Il club di lettura di James Tiptree Jr.; ovvero, una teoria mitocondriale della letteratura

Precedenti all'organismo di cui sono parte, e allo stesso tempo mantenendo la loro autonomia di azione, i mitocondri offrono un utile modello per l'intertestualità della SF/F, e specialmente di quella delle donne. Il dialogo fra testi, e tra chi li scrive e legge, può essere riconosciuto e valorizzato al meglio soltanto se si consente alle comunità sorte dalla pratica della scrittura e della lettura di compiere il suo ruolo. La cancellazione della SF delle donne è funzione della cancellazione di questi sforzi collettivi, azioni che spesso vanno oltre nozioni autoritarie del controllo autoriale; in effetti, alla bloomiana "angoscia dell'influenza", tutta al maschile, si sostituisce un'"euforia dell'influenza" che, frutto della scrittura delle donne, consente una permanenza anche agli autori maschi omaggiati e riscritti.

di Brian Attebery

Brian Attebery, Idaho State University, è direttore del Journal of the Fantastic in the Arts.  Fra i suoi numerosi studi sul fantastico, The Fantasy Tradition in American Literature (Indiana UP, 1980), Strategies of Fantasy (1992), Decoding Gender in Science Fiction (Routledge, 2002) e Stories about Stories: Fantasy & the Remaking of Myth (Oxford UP, 2014). Con Ursula K. Le Guin, ha curato The Norton Book of Science Fiction (Norton, 1993); e con Veronica Hollinger, Parabolas of Science Fiction (Wesleyan UP, 2013). Ha inoltre curato, finora, tre volumi della Library of America dedicati all'opera di Le Guin.

traduzione di Roberta Berlingò

Il presente saggio è stato letto come keynote speech conclusivo del 2016 James Tiptree Jr., Symposium: A Celebration of Ursula K. Le Guin, svoltosi alla University of Oregon, a Eugene, 2-3 dicembre 2016, ed è stato pubblicato con il titolo The James Tiptree Jr. Book Club; or, A Mitochondrial Theory of Literature sulla rivista online Tor.com (dic. 2016). Ringraziamo Brian Attebery per averci concesso di tradurlo, e per la sua collaborazione nella compilazione della bibliografia. [SP]

Probabilmente sarà necessario il mio intero intervento per spiegarne il titolo. Parlerò dei mitocondri, ma non ancora. Per prima cosa, i club di lettura. Un po’ di mesi fa, ascoltando un podcast di Lightspeed Magazine, ho sentito un racconto dal titolo The Karen Joy Fowler Book Club, di Nike Sulway. Di Sulway avevo letto e mi era piaciuto molto il romanzo Rupetta, vincitore del premio Tiptree, ed ero affascinato dal titolo della storia, un riferimento diretto a The Jane Austen Book Club (2004), che è uno tra i miei dieci romanzi preferiti di Karen Joy Fowler. Non appena ho iniziato ad ascoltare la storia, ho capito immediatamente come interagiva con l’opera di Fowler, non solo nel titolo ma anche nel paragrafo iniziale. Inizia così:

Dieci anni fa, Clara aveva frequentato un seminario di scrittura creativa condotto da Karen Joy Fowler, e quel che Karen le aveva detto era: “Viviamo in un mondo fantascientifico”. Durante il seminario, Karen Joy continuava a dire: “Parlerò dei finali, ma non ancora”. Tuttavia Karen Joy non aveva mai trovato il tempo di parlare dei finali e Clara aveva lasciato il seminario con la sensazione di esservi rimasta sospesa dentro, in attesa, trattenendo il respiro. (Sulway Karen)

