Scienza, magia e fantascienza

In forma di dialogo critico, l'articolo è un'esplorazione del rapporto instaurato da fantascienza e fantasy con i concetti di scienza e magia. Storicamente mutevoli, e legati anche alla specifica modalità retorica della loro presentazione, questi concetti restano sfumati; nondimeno, la scienza (anche immaginaria) si distingue dalla metafisica per il rigore del metodo di indagine del mondo possibile. In questo senso, l'attribuzione di un testo a un genere o all'altro può condurre a risultati contro-intuitivi: esempi sono opere di Peter F. Hamilton e Ted Chiang.

di Riccardo Valla e Antonino Fazio

Riccardo Valla (1942-2013), in qualità di editor, critico e traduttore, è stato uno dei massimi promotori della fantascienza e della fantasy in Italia. Redattore presso case editrici quali la Nord e la Bollati Boringhieri e collaboratore di giornali e riviste, specializzate e non, ha scritto introduzioni a testi fantastici, classici e contemporanei, e curato antologie, raccolte di saggi e mostre. Negli ultimi anni è stato tra gli animatori del MuFant di Torino.

 Antonino Fazio vive e lavora a Torino. Nel campo della fantascienza, è autore di racconti e saggi comparsi su varie pubblicazioni, fra cui Futuro Europa, Nova, Robot e Urania, e di un'antologia personale, CyClone (Perseo 2005). Con Riccardo Valla ha curato una raccolta di saggi su Cornell Woolrich (La morte ha mille occhi, Elara 2010).

IntroduzioneA.F. – Il presente articolo è il quarto, e ultimo, scritto a quattro mani con Riccardo Valla. Ho conosciuto Riccardo negli anni '70 del secolo scorso. A quel tempo lui aveva una libreria nei dintorni della stazione centrale di Porta Nuova, a Torino, e io ero andato a trovarlo per comprare alcuni romanzi di Philip Dick. In quell'occasione riuscii a parlargli: gli chiesi notizie di un libro citato da A.E. van Vogt, la Semantica Generale di Alfred Korzybski, della cui esistenza non ero certo (in effetti, la teoria era stata esposta in Science and Sanity, del 1933).

La volta seguente fui meno fortunato, perché Riccardo era sempre circondato da un capannello di persone che lo bersagliava di domande. Finimmo col perderci di vista, perché io all'epoca non frequentavo il fandom fantascientifico (andai solo una volta a Padova, perché The Time Machine aveva pubblicato un mio racconto). Fu solo dopo il 2000 che, finalmente, mi decisi a prendere contatto col mondo degli appassionati. Così, Riccardo e io ci ritrovammo. Da allora ci capitò di vederci con una certa frequenza, in occasione di incontri in varie città: Bologna, Piacenza, Fiuggi, il ponte della Becca a Pavia, ecc.

In quel periodo capitava spesso di ritrovarci col gruppo degli appassionati torinesi a casa di G.L. (ovvero Gaetano Luigi) Staffilano, traduttore di mestiere e grande amico di Riccardo. In seguito ci interessammo alle attività del MuFant (Museo del Fantastico e della Fantascienza) creato da Silvia Casolari e Davide Monopoli. Nel frattempo Riccardo mi propose di curare insieme un volume di saggi su Cornell Woolrich e di scrivere degli articoli sulla fantascienza, sotto forma di conversazioni fra noi due.

Nel 2005 scrivemmo il primo di questi articoli, che uscì nel 2006 su Futuro Europa, la rivista curata da Ugo Malaguti e Lino Aldani. Nel 2008-09 scrivemmo il secondo, che uscì nel 2010 su Nova SF*. Il terzo fu scritto nel 2009-2010 e consegnato a Malaguti, il quale lo inserì nel sommario del n. 82 di Nova SF*, che a oggi non è ancora uscito. Nella seconda metà del 2011 Riccardo e io iniziammo un quarto articolo e lo portammo avanti, senza troppa fretta, per tutto il 2012. Era quasi terminato allorché, il 14 gennaio del 2013, Riccardo venne a mancare in maniera del tutto inattesa, e per me traumatica. Era lunedì e ci eravamo visti a cena con gli amici del MuFant il sabato sera, appena due giorni prima.

Metabolizzato l'evento, mi ero ripromesso di completare l'articolo, ma il fatto che il precedente fosse rimasto inedito mi frenò. Alla fine, l'opportunità per rimetterci mano mi è stata offerta da Salvatore Proietti per Anarres. Così, ho riavviato la conversazione con Riccardo, rimasta sospesa per ben quattro anni, e l'ho portata a conclusione, o almeno a una conclusione che lui avrebbe, per quel che ne posso sapere, accettato.

