Stefano Pivato. Favole e politica: Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra Fredda

di Antonino Fazio

Antonino Fazio vive e lavora a Torino. Nel campo della fantascienza, è autore di racconti e saggi comparsi su varie pubblicazioni, fra cui Futuro Europa, Nova, Robot e Urania, e di un'antologia personale, CyClone (Perseo 2005). Con Riccardo Valla ha curato una raccolta di saggi su Cornell Woolrich (La morte ha mille occhi, Elara 2010).

Stefano Pivato. Favole e politica: Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra Fredda. Bologna: Il Mulino, 2015. 190 pp. € 19,00.

Nel suo Favole e politica, lo storico Stefano Pivato analizza il modo in cui la politica utilizza personaggi e situazioni di fiabe e favole (nel volume non c'è una distinzione tra i due termini) come spunto creativo per i suoi messaggi propagandistici. Il periodo storico di riferimento è quello immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, caratterizzato da quella trasformazione della lotta armata in lotta politica che fu la cosiddetta Guerra fredda. In questa sorta di rovesciamento del motto di von Clausewitz, la continuità tra le due forme di scontro appare nettissima.

La guerra fredda come fiction, narrazione travestita ma scopertamente realistica, viene combattuta soprattutto sulla carta stampata, ma coincide con l'avvento della televisione, il medium “freddo” per eccellenza nell’accezione di McLuhan, nel senso che, per poter essere fruita, ha bisogno del coinvolgimento volontario dello spettatore.

Se la politica si regge su un racconto che ha pretese realistiche, cos'ha da spartire con le fiabe, storie scopertamente fantasiose? Il libro di Pivato risponde in qualche modo a questa domanda, offrendo esempi e commenti. L'utilizzazione delle storie per bambini, per inserirvi personaggi realmente esistenti e trasformarli in animali o esseri dotati di caratteristiche negative e ripugnanti, è introdotta storicamente dall'abitudine a rappresentare gli avversari politici mediante caricature e zoomorfizzazioni, che trasformano i tratti somatici in modo da suggerire una lettura negativa dei tratti caratteriali.

Queste rappresentazioni metaforiche e allegoriche adoperano sia il linguaggio verbale sia quello delle immagini. Il registro è quello, feroce e spesso elementare, della satira. All'interno di questa pratica, l'uso di personaggi e storie presenti nell'immaginario favolistico e fiabesco è dovuto all'impatto che storie e personaggi ben conosciuti assicurano ai messaggi propagandistici. La pratica non è appannaggio esclusivo di un singolo schieramento politico. Addirittura la stessa favola, segnatamente Le avventure di Pinocchio, di Carlo Collodi (1881), viene utilizzata da più parti, con il famoso burattino dapprima “arruolato” come balilla dai fascisti, e poi utilizzato per sponsorizzare le posizioni ideologiche del PCI, della Democrazia Cristiana e dei socialdemocratici (cap. 5).

In effetti, il caso di Pinocchio è emblematico dell'attitudine a “riscrivere la storia”, da parte di chi detiene il potere o aspira a ottenerlo. La famosa fiaba del burattino viene infatti letteralmente riscritta, in modo da farle assumere, di volta in volta, il significato che gli si vuole far trasmettere. Paradossalmente, proprio in Pinocchio, ricorda Pivato (92), si ritrova l'espressione “narrare favole” nel senso di “raccontare bugie”. In una versione del 1948, diffusa alla vigilia delle elezioni dai socialdemocratici di Saragat, l'elettore Pinocchio, irretito dal gatto Nenni e dalla Volpe Togliatti che lo vogliono abbandonare nelle mani di Mangiafuoco Stalin (che ha la maschera di Garibaldi), viene salvato dalla Repubblica Italiana, nelle vesti della Fata Turchina. Una storia simile, dal titolo Le disavventure di Pinocchio, viene pubblicata, stavolta dalla Democrazia Cristiana, alla vigilia delle elezioni del 1961 (entrambi gli albi sono inseriti nel libro).

Si potrebbe notare che questo esempio di riscrittura è abbastanza diverso dal semplice uso di stilemi, personaggi e motivi delle fiabe da parte della politica. In effetti, ricorda più le storie riscritte in ambito letterario e cinematografico. A parte l'intento propagandistico, è ben noto che ciascuna nuova narrazione di una storia ne modifica in misura più o meno ampia il significato complessivo o parziale. Rimanendo nell'ambito delle favole, basterà pensare al modo in cui il film Maleficent, (Robert Stromberg, 2014) modifichi il personaggio della strega rispetto al classico Sleeping Beauty (1959) basato sulla famosa fiaba di Charles Perrault ripresa anche dai fratelli Grimm.

Un tipico esempio dell'identificazione di un avversario politico con un personaggio negativo è presentato in un disegno riprodotto anche sulla copertina del volume, in cui Palmiro Togliatti viene raffigurato come il lupo cattivo nelle vesti della nonna di Cappuccetto Rosso, che rappresenta invece la parte cattolica del popolo italiano, come la didascalia si prende la briga di precisare (19).