Il che è assolutamente tipico di Karen e indubbiamente intenzionale. Tuttavia, la storia di Sulway prende una serie di pieghe diverse e inaspettate che la collegano non solo con Fowler – e indirettamente con Jane Austen attraverso il titolo – ma anche con James Tiptree, Jr. Clara e il resto del suo club di lettura, a quanto sembra, non sono umani, sebbene abbiano nomi, case, giardini, e club di lettura, ma sono rinoceronti. Sono gli ultimi rinoceronti, che vivono una graduale estinzione. La causa dell’estinzione non viene mai nominata, ma siamo chiaramente noi, poiché nel racconto il mondo reale esiste, come uno sfondo distorto. Il bracconaggio e l’indifferenza umana hanno già sterminato i rinoceronti neri occidentali nella storia reale e sono in procinto di farlo ad altre sottospecie. Nella storia di Sulway lo humor è intrecciato in maniera inestricabile con la rabbia e con una profonda tristezza, e anche questo è assolutamente tipico di Karen Joy Fowler, ad esempio in una storia dal titolo What I Didn’t See.

La storia di Fowler ha vinto un premio Nebula, suscitando lo sdegno di un certo numero di uomini (ma non di donne, che io sappia) perché non era veramente fantascientifica. Tuttavia lo è, o per lo meno dialoga con la fantascienza, e la scrittrice con cui sta avendo una chiacchierata intensa e alquanto dolorosa è Tiptree, di cui riecheggia nel titolo il classico The Women Men Don’t See (1973). Nella storia di Tiptree troviamo la giungla, il razzismo, gli alieni e donne che si chiamano fuori dal sistema patriarcale. Anche Fowler lo fa, tranne per il fatto che il suo continente è l’Africa piuttosto che la Meso-America, e che i suoi alieni sono nati sulla terra. Sono gorilla di montagna. La storia tratta di una spedizione per cacciarli, con la motivazione, stranamente confusa, di far sembrare i gorilla meno formidabili – e perciò con meno probabilità di esser massacrati – mostrando che perfino una cacciatrice donna è in grado di abbatterne uno. Ciò suggerisce un altro collegamento con Tiptree, o meglio con la donna che era l’alter-ego di Tiptree nel mondo reale, e con la biografia scritta da Julie Phillips, James Tiptree, Jr.: The Double Life of Alice B. Sheldon (2006). Phillips inizia la sua biografia con un’immagine dall’infanzia di Sheldon:

Nel 1921 nel Congo belga, una bambina di sei anni proveniente da Chicago con un elmetto da esploratore sui ricci biondi cammina in testa a una fila di portatori nativi. Sua madre le cammina accanto, tenendo un fucile e la mano della figlia. (1)

I genitori di Sheldon erano esploratori che avevano portato la figlia con sé, forse con motivi simili a quelli degli esploratori nella storia di Fowler: far sembrare l’esotico meno rischioso e più in pericolo. Questo non impedì al gruppo di uccidere: elefanti, leoni, e cinque gorilla (sebbene avessero la licenza per meno della metà di quel numero). La biografia di Phillips include una foto di Mary Hastings Bradley, la madre di Sheldon, in posa con guide native e una pistola. Phillips sottolinea che la stessa spedizione nella quale vennero uccisi i cinque gorilla – assieme al libro che Bradley scrisse al riguardo, On the Gorilla Trail – fu un punto di svolta nel sentimento popolare nei confronti delle grandi scimmie, portando alla creazione di riserve per la fauna selvatica, allo scopo di proteggere i gorilla e altre specie.

Dunque la storia di Sulway ci invita a leggerla assieme a molti altri testi: un romanzo e un racconto di Karen Fowler, una storia e una biografia di Alice Sheldon, e il memoir della madre di Sheldon. Ma non è tutto. Il romanzo di Fowler è anche, ovviamente, immerso nell’opera di Jane Austen. Si può leggere The Jane Austen Book Club come ha fatto mia moglie, inframmezzandone i capitoli con la rilettura dei relativi romanzi di Jane Austen, e probabilmente è il modo ideale per leggerlo. Il libro di Fowler sta in piedi da solo, ma così dove sarebbe il divertimento? L’avanti e indietro del dialogo fra testi è molto più ricco, più problematico e più significativo. E non chiama in causa solo Austen: attraverso uno dei personaggi, il libro ci invita a leggere Connie Willis, Nancy Kress, e specialmente Ursula K. Le Guin, che è sempre un consiglio eccellente.