Voglio aggiungere qualche parola sul perché, a mio parere, Riccardo scelse la forma dialogica per scrivere questi articoli a quattro mani. Da un lato, a lui interessava discutere di questioni teoriche insieme ad altri, e farne emergere un testo unitario. Al tempo stesso, ci teneva a far sì che il contributo di ciascuno fosse facilmente attribuibile all'uno o all'altro. La forma dialogica era dunque particolarmente adatta all'obiettivo di rappresentare il modo in cui idee e ragionamenti venivano intrecciati e sviluppati grazie all'impulso di entrambi gli interlocutori, fino a formare una trama più complessa e tuttavia coerente. Inoltre, il fatto che io parlassi a lui e lui a me ci impediva di dimenticare che, quando si elaborano concetti, occorre farlo in maniera che il nostro pensiero risulti chiaro per gli altri. Insomma, era un ottimo espediente anche per dare ai discorsi una forma meno ingessata e, per l'appunto, più colloquiale.

Lo stile informale della scrittura risente dunque del fatto che noi costruivamo gli articoli o attraverso vere e proprie conversazioni, nel corso di una cena, un viaggio in treno o una passeggiata, oppure attraverso scambi di email; così gli spunti già emersi venivano sviluppati, ove necessario “montati” in modo da mantenere un filo logico, e infine portati a conclusione. Tutto ciò avveniva in tempi non troppo rapidi, perché il senso di fretta avrebbe rovinato il divertimento intellettuale che riuscivamo a trarre dalle nostre discussioni. Una volta chiuso l'articolo, io riprendevo le citazioni fatte a braccio e andavo a recuperare le fonti. Inutile dire che mi sarebbe piaciuto poter proseguire a lungo questa abitudine, che mi ha permesso di fare un pezzo di strada insieme a uno dei maggiori studiosi italiani nel campo della fantascienza.

A.F. – Nell'articolo precedente (Il simbolismo fantascientifico) abbiamo parlato delle interrelazioni esistenti tra due paradigmi in apparenza molto diversi, per non dire antitetici: scienza e magia. Tu ricordavi un'osservazione di J.G. Ballard a proposito dell'uso delle armi nucleari (in The Terminal Beach, 1964). Citando lo psicanalista freudiano britannico Edward Glover (War, Sadism and Pacifism [1947]), Ballard parla di “Nagasaki distrutta dalla magia della scienza” (“Nagasaki destroyed by the magic of science”, 251), un'espressione che mette insieme, icasticamente, i due termini contrapposti, quasi facendone un'endiadi.

R.V. – Dicevo anche che i prodotti della scienza sono dapprima immagini nella mente, che poi la tecnologia realizza.

A.F. – Nel senso che dietro la scienza esiste un immaginario, proprio come dietro la magia.

R.V. – Certamente. E, quando il collegamento tra causa ed effetto non è abbastanza chiaro, la tecnologia diventa una sorta di magia. Premi un pulsante, e si accende una lampadina.

A.F. – Hai ragione, la prima volta dev'essere sembrato un sortilegio! È una cosa di cui non ci rendiamo conto, perché ormai ci siamo abituati. Le magie tecnologiche non ci stupiscono più, ma nemmeno una comunità abituata alla magia si stupirebbe del fatto che una lampada si possa accendere, per esempio, con un comando vocale. L'altra volta avevi dato una definizione del concetto di magia.

R.V. – Sì, dicevo che la magia consiste nel credere che nel mondo fisico valgano le leggi formali del linguaggio, che il mondo fisico sia comandato dal linguaggio, che il mentale possa agire direttamente sul fisico, insomma.

A.F. – Esattamente. Partirei da qui per proseguire il raffronto tra scienza e magia (l'altra volta il discorso era poi deviato verso il simbolismo della scienza). Mi pare che la tua definizione comporti un immediato raffronto con le credenze religiose. La capacità di dominare la materia con la volontà, espressa attraverso la potenza del linguaggio, è la caratteristica principale della divinità, e anche (in forma attenuata) della magia.

R.V. – Direi di sì. D'altra parte, sono convinto che molte immagini della fantascienza abbiano una radice religiosa (benchè Wolfe ad esempio trascuri questo aspetto).

