritornare tutti sulle sue opere, più e più volte, in maniera produttiva (anzi, credo sia necessario ritornare tutti sulle sue opere) mentre ci sforziamo di andare avanti nei nostri tentativi, politici ed esistenziali, di rifiutare i sistemi sociali in cui viviamo e in cui continuiamo a operare insieme per costruire qualcosa di buono per tutti.

            Terminerò le mie riflessioni ritornando sulle scuse che ho scritto a Le Guin nella nuova introduzione a Demand the Impossible per l’edizione Ralahine Classics del 2014. Se nel mio primo studio analizzavo e chiarivo il valore rivoluzionario di tutte le utopie critiche di Russ, Le Guin, Delany e Piercy, con Le Guin la mia critica è stata molto più dura rispetto agli altri tre testi. In quella che, adesso lo ammetto, era l’espressione piuttosto immatura di un giovane critico, ingigantivo il suo mettere in primo piano la figura singola di Shevek come qualcuno che decentrava e perciò sminuiva la necessità dell’azione collettiva, e monodimensionalmente criticavo quello che percepivo come un privilegiare la coppia eterosessuale di Shevek e Takver (allo stesso tempo relegando a un ruolo secondario il gay Bedap). Nel 2009, Darren Jorgensen ha criticato il mio commento su Le Guin e I reietti dell’altro pianeta; e in questa nuova introduzione rimando i lettori alla sua critica e dichiaro di concordare con la sua valutazione, creando così l’occasione per le mie scuse e per la mia stessa autocritica (Darren Jorgensen, “On Failure and Revolution in Utopian Fiction and Science Fiction of the 1960s and 1970s”, Colloquy: text theory critique 17 [2009]: 6-16).  Come ho detto nel 2014:

Con quanto c’è di più vicino al rimorso, e queste vogliono essere delle scuse sincere nei confronti dell’autrice, guardo adesso alla mia dura (inesperta? estrema?) critica di I reietti dell’altro pianeta di Ursula K Le Guin. Non indugerò sulle condizioni o sulle limitazioni della mia analisi…ma vi rimanderò all’utile critica di Darren Jorgensen, aggiungendo che sono più o meno d’accordo con lui (anche se tuttavia le sue valutazioni non si accordano pienamente con le mie). In verità ho di certo insegnato I reietti dell’altro pianeta più spesso di tutti gli altri quattro (al secondo posto, a poca distanza, Sul filo del tempo di Piercy); e nelle discussioni recenti sull’utopia come metodo sono tornato ripetutamente a Shevek e al Sindacato dell’Iniziativa come figurazioni indicative del processo di trasformazione utopica radicale, processo in cui si deve scegliere, dialetticamente, sia un coinvolgimento radicale col mondo che esiste, sia una ferma dedizione verso l’orizzonte della trasformazione. (“Introduction to the Classics Edition”, Demand the Impossible: Science Fiction and the Utopian Imagination, ed. Raffaella Baccolini, Oxford and Bern: Peter Lang, 2014: xxi-xxii).

Inutile dirlo, il mio più grande rimpianto è non aver scritto personalmente a Le Guin. Spero comunque che le mie parole resistano nel cosmo a sufficienza così da poter essere abbracciate, in qualche dimensione, da quello che può essere o non essere il suo spirito.

            Ursula le Guin ci ha lasciato un’eredità di creatività e saggezza che continua a vivere con noi. La sua fedeltà a un mondo plasmato da una dialettica di cooperazione e compassione deve essere, anzi sarà, parte di quello che può metterci in grado di andare avanti nel lavoro radicale che andrà fatto negli anni a venire. Noi la onoreremo continuando a leggere a imparare da lei.

            PS: Riprendo il binomio cooperazione e compassione dalle conversazioni in corso con la mia compagna, Kathleen Eull, mentre ci muoviamo verso una più piena consapevolezza di noi stessi e del nostro posto nel mondo, e del lavoro da fare (lei proveniente da una sensibilità e un punto di vista fortemente, ma non esclusivamente, buddista, io da una sensibilità e un punto di vista fortemente, ma non esclusivamente, marxista e militante).