Intervistata nel 2004 su What I Didn’t See, Fowler menziona alcune delle sue ispirazioni, che includono non solo The Women Men Don’t See di Tiptree, ma anche, dice,

un saggio di Donna Haraway che contiene una sorprendente affermazione, […] che nei primi anni Venti, un gruppo fu condotto nella giungla dall’uomo che dirigeva il Museum of Natural History di New York, e che il suo scopo era che una delle donne uccidesse un gorilla. Era dell’opinione che i gorilla fossero visti sempre di più come una selvaggina eccitante e pericolosa, e che essi fossero in realtà molto gentili, e che se una donna ne avesse ucciso uno, il brivido sarebbe scomparso. Quindi il suo piano era proteggere i gorilla facendo sembrare la loro uccisione come una cosa che qualsiasi ragazza poteva fare. Questo mi affascinava (e mi riempiva di sgomento), ma un paragrafo più giù, rimasi estremamente sorpresa leggendo che una delle donne che avevano preso parte alla spedizione, una delle due donne da lui scelte per interpretare quella parte, era la madre di James Tiptree. (Lawrence)

Verso la fine della storia di Fowler, il narratore commenta che, dopo gli omicidi e la sparizione di uno dei suoi membri, gli esploratori erano “tutti noi, completamente fuori di noi stessi” (185). Così la storia di Fowler non solo guarda indietro, verso l’infanzia di Tiptree, e di lato, verso la scienza femminista di Haraway, ma anche avanti (in una specie di viaggio nel tempo), verso la biografia di Tiptree, pubblicata un paio d’anni dopo, e il proprio romanzo We Are All Completely Beside Ourselves (2013), che non sarebbe apparso prima di quasi un decennio.

Potete immaginarlo come un raduno di testi che la pensano allo stesso modo: una sorta di club i cui membri sono libri. Immaginateli incontrarsi per fare gossip, condividere idee, e lamentarsi insieme di come il mondo li stia ignorando o li stia interpretando male. Non vorrei forzare troppo questa metafora – potreste fare una piccola pazzia, agghindarli di cappelli da sole e dar loro piattini di biscotti e bicchieri di vino – ma l’idea di un club per soli libri mi aiuta a vedere come i riferimenti interni funzionano all’interno delle storie di cui parlavo.

Il tradizionale termine retorico per questa pratica è allusione. Negli elenchi degli artifici letterari, solitamente trovereste il termine subito dopo allegoria. L’implicazione è che le connessioni trans-testuali siano soltanto un modo per abbellire un testo. È quello che le persone generalmente pensavano anche della metafora, fino a quando George Lakoff e Mark Johnson hanno detto (sto parafrasando) “Fermi! Questi non sono solo ornamenti. La metafora è un modo di pensare”. L’intuizione di Lakoff e Johnson è che la metafora sia parte del nostro equipaggiamento mentale di base. Il loro libro Metaphors We Live By (1980) mi dà il permesso di fare due cose: una è cercare aspetti cognitivi fondamentali nella pratica di riferirsi ad altri testi; l’altra è cercare ulteriori metafore per descrivere questa operazione, poiché termini non metaforici come riferimento, allusione, e anche l’intertestualità di Julia Kristeva, sono ingannevolmente astratti.