A.F. – Quindi, dalla doppia premessa della prossimità tra magia e religione, e tra religione e fantascienza, emerge per transitività la conclusione che la fantascienza abbia a che fare sia con la scienza, sia con la magia.

R.V. – Oltre che con la religione, come stavo dicendo. Le religioni hanno tutte a che fare con l'aldilà, la sua esistenza e la sua eventuale organizzazione, e io resto convinto che tutta la letteratura (fantascienza compresa) sia un tentativo di esorcizzare il pensiero della morte.

A.F. – Talora la fantascienza si è posto esplicitamente il tema, ad esempio in Zardoz di John Boorman (1974) che citavi in uno dei nostri “dialoghi” (Il simbolismo nella fantascienza). Ma, più in generale, la fantascienza veicola, credo, l'idea che si possano superare i limiti fisici dell'uomo (dunque anche la morte, in qualche modo) grazie alle scoperte della scienza e alle conquiste tecnologiche. Un intero settore della prima fantascienza si è occupato del superumano, e attualmente il postumano è incanalato nella stessa direzione.

R.V. – Arthur Clarke disse che ogni scienza sufficientemente progredita rischia di passare per magia, e sulla falsariga delle sue parole si potrebbe dire che “Ogni fantascienza sufficientemente progredita rischia di passare per fantasy”. Lavorando su alcune delle ultime cose che ho tradotto per Urania, ad esempio la “techno-opera” (space opera ad alta citazione di tecnologie) come quella di Greg Egan o dell'inglese Peter Hamilton, mi sono trovato davanti a descrizioni che non erano spiegate nel libro che traducevo, e che si rifacevano a precedenti opere dello stesso autore, o della fantascienza in generale. Posso citare in particolare Il tempo del Vuoto, appunto di Hamilton, che faceva seguito a Il Sogno del Vuoto. Se uno non ha letto i precedenti, mi chiedo: cosa capisce? Per esempio, nel ciclo del Vuoto i personaggi hanno “campi bionico-nanonici” che li proteggono e che quando vengono settati come arma arrivano ad avere la potenza di cannoni, oltre a potenziare la memoria, permettergli di vedere al di là dello spettro e chi più gliene vengono in mente, più ne metta. Questi scrittori, chi più chi meno, hanno preso da questa corrente che citavi (il postumanismo). C'è anche da considerare una variazione del gusto. I film di fantascienza hanno lasciato da parte i discorsi ragionati e puntano sull'effetto sorprendente, e così fanno anche alcuni scrittori.

Certo che, se uno ha letto i romanzi degli ultimi anni, sa che si presume di poter mettere nell'organismo macchine poco più grosse di una molecola, capaci di unirsi tra loro in base a determinati segnali, in modo da formare macchine più grosse, contenute nell'organismo, e che creano l'equivalente di una tuta spaziale o di un “campo di difesa” (qualunque cosa sia). Analoghe tecnologie (o diverse) sono poi protesi mentali collegate al cervello, capaci di calcolare, routinare (eseguire procedure di routine) per noi, e magari ragionare o dirigere il nostro comportamento.

A parte il fatto che le spiegazioni scientifiche di tutte queste belle cose, quando sono date, non sono mai molto convincenti (ma neanche quelle di E.E. Smith, Campbell o la Legione dello spazio lo erano, all'epoca della super-science fiction), a me pare che questo tipo di romanzi finisca per minare la natura stessa della fantascienza. Prendiamo una frase tipo “attivò le nanoniche in posizione d'attacco e con un impulso disgregante abbatté la parete” e confrontiamola con quest'altra: “Mago Merlino sollevò la bacchetta e con una scarica di potere magico buttò giù il muro”. A me sembrano la stessa cosa: la differenza è che la prima paga un servizio verbale (frase ricalcata dall'inglese: rende omaggio a parole) alla scienza, la seconda fa riferimento alla magia e basta.

Ora, se la fantascienza più evoluta e tecnologica scivola verso le lusinghe della magia, dove ciascuno fa quello che gli pare e la plausibilità è fuggita via urlando, che ragione abbiamo di parlare di fantascienza? Per professare una sorta di fondamentalismo scientista “a orecchio”?