La simbologia utilizzata non sempre è trasparente, perciò gli elementi raffigurati sono spesso identificati in maniera esplicita. In una vignetta apparsa su Vie nuove nel 1948, compare ad esempio un enorme serpente, sagomato nella forma della “esse” del dollaro e con su scritto “Piano Marshall”. Il serpente fronteggia minacciosamente il governo De Gasperi (dunque l'Italia) e sulle sue spire, a scanso di equivoci, compare in doppia fila il segno del dollaro (20). Ma la simbologia non si ferma qui, perché i ministri vengono rappresentati con le orecchie d'asino, a significare la loro ottusità di fronte alle lusinghe statunitensi. Infine, e non a caso, il titolo della vignetta è “Fascino”. L'offerta, apparentemente generosa, di denaro è intesa infatti come l'esca di una subdola conquista, una sorta di cavallo di Troia. Il simbolismo della vignetta, pur di agevole interpretazione, ha una certa complessità, dovuta ai diversi livelli di lettura che vi sono simultaneamente implicati. Il serpente, che rappresenta il dollaro e dunque gli Stati Uniti, è anche il simbolo di una minaccia politica. Le orecchie d'asino sono un innesto metonimico (la parte per il tutto) che ha il valore di una metafora (i ministri sono dei ciuchi).

Come si nota da questa mia analisi descrittiva, la raffigurazione presenta una struttura semiotica tutt'altro che elementare, il che lascia intuire la raffinatezza con cui vengono costruiti questi messaggi. Il libro di Pivato si sofferma sulla ricostruzione filologica delle “favole politiche”; ad esempio, la figura di Stalin viene presentata dai comunisti come quella di un bonario padre di famiglia, nume tutelare del popolo russo e protettore dei fanciulli, e dai cattolici come quella di un orco che i bambini, addirittura, li mangia. Tuttavia, queste favole non rientrano del tutto negli schemi proposti da Propp (7) perché non sempre presentano gli elementi da lui indicati come centrali (10). Infatti “[l]a fiaba politica non risponde ad alcuna classificazione ed è piegata all'unico scopo di renderla funzionale alla propaganda” (8).

Dalle descrizioni di Pivato emerge dunque che il concetto di “favola”, applicato alla propaganda politica, è da intendere, in senso ampio, come una mitizzazione della realtà, una costante deformazione dei dati di fatto, piegati agli interessi di parte senza badare troppo alla verità. Conta soprattutto la forza evocatrice delle immagini utilizzate, come i cosacchi che abbeverano i cavalli nella fontana di piazza San Pietro, un simbolo d'invasione non avvenuta (che Pivato lega alla forma dell’ucronia; 73-74) che mantiene tutto il suo impatto anche dopo che i cosacchi reali sono stati spazzati via.

Tutto ciò implica l'idea, da parte degli apparati di governo o di opposizione del periodo, che il popolo vada “educato”, termine che sottintende la natura manipolatoria dell'operazione, ma implica che essa venga fatta nell'interesse dei destinatari. Il sottinteso ipocrita di questa posizione emerge nella polemica sul Politecnico del 1946-47 quando, in risposta alla “tirata d'orecchi” di Togliatti, Elio Vittorini replica che allinearsi alle direttive del partito comunista sarebbe come “suonare il piffero della rivoluzione” (11-12). L'episodio conferma che, in clima di guerra fredda, non solo i conservatori e i cattolici ma gli stessi comunisti avevano sposato una concezione didattica della cultura.

In questa logica, anche campioni sportivi come Coppi e Bartali vengono usati (di fatto senza il loro esplicito assenso) per propagandare, con le loro vittorie, le opposte ideologie di comunisti e cattolici. Ma le cose non si fermano qui, perché la deformazione della realtà arriva al punto di creare delle vere e proprie “leggende metropolitane”, favole nel senso di invenzioni che entrano nell'immaginario collettivo.

Emblematica in tal senso è la diceria sui comunisti che “mangiano i bambini” (cap. 7). Pivato spiega che all'origine ci sono eventi reali, distorti e utilizzati contro gli avversari politici.  Alla diffusione di questa favola contribuiscono anche alcuni episodi di cronaca nera, come i processi del 1946 contro l'infanticida Rina Fort e la “saponificatrice” Leonarda Cianciulli, mentre il nocciolo di verità che può esservi collegato è da riferirsi a episodi reali di cannibalismo accaduti in Russia in periodi di carestia e durante l'assedio di Leningrado.

L'occasione per importare la favola nell'Italia del dopoguerra fu il trasferimento, organizzato da alcune associazioni laiche, di alcune migliaia di bambini poveri (circa 70.000) da zone del Sud colpite dai bombardamenti a regioni del Nord. I cattolici si opposero a questo esodo, proclamando che dietro la facciata umanitaria ci fosse l'intento di manipolare le famiglie a scopo elettorale e che si volessero mandare i fanciulli a lavorare in Unione Sovietica, dove sarebbero stati indottrinati.

Queste paure corrispondevano forse a convinzioni effettive dei cattolici, i quali però arrivarono a diffondere notizie non solo false (creazioni della stampa fascista e poi della Rsi), che estendono ai comunisti la leggenda antisemita dell’“accusa del sangue” (141-42), ma perfino assurde, e che tuttavia attecchirono presso gli adulti e ancor più nei bambini, molti dei quali pensavano che sarebbero stati fatti a pezzi e messi in scatola, per essere poi utilizzati come cibo.

Ecco dunque che il libro di Pivato, nel mostrare in che modo la propaganda politica inventa metafore spacciate per verità, viene opportunamente a ricordarci che il mondo è fatto di narrazioni.