Una cosa che manca in questi termini è la funzione sociale della letteratura: il modo in cui i testi si collegano con persone così come con altri testi. Ci plasmano e ci ispirano, e dipendono da noi per essere portati in vita. La mia metafora del club dei libri non ha persone al suo interno, ma quei libri non si metteranno in circolo da soli. E la circolazione è parte centrale dell’intertestualità. Ecco perché abbiamo movimenti e revival letterari: per tenere i testi davanti a noi, così che ci si possa riferire a loro o comunque farli rimanere in uso. E, davvero, è il motivo per cui esistono critici e studiosi come me. La nostra funzione principale è continuare a ricordare i grandi libri che sono là fuori e insegnare come vedere quella grandezza. Siamo sia cheerleader che guide turistiche. Ogni opera letteraria che riteniamo importante ha avuto una quota di entrambi i ruoli. Senza Melville a condurre il tifo, non avremmo visto Hawthorne come un genio oscuro. La poesia modernista aveva bisogno di Ezra Pound e I.A. Richards per guidare i lettori nell’apprezzamento. Così il club dei libri è anche un club degli amanti dei libri, il che significa che la mia metafora è collassata nel letterale, ma non completamente. I club di lettura reali tendono a esser formati prevalentemente da donne, ma il Critical Establishment Book Club (scritto tutto in maiuscolo) tende a essere in prevalenza fatto di uomini. E gli uomini hanno una stupefacente capacità di dimenticare o sottovalutare le donne.

Molti anni fa Joanna Russ scrisse How to Suppress Women’s Writing (1983), che appartiene al club dei libri di cui vi ho parlato, poiché è un altro modo per parlare delle “Donne che gli Uomini non Vedono”. Inoltre, fa riferimento esplicito a scrittrici come Vonda N. McIntyre, Ursula K. Le Guin, Suzy McKee Charnas, Octavia Butler, and James Tiptree, Jr.: molte delle madri della fantascienza femminista, insieme alla stessa Russ. In un’arguta e tagliente panoramica modellata su A Room of One’s Own di Virginia Woolf, Russ elenca tutti i modi in cui la letteratura femminile viene scartata o marginalizzata dall’establishment letterario. Qui un paio delle sue osservazioni sono particolarmente rilevanti. Primo, la scomparsa delle scrittrici donne dalla storia letteraria sembra funzionare in ogni tempo e luogo, e spesso senza premeditazione: è come una legge naturale. Passando in rassegna reading list e antologie, Russ trova che

sebbene la percentuale di donne incluse rimanga più o meno fra il 5 e l’8 per cento, il personale coinvolto cambia notevolmente di libro in libro: Aphra Behn appare e scompare, Anne Bradstreet esiste o non esiste in base a chi leggi, Elizabeth Barrett Browning e Emily Brontë riemergono e affondano come il sughero, Edith Wharton è parte della letteratura inglese nel 1968 ma viene bandita nell’oscurità profonda nel 1977 – eppure ci sono sempre abbastanza donne per arrivare al 5 per cento ma mai abbastanza per sorpassare l’8 per cento. (79)

L’altra osservazione che prendo in prestito da Russ è la messinscena delle abitudini sociali – o lo statuto del club – intesa come giudizio estetico. I critici non escludono deliberatamente le scrittrici donne; semplicemente non le vedono e se la prendono con il libro piuttosto che con il lettore.

Russ immagina un illustre Circolo letterario (la sua versione del Critical Establishment club maschile) che spiega con spocchia le loro decisioni:

Ovviamente noi eravamo imparziali e avremmo fatto entrare immediatamente nel Circolo […] chiunque dimostrasse qualità Circolari, purché fossero proprio come le nostre.

In qualche modo, non lo erano.

In realtà ne abbiamo fatto entrare qualcuno (Questo ci ha fatto sentire generosi).

Quasi tutti, li abbiamo rifiutati (Questo ci ha fatto sentire di avere standard elevati e importanti).

[…] come potevamo lasciarli entrare?

Erano impacciati.

Il loro lavoro era debole.

Non trattava gli argomenti giusti. (135)

Da quest’elenco vorrei che ricordaste il termine “debole”. Ritornerà.