A.F. – La tesi che fantascienza e fantasy siano due sottogeneri del fantastico, sostenuta in particolare da Gianfranco de Turris (154; cfr. anche F*, di Giuseppe Lippi), è stata messa in dubbio da Alessandro Fambrini. Ma, vero o meno, possiamo supporre che la differenza stia tutta nel gergo usato (oltre che nei presupposti)? In tal caso avrebbe ragione Algis Budrys: se in un western sostituisci la colt con una pistola a raggi, diventa fantascienza. Io sarei più per la tua tesi, secondo la quale in alcuni casi (vedi la fantascienza “molto progredita”) tra fantascienza e fantasy non c'è una vera differenza malgrado le premesse e il technobabble. Quando invece la fantascienza non si sbilancia troppo, la differenza c'è e si vede, anche nello svolgimento.

Sull'enunciato di Clarke, direi che l'indistinguibilità tra scienza (progredita) e magia stia nell'incapacità di trovare una spiegazione razionale da parte del profano. Tipicamente è l'uomo primitivo che scambia la scienza per magia. Se il super-scienziato sostiene di essere un mago, come faccio a smentirlo? Se poi dice invece di non essere un mago, gli devo credere sulla fiducia? In realtà, però, sono le mie premesse culturali che mi convinceranno di avere a che fare con la scienza, piuttosto che con la magia (o viceversa). In tal senso, la mia fede “assiomatica” nella scienza non sarà troppo diversa dalla fede di qualcun altro nella magia (oppure nella religione). A meno che, naturalmente, le mie premesse razionalistiche non siano sistematicamente messe alla prova di volta in volta, anziché date acriticamente per scontate.

R.V. – Per sovrapporre fantascienza e fantasy occorre avere un po' il vizio di Occam: per non moltiplicare gli enti, si prende quello che hanno in comune e si trova che sotto quell'aspetto si eguagliano. Eh, certo che sono tutti fantastici. Sono fiction, mica biografie o cronache. Però esiste una cosa che Suvin chiamava la giungla genologica [Metamorfosi, cap. 2], ed esistono i generi. Secondo Amis, la differenza tra i generi non è semplicemente il fatto che i librai li mettono in scaffali diversi, ma il fatto che il loro assunto fondamentale diverge.

Per esempio, il genere alla Lovecraft ha per assunto che il mondo sia inconoscibile e nemico dell'uomo (cfr. H.P. Lovecraft, Supernatural Horror in Literature, 1927). Allo stesso modo il giallo, secondo me, ha per assunto che chi trasgredisce compia sempre qualche errore, il western che chi è nel giusto spara più in fretta di chi ha torto. La fantascienza ritiene che tutto l'immaginabile sia realizzabile con mezzi scientifici, il fantasy che tutto l'immaginabile sia realizzabile col potere della mente. Ossia, per il fantasy, il mondo è volontà e per la fantascienza è rappresentazione (della scienza).

Finisce che certe storie possono essere raccontate in modo efficace con un genere e non con un altro. Riesci a immaginare una magia sociologica, analoga alla fantascienza sociologica? Dato che il fantasy cancella (prendiamoci lo sfizio di dirla in termini marxiani) i rapporti di produzione, non può esserci una magia “sociologica”. Anche se la fantascienza può prendere in prestito temi dall'horror (la Cosa da un altro mondo è una sorta di Dracula) o dal fantasy. La cosa che mi colpisce è come la componente “scienza futura” finisca ormai per essere incontrollata, come i poteri sovrannaturali nel fantasy: storie che partivano da un'idea possibile (come le nanoniche) oggi non tengono più conto della realtà. Per esempio, come fai a creare un “campo di forza” che circondi una casa o una nave o una persona? O come fai ad avere nanoniche che gestiscano energie abbastanza grandi senza scaldarsi in modo impossibile per chi le contiene? O nanoniche estremamente piccole, ma capaci di lavorare come macchine di von Neumann, ossia di riprodursi e di fare anche un lavoro? Oppure, in Egan, dispositivi simili alle nanoniche che in pochi secondi analizzano un corpo e un cervello? Hanno rinunciato alla plausibilità, secondo me, ma vi hanno rinunciato per poter raccontare qualcosa di implausibile. Della fantascienza resta solo la promessa – questa volta fallace – che tutto potrebbe essere realizzato dalla scienza.

A.F. – Proprio nei romanzi appartenenti al “ciclo del Vuoto”, che citavi prima, Hamilton introduce un micro-universo anomalo, che è contenuto in quello normale e si espande a spese di quest'ultimo. Le leggi della fisica sono diverse tra un universo e l'altro, a causa di differenze esistenti negli stati quantici sottostanti. Ora, la conseguenza fondamentale che questo comporta si esprime nel fatto che nell'universo anomalo (il Vuoto che dà il nome al ciclo) le tecnologie avanzate non funzionano, come se i fenomeni elettromagnetici non esistessero, almeno nella forma che noi conosciamo.

In compenso, però, nel mondo descritto da Hamilton i poteri mentali sono assolutamente normali, benché siano distribuiti in misura non uniforme tra i vari abitanti. Inoltre, quel che è più interessante, hanno più o meno le stesse funzioni delle protesi super-scientifiche utilizzate dai più avanzati tra gli abitanti dell'universo normale.

Vediamo così che le capacità telecinetiche (la cosiddetta “terza mano”) possono ottenere risultati analoghi a quelli ottenuti con le protesi “biononiche”, capacità telepatiche come la “lungivista” sostituiscono la connessione mentale ottenuta per mezzo del “campo gaiano”, e così via. Ora, è vero ciò che dicevi, cioè che Hamilton non spiega molto dei dispositivi ultrasofisticati da lui introdotti, ma non c'è dubbio che li faccia risalire a una tecnologia futura molto avanzata, laddove i poteri mentali presenti nell'universo anomalo sono quelli che tu segnalavi come caratteristici della magia, e dunque dei mondi inventati dal fantasy.

Ne deriva che Hamilton sembra aver introdotto questo mondo dominato dalla mente – dove le case e le città sono creature viventi e dove si ha la certezza che le anime esistono – apposta per evidenziare la differenza rispetto all'universo tecnologicamente avanzato del Commonwealth. Come se volesse evitare le accuse che tu gli rivolgi, insomma, quindi come se fosse consapevole che le sue invenzioni sono carenti sul piano della giustificazione scientifica. L'operazione ha tuttavia qualcosa di ambiguo, perché l'esistenza dei poteri mentali viene giustificata da un'ipotesi scientifica ad hoc, vale a dire da una presunta differenza tra gli stati quantici dei due universi. Pertanto, in maniera abbastanza paradossale, non viene semplicemente sottolineato il sostrato tecnologico del Commonwealth, ma lo stesso universo anomalo viene recuperato all'ambito fantascientifico.

In definitiva, è quasi come se Hamilton dicesse che o è tutto fantasy, o è tutto fantascienza.

R.V. – La sovrapposizione tra fantascienza e fantasy può anche reggere, ma in termini locali, un po' come la scienza, che è valida solo localmente, ossia dove è valida.

Vediamo di dire qualcosa di più sistematico (almeno nelle intenzioni). “Letteratura realistica” è una vecchia etichetta usata pure all'interno della fantascienza, quando si parlava anche di mainstream. In seguito forse qualcuno ha scoperto Auerbach (Mimesis) e ha parlato di letteratura mimetica. Io stesso trovo comodo contrapporre le parti mimetiche e quelle fantastiche in un'opera: un metodo un po' freudiano, che presupporrebbe che, quando l'autore inventa, sia sincero (o viceversa). La domenica, quando faccio indossare a un articolo il vestito della festa, dico “metonimiche e metaforiche” che fa fico (il realismo è metonimico perché rappresenta una parte del mondo per rappresentarlo tutto; il fantastico è metaforico perché rappresenta il mondo in maniera non letterale).

Non so quanto sia ancora applicato il concetto realistico vs fantastico, e infatti parlavo di fiction e non-fiction, che è più chiaro. Fiction sono storie d'invenzione, non-fiction sono storie che parlano di fatti realmente avvenuti. Spiace dover usare termini inglesi, ma lo fanno tutti. Come dicevo, il termine “realistico” si usava anche nella fantascienza, ma per dire che i personaggi devono comportarsi in modo realistico, e così pure le scienze. Devono essere plausibili secondo le attuali conoscenze scientifiche. In genere si faceva eccezione per le scienze non ancora esistenti, come la psionica o le nuove branche della fisica (come quelle inventate da E.E. Smith o da Williamson negli Umanoidi). A me personalmente piacciono queste scienze immaginarie, essendo un po' seguace del surrealismo e vedendo il mondo fisico reale come un limite alla libertà dell'immaginazione. Però anche queste scienze non dovrebbero confliggere con i princìpi scientifici conosciuti. I vecchi critici, come Blish e Knight, seguivano questi criteri.