Le cose vanno un po’ meglio rispetto a com’erano nel 1983, quando il libro di Russ venne pubblicato, ma non quanto potremmo sperare. Ogni settimana, sulla New York Times Book Review leggo sempre, accanto alla recensione di apertura, lo speciale chiamato “By the Book”, in cui a uno scrittore viene fatta una serie di domande che includono “Quali libri hai sul comodino?” e “Quali altri generi ti piace leggere in particolare? E quali eviti?”. L’ultima è un invito a stroncare il gusto altrui, e l’invito è spesso colto dalle persone intervistate, che si dichiarano superiori al romance, o alla science fiction, o alla letteratura Young Adult. Solitamente le scrittrici donne elencheranno sia gli uomini e le donne che leggono, o che li hanno influenzati, o che vorrebbero invitare a cena. Altrettanto di solito, gli uomini elencano uomini. Beh, no: c’è un’occasionale donna simbolica, forse Austen. Non ho condotto unanalisi statistica, ma sospetto che il 5-8% di Russ si mantenga anche qui.

A volte l’autore in “By the Book” compie un grande sforzo per andare oltre il Circolo o anche commentarne le proprie limitazioni. Ero pronto per essere offeso dalla recente lista dello scrittore di fumetti Alan Moore, fino a quando sono arrivato agli ultimi nomi e alla dichiarazione finale:

Pynchon; Coover; Neal Stephenson; Junot Díaz; Joe Hill; William Gibson; Bruce Sterling; Samuel R. Delany; Iain Sinclair; Brian Catling; Michael Moorcock [...]; Eimear McBride; il notevole Steve Aylett per tutto, [...]; Laura Hird; Geoff Ryman; M. John Harrison; la sceneggiatrice Amy Jump... Senta, posso andare avanti per sempre o fermarmi. Sono già mortificato dalla patetica mancanza di scrittrici donne rappresentate e mi ritrovo a cominciare a inventare scuse sciagurate e imbarazzanti evasioni. Meglio se la chiudiamo qui. (Moore)

Se state tenendo il conto, sono 3 donne su 14 uomini, che sarebbe due volte l’8% di Russ. Non male. Pochi degli uomini intervistati sono così consapevoli di sé.

Il modello permane. Nel suo saggio Disappearing Grandmothers (2016), che aggiorna il libro di Russ, Le Guin nota che

[u]n’antologia di fantascienza recentemente pubblicata in Inghilterra non conteneva storie scritte da donne. Un clamore venne sollevato. L’uomo responsabile della selezione si scusò, dicendo che avevano invitato una donna a partecipare ma che non aveva funzionato, e in qualche modo non avevano notato che tutte le storie erano scritte da uomini. Che gran dispiacere. (90)

Le Guin, sempre conscia del potere delle parole, usa il passivo di proposito: “Un clamore venne sollevato.” Chi fu a sollevarlo? Chi è che fa benissimo a sollevare un clamore fintanto che viene presentata (verbo al passivo) la sua necessità? Perché nessuna donna è immune da questo tipo di dimenticanza selettiva. Angela Carter aveva notato il modello. In un’intervista sul Guardian, nel 1984 disse:

“Equivarrebbe a un piagnisteo affermare che uomini che non sono meglio di me sono molto più famosi e molto più ricchi, […] ma è sorprendente quello che l’Old Boys’ club fa per se stesso.” [Secondo la sua biografa] Quando i ragazzi elencavano gli “scrittori inglesi contemporanei importanti” […] includevano Kingsley Amis e Malcolm Bradbury, ma omettevano Doris Lessing e Beryl Bainbridge. Certamente non hanno mai incluso lei – a meno che i ragazzi non fossero B.S. Johnson o Anthony Burgess, che ammiravano entrambi il suo lavoro, e nessuno dei due era esattamente mainstream”. (Wood)

Oltre a farci sussultare di fronte alla cecità della comunità letteraria, questo commento di Carter dovrebbe ricordarci che quell’altro club dei libri – che include lei e Russ e Tiptree – include anche uomini svegli come Johnson e Burgess. Il gruppo di testi e scrittori con cui ho iniziato, allargandomi da Sulway a Fowler, Tiptree e Le Guin, include anche Samuel Delany (che viene citato da Russ) e vincitori del premio Tiptree come Patrick Ness, Geoff Ryman e John Kessel. Kessel ha vinto il premio per “Stories for Men” (2002), che affronta esplicitamente la resistenza maschile nei confronti delle opinioni femminili. Attualmente sta lavorando alla versione romanzo di una delle sue storie, Pride and Prometheus (2008), che nel titolo dichiara da sé di essere nello stesso club non solo di Austen, ma anche di Mary Shelley, creatrice della fantascienza (nel racconto Kessel mette insieme Mary Bennet, la saputella figlia di mezzo, e Victor Frankenstein, entrambi trattati in modo meschino dai loro autori originari).

Prima accennavo al fatto che i movimenti letterari contribuiscano a mettere in circolazione i libri e a tenerli sotto i riflettori. È palesemente il caso di un circolo letterario maschile come gli Inkling – Lewis, Tolkien e i loro amici. Il libro di Diana Pavlac Glyer sugli Inkling, The Company They Keep (2007), ha come sottotitolo C. S. Lewis and J. R. R. Tolkien as Writers in Community. Come ci viene suggerito, non è tanto uno studio delle loro opere, piuttosto un esame del modo in cui agirono da “risonatori”, come li definisce Glyer, l’uno per l’altro, alla luce della generale ostilità del Men’s Book Club dei loro giorni nei confronti del fantasy, che era visto come futile, poco artistico e… sì, debole. “I risonatori”, spiega Glyer, “svolgono la loro funzione mostrando interesse nel testo – sono entusiasti del progetto, credono che valga la pena farlo, e sono impazienti di vederlo completato” (48). Nonostante molti degli Inkling e dei loro commentatori neghino le influenze reciproche, ognuno ha reso possibile il lavoro degli altri.

E facevano frequenti riferimenti l’uno all’altro: dedicando i propri libri ad altri membri del gruppo, recensendo i loro libri, citandoli, alludendo ognuno al mondo immaginario dell’altro, trasformando persino altri Inkling in personaggi delle loro storie (Glyer 188-200). Glyer fa notare, ad esempio, che il modo di parlare forte e pieno dell’Ent Barbalbero fosse un riferimento alla voce tonante di Lewis (173). Gli Inkling si proponevano di far rivivere il mito e di reinventare il romance in un’era ostile a entrambi. Non stupisce che si affidassero l’uno all’altro per elogi, critica informata e reciproco arricchimento. Glyer considera gli Inkling principalmente come gruppo di scrittura, ma erano anche un gruppo di lettura, dove si insegnavano a vicenda come leggere le storie che amavano, in modi sempre più ricchi. Il fantasy di Tolkien sembra insignificante se il lettore coglie solo una parte dell’intero sistema di riferimento. Uno spaccato qualsiasi sembrerà debole. L’opera di Tolkien riecheggia canzoni, storie e mondi immaginari di un passato lontano, e risuona dell’erudizione letteraria di Lewis, della filosofia di Owen Barfield, delle credenze ed esperienze degli altri Inkling. Considerare gli Inkling in riferimento l’uno con l’altro significa vedere non debolezza, ma profondità e complessità.

Questo tipo di comunità di scrittura non viene rappresentato appieno da termini lineari come allusione e influenza, e a questo punto voglio mettere da parte la metafora del club dei libri per un po’. Il termine scelto da Glyer, “risonatore”, funziona perché ci porta nel territorio, tutto metaforico, della musica: il legno di un violino, le corde simpatiche, che vibrano senza essere toccate, di un sitar, lo spazio sonoro di una sala concerti. Tuttavia è ancora un termine piuttosto passivo. Riesco a pensare a poche altre metafore che siano state offerte per l’interdipendenza della nostra immaginazione. Michail Bachtin ha suggerito l’idea del dialogo: all’interno di ogni testo c’è più di una voce, citata direttamente o indirettamente, o echeggiata in maniera inconsapevole. Gilles Deleuze e Félix Guattari hanno usato una metafora biologica: il rizoma. Un rizoma è solo uno stelo interrato, ma il modo in cui loro usano questo termine suggerisce qualcosa di più grande: il tipo di tappeto sotterraneo, fatto di radici e viticci, che collega un’intera comunità di piante e funghi. I biologi che studiano le foreste hanno scoperto che ciò che sembra un raggruppamento di alberi e vegetazione bassa separati è, in realtà, una rete di interconnessioni simil-neurale, senza gerarchie e confini. Sia il dialogismo che i rizomi sono metafore assai produttive per i cultural studies e i modelli dell’immaginazione. Ci dicono molto su come pensiamo, parliamo e scriviamo, ma non dicono molto su come un’allusione specifica o un’azione intertestuale funzioni all’interno di un testo. Non svelano la ricchezza di una comunità, o il piacere di esser condotti da un testo all’altro.