Comunque, questa corrente sosteneva che la fantascienza è realistica, diversamente (aggiungo io) dai racconti in cui vige la logica del sogno. Al limite anche il fantasy ha elementi realistici. Per cui molti hanno preferito seguire Suvin e il suo criterio del “novum”. Ultimamente ho usato il termine “congetturale”, che usava Versins: una storia è di fantascienza quando contiene un elemento scientifico di conjecture rationnelle. Queste definizioni hanno però il difetto di eliminare gran parte della fantascienza; si salvano soprattutto le storie alla maniera di Wells, in cui si introduce un singolo elemento finzionale e poi si continua in modo mimetico. Nel fantasy manca questo rispetto per il mondo esterno, che in esso obbedisce a leggi animistiche, e mi pareva che il modo di scrivere di quei recenti scrittori di fantascienza si prendesse troppe libertà ad hoc con il mondo fisico, come fa il fantasy.

Memoria frattale e nanoniche di raffreddamento? Be', magari i ricordi possono essere compattati, tipo dvx, ma un certo numero di bit lo richiedono, così come il supporto fisico relativo. Hanno un bel riempirsi la bocca di stati quantici o di strani stati degli atomi, ma sono belle fantasie.

D'altra parte anche le belle fantasie sono interessanti, ma la differenza tra queste e quelle che giudicavo fantasy è che viene data una spiegazione. In un caso si parlava di vari tipi di gravitoni, ed era un bel discorso, una bella invenzione, qualcosa di creativo, non il semplice dire che si usa un campo difensivo. Nel primo caso, insomma, la spiegazione è un esempio di scienza immaginaria, ma nel secondo non c'è niente di creativo. Lo stesso vale per le nanoniche di raffreddamento. La termodinamica non funziona a livello di eventi atomici, ma al livello superiore funziona sempre, per ragioni statistiche. Se mi raccontassero come si può sfruttare un effetto atomico – che so, costringi un atomo, poco al di sopra dello zero assoluto, a perdere energia, e lui è costretto a prendere energia dall'ambiente per non finire sotto lo zero assoluto – e lo descrivessero anche, sarebbe una cosa interessante. Ma, se non mi danno una descrizione, allora è fantasy.

A.F. – Il che ci riporta all'aforisma di Clarke. Se la tecnologia non viene spiegata in modo plausibile, rispetto alle conoscenze scientifiche attuali, diventa magia. Dunque la fantascienza si trasforma in fantasy. Questa conclusione ci crea però qualche problema, come facevi notare. Lo stesso H.G. Wells non è che spieghi in modo convincente il funzionamento della sua macchina del tempo. Sì, certo, tu dici che lui si limita a introdurre un unico assunto finzionale, dopodiché formula delle ipotesi sui futuri cambiamenti socio-antropologici.

Proprio a partire da questa considerazione, direi che, plausibilità scientifica a parte, la differenza tra fantascienza e fantasy rimane quella legata alle caratteristiche dell'universo descritto. Se tutto viene ricondotto alla magia e ai poteri della mente, e se, come ricordavi, vengono cancellati i rapporti di produzione, allora non c'è dubbio che ci troviamo di fronte a una storia fantasy. Nel ciclo del Vuoto, allora, il mondo basato sui poteri mentali rimane comunque nell'ambito fantascientifico, perché Hamilton descrive accuratamente la struttura economica di questa società, nel quale i rapporti di lavoro sono strettamente dipendenti dai rapporti di potere. Il fatto che un animo puro e una forza mentale superiore possano trasformare questo mondo in una sorta di paradiso può forse suonare di nuovo come un'idea poco realistica e molto fantasy. Tuttavia, le descrizioni di una possibile utopia rimangono di pertinenza della fantascienza.

Un ulteriore esempio può essere rinvenuto in Ted Chiang, e segnatamente nel suo Torre di Babilonia (Tower of Babylon [Omni, 1990]). Il racconto di Chiang parte dall'assunto che la volta celeste sia davvero una barriera fisica, che dunque può essere effettivamente raggiunta da una costruzione abbastanza alta. La domanda è: si tratta di un racconto di fantascienza, oppure di un misto tra fantascienza e fantasy (science fantasy)?

Io credo che il racconto non sia una contaminazione, anche se prende per buoni gli assunti della cosmologia pre-scientifica esistente all'epoca biblica in cui è ambientata la narrazione. Infatti, l'ipotesi geocentrica funziona qui solo come controfattuale. Ciò che conta è che lo svolgimento di questa premessa sia conseguente, in base all'approccio razionale del metodo scientifico. Una tesi analoga è sostenuta dallo stesso Chiang in un'intervista (cfr. Farinella).