Ho citato Le Guin più volte, senza però offrire esempi tratti dalla sua opera. Il più intertestuale dei suoi romanzi è ovviamente Lavinia, che è intrecciato con l’Eneide di Virgilio e quindi è in dialogo con l’Iliade e con la Divina commedia di Dante. Meno ovvio è che il romanzo sia una risposta alle revisioni femministe dei miti, come The Penelopiad di Margaret Atwood. Il modo in cui Le Guin mina la traiettoria eroica di Enea, e la rimpiazza con il racconto di una resistenza silenziosa, collega il romanzo con il suo saggio The Carrier-Bag Theory of Fiction (1986). Ricorre, inoltre, a un numero di fonti storiche e archeologiche anonime, che servono da correttivi all’immagine della vita italica degli albori fornita da Virgilio, fantasiosa e influenzata dai greci. La postfazione del romanzo dà credito a uno studio del 1949 di Bertha Tilly, Vergil’s Latium, che è basato, dice Le Guin, sulle passeggiate di Tilly nella zona, armata “di una mente scrupolosa, un occhio attento, e una fotocamera Brownie” (275). Tutti questi testi fanno parte del club.

Virgilio non solo fornisce a Lavinia la trama e l’ambientazione di base, ma appare anche come presenza spettrale con cui il personaggio principale interagisce in momenti che trascendono il suo spazio-tempo ordinario. Le loro conversazioni servono da commento sia sul poema che sul romanzo nel quale appaiono. L’allusione non copre questo genere di intricato raddoppiamento testuale, che non ha lo scopo né di raccontare nuovamente l’Eneide né di correggerla, ma di mostrare come cambia in risposta a diversi presupposti culturali. L’intero poema è presente, per lo meno sotto forma di implicazione, e così lo sono le circostanze della sua composizione e ricezione attraverso i secoli. L’Eneide rimane se stessa, nonostante sia circondata da un altro testo. I due testi si scambiano informazioni e opinioni e si modificano a vicenda, così come fanno i personaggi. T. S. Miller suggerisce che,

come risulta dallo sforzo congiunto dei due autori di creare il personaggio e il suo mondo, l’ambientazione del romanzo diventa un paesaggio fondamentalmente transazionale. In effetti, il tessuto della realtà meta-narrativa di Lavinia funziona come un registro della lettura dell’Eneide fatta dalla Le Guin, che ha le fondamenta in Virgilio ma la sua resa particolare in lettori più tardi, come lei stessa. (Miller 34)

Quindi ci sono almeno tre livelli testuali separati all’interno del romanzo: abbiamo l’epica di Virgilio, la versione romanzata da Le Guin della vita di uno dei personaggi di Virgilio, e la lettura di Virgilio da parte di Le Guin, influenzata da Tilly – ancor più complicata dal fatto che Lavinia e Virgilio, nelle loro conversazioni, contemplano a loro volta la propria esistenza testuale.

Lavinia è un libro altamente metanarrativo, ma suggerirei che possiamo pensarlo non solo col suffisso meta— ma anche come mito-, il che sta per mitocondriale, e, diversamente dal caso romanzato di Karen Joy Fowler e dei finali, sono arrivato al punto in cui ho bisogno di parlare dei mitocondri.