Ne deriva che, nella fantascienza, non sono le verità scientifiche a dover essere rispettate, ma il metodo. Dire che questo metodo dev'essere razionale implica che le regole applicate devono essere logiche, una volta stabilite le premesse e le condizioni al contorno. Questo sembra implicare che le regole debbano essere leggi naturali e che l'intervento del soprannaturale (nel senso originale del deus ex machina) sia escluso. A mio parere non c'è questa restrizione. Piuttosto, occorre che la dimensione metafisica, ove venga chiamata in causa dalla fantascienza (come talora è accaduto, vedi ad esempio A Case of Conscience di James Blish, 1958, o Psychlone di Greg Bear, 1979), risulti esplorabile come qualsiasi altro fenomeno. Il termine “esplorabile” sta qui per “indagabile con il metodo scientifico”.

Il punto è che, se il soprannaturale viene indagato col metodo scientifico, vuol dire che lo si tratta come se non fosse soprannaturale ma naturale. Di fatto, nel racconto in questione, la volta celeste non separa il mondo terreno dall'empireo, ma conduce in un luogo dalla topologia particolare.

Sempre Chiang, nell'intervista citata, dice una cosa interessante sulla differenza tra fantasy e fantascienza. Egli sostiene che l'esperimento scientifico non dipende dallo specifico sperimentatore, mentre l'azione magica dipende dalla persona specifica del mago. Ne deriva, secondo Chiang, che la magia non è per tutti, mentre la scienza lo è.

R.V. – Insomma, la magia sarebbe aristocratica, mentre la scienza è democratica.

A.F. – Esattamente. Tuttavia, dato che la scienza, per poter arrivare davvero alla portata di tutti, deve trasformarsi in tecnologia, e dato che la tecnologia, da parte sua, è distribuita in base al censo, nemmeno la scienza è così democratica come può sembrare. D'altra parte, i rituali e gli oggetti magici, che in teoria potrebbero essere usati da chiunque, in pratica sono sempre in mano a una minoranza, e tendenzialmente a una singola persona. Al tempo stesso, anche se la tecnologia non è distribuita in modo egualitario, i principi scientifici che la sottendono sono, in effetti, alla portata di ciascuno. Di nuovo, la mentalità scientifica non ha una distribuzione uniforme, poiché dipende dal livello di intelligenza e di istruzione ma, se non l'istruzione, quantomeno l'intelligenza non è affatto distribuita in base alla ricchezza.

R.V. – Quindi è l'intelligenza a essere democratica.

A.F. – Direi proprio di sì. A proposito di magia, mi viene in mente ciò che mi hai detto una volta, negli anni ’70 nella tua libreria, sulla credenza nella stregoneria. Dicevi che tu non contesti, in linea di principio, l'idea che la stregoneria possa funzionare, solo che un colpo di randello ti sembrava più rapido ed efficace, per abbattere un nemico, di un complicato rituale voodoo.

R.V. – Sì, mi ricordo. Usavo quello che si potrebbe definire un argomento di tipo pragmatico. In fondo, se ci pensi, ciò che ha permesso alla scienza di prevalere sulla magia è stata la sua maggiore affidabilità. Un criterio pragmatico, appunto.

Postfazione – A.F. – La frase conclusiva di Riccardo chiude lo scambio di idee così come era avvenuto in quel momento, dato che il mio discorso su Chiang mi era già venuto in mente allora (avevo un appunto in tal senso). Nel rileggere il testo, mi sono sorte alcune riflessioni che possono costituire una sorta di commento, fatto a posteriori ma derivante dai concetti contenuti nell'articolo.

Il punto di partenza di Riccardo è che, se la fantascienza fa uso di dispositivi mirabolanti, non spiegati in maniera convincente sul piano scientifico, finisce col confondersi con il fantasy. Questa idea è collegata alla definizione della magia come credenza nel fatto che la mente possa produrre effetti sulla realtà in modo diretto, senza il tramite della tecnologia.

A ben pensarci, nessuna delle due affermazioni è conclusiva, perché la fantascienza si è spesso occupata dei poteri mentali. Da qui sorge la precisazione che introdurre un singolo elemento non del tutto spiegato (che abbia cioè una spiegazione razionale debole) non compromette la definizione di fantascienza, purché da lì in avanti si proceda in termini scientifici. Il concetto di scientifico riguarda ovviamente il principio che qualunque evento sia spiegabile per mezzo di leggi, ovvero di regolarità sempre rinvenibili nell'esperienza a parità di condizioni.

L'aforisma di Clarke fa dunque riferimento non tanto a un'assenza di spiegazione, quanto alla possibilità di attribuire in modo plausibile un certo effetto a una determinata causa naturale, nei casi in cui il legame non risulti di immediata evidenza. Un'arma da fuoco può essere intesa come un arnese magico da chi non ha esperienza di fenomeni naturali che possano spiegare il fatto che basti un gesto per uccidere qualcuno; unequivalente situazione di superiorità culturale è, ad esempio, l’eclisse in A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court di Mark Twain (1889), dove peraltro ricorrono anche le armi da fuoco.

All'inverso, anche il più ignorante dei possessori di un televisore non pensa affatto che un telecomando funzioni in maniera magica, benché agisca a distanza e senza alcun tipo di connessione visibile con l'apparecchio. Nel concetto di magia c'è l'idea che l'effetto magico sia prodotto da un agente – un oggetto o un essere senziente – che abbia in sé una sufficiente “potenza magica”. Nella scienza invece vale il principio che un agente possa produrre un effetto solo sfruttando le leggi del mondo fisico.

Detto così, i due concetti rischiano di risultare meno distanti di quanto vorremmo, perché in entrambi i casi interviene il concetto di energia. Che differenza c'è, alla fine, fra potenza elettrica e potenza magica? Noi tutti sperimentiamo la capacità della mente di agire sul corpo, attraverso un atto di volontà. La teoria dei quanti ipotizza che un evento subatomico (il collasso della funzione d'onda) sia originato da un atto di osservazione, e la teoria del Big Bang immagina che l'intero universo sia stato prodotto dall'energia potenziale del vuoto (come dire, dal nulla).

In definitiva, la vera differenza tra scienza e magia mi sembra essere il concetto di “lavoro” (ed ecco perché il fantasy spesso non tiene conto dei rapporti di produzione, nel senso che non li problematizza). Non è che nella magia sia del tutto assente l'idea che, per poter produrre un certo risultato, occorra prepararsi; però la magia si basa sulla convinzione che si possano produrre effetti di per sé impossibili (resuscitare un morto, per dirne uno) e che l'effetto prodotto vada sempre oltre ciò che potrebbe, di per sé, essere ottenuto coi mezzi utilizzati (ad esempio, faccio apparire un mazzo di fiori lanciando in aria dei coriandoli). Ciò risulta evidente nella frase di Glover, citata da Ballard, sulla città di Nagasaki distrutta dalla magia della scienza. Ciò che Ballard e Glover intendono è che sembra esserci una sproporzione terrificante tra il gesto di sganciare una singola bomba e la distruzione apocalittica che ne è seguita.

La questione può essere colta meglio facendo riferimento alla magia da palcoscenico, il cosiddetto gioco di prestigio”. Che cosa occorre, in effetti, affinché il gioco colpisca gli spettatori? Le condizioni sono, per l'appunto, due. Da un lato il risultato deve apparire impossibile, al tempo stesso i gesti compiuti dal prestigiatore devono apparire inadatti a produrre il risultato stesso. Il gioco di prestigio è dovuto a questa doppia impossibilità. Il prestigiatore, in realtà, non pretende di compiere delle magie vere, ma solo di simularle. Tuttavia, questo non cambia nulla a livello dello spettacolo. Lo spettatore è in grado di immaginare che, per produrre quel risultato in apparenza impossibile, il prestigiatore ha dovuto lavorare molto e prepararlo in modo tale da poter poi ottenere quell'effetto con pochi, semplici gesti, in gran parte ininfluenti. Rispetto alla “magia tecnologica” la differenza è, appunto, che il gesto che sembra produrre l'effetto (abbassare una leva, schiacciare un bottone, puntare il telecomando) è esattamente quello che lo produce.

Allo stesso modo, nella magia vera (se esistesse) il gesto del mago dovrebbe produrre proprio quel risultato, e inoltre dovrebbe anche essere del tutto sproporzionato all'effetto prodotto, deve cioè sembrare insufficiente. Un esempio può essere uno schiocco delle dita che fa sgorgare l'acqua di una fontana (che in realtà ha un dispositivo a tempo). Il che, in definitiva, ci riporta al punto di partenza della discussione, quando Riccardo diceva che introdurre dispositivi troppo mirabolanti rischia di far scivolare la fantascienza nel fantasy, per il fatto che le premesse esplicative non giustificano a sufficienza il loro funzionamento, come se appunto ci fosse una sproporzione tra mezzi e obiettivi.

In altre parole, come direbbe Riccardo, la fantascienza non deve farla troppo facile.

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