Posso vantare una conoscenza accurata, a livello di Wikipedia, della biologia dei mitocondri, che sono strutture all’interno delle nostre cellule. I mitocondri sono parte di noi, eppure non lo sono. Li ho sentiti nominare per la prima volta da un’altra scrittrice di SF: Madeleine L’Engle. Ecco la spiegazione che ne dà il suo personaggio Charles Wallace nel romanzo A Wind in the Door, del 1973:

Beh, miliardi di anni fa probabilmente nuotavano in quelle che poi sono diventate le nostre cellule eucariote e sono semplicemente rimasti lì. Possiedono un proprio DNA e RNA, il che significa che sono separate da noi. Sono in un rapporto simbiotico con noi, e la cosa fantastica è che noi dipendiamo completamente da loro per l’ossigeno. (20)

Charles Wallace è un bel pedante all’età di sei anni. Eucariote significa avere cellule con organuli separati come nucleo, il che si estende praticamente a tutti gli organismi pluricellulari; le cellule procariote non hanno queste strutture separate e includono cose come i globuli rossi e i batteri, che è quello che i mitocondri sembrano esser stati in origine. La descrizione di L’Engle combacia ancora con il pensiero attuale, sebbene i biologi abbiano fatto delle aggiunte al modello. In sostanza non siamo gli esseri integri che pensiamo di essere, ma piuttosto siamo colonie di commensali. Molto presto nella storia dell’evoluzione, le cellule più grandi hanno ingerito quelle più piccole, senza digerirle, e perciò hanno acquisito l’abilità di usare energia, di crescere, di diversificarsi ed eventualmente di diventare qualsiasi cosa, dalle sequoie ai topi di campagna. Anche le piante hanno stipulato il loro accordo con altri organismi indipendenti, che sono diventati i cloroplasti, ossia le strutture che permettono la fotosintesi.

I mitocondri mantengono il proprio DNA separato, come spiega Charles Wallace. Quel materiale genetico è parte della chiave per comprendere la storia evolutiva, poiché è abbastanza vicino al DNA di alcuni batteri moderni per sostenere l’ipotesi del commensalismo. Una volta insediati, i batteri invasori rinunciarono ad alcune funzioni che permettevano loro di sopravvivere da soli in cambio di protezione e rifornimento di cibo da parte della cellula ospite, quindi il DNA mitocondriale è incompleto. I mitocondri sono soggetti a mutazione e perciò hanno le loro malattie genetiche. Una di queste malattie genera la trama di A Wind in the Door.

Quindi, in sostanza, il mitocondrio è una sorta di creatura vivente che è sia separata sia parte della cellula ospite. Fornisce l’energia che permette alla cellula ospite di funzionare e in cambio manda avanti la propria vita con l’aiuto dell’ospite. Comunica continuamente con gli organismi che gli sono attorno. Modifica l’organismo più grande mentre ne viene modificato. Possiede una propria origine e uno scopo, eppure condivide i bisogni e gli scopi dell’ospite. Non inizia a sembrare come un testo che è incorporato in un altro testo? Potremmo dire che l’Eneide funziona come un organulo all’interno delle cellule di Lavinia. I romanzi di Jane Austen svolgono il lavoro mitocondriale per The Jane Austen Book Club. Rimangono sé stessi eppure ne vengono trasformati.

Quel che mi piace di questa metafora è il suo essere sia concreta che dinamica. Come ogni buona metafora, ci mostra cose di un oggetto che altrimenti non noteremmo. Ci ricorda che un testo attirato in un altro testo è ancora vivo, ancora operante. Suggerisce qualcosa riguardo al modo in cui sia l’ospite che il simbionte traggono beneficio dalla loro relazione. E ci mostra che una cosa così familiare da essere trascurabile – come una cellula – è in realtà molto più strana e complicata di quanto pensiamo. Un semplice atto di riferimento è in realtà un’intera storia di incorporamento, negoziazione e sinergia.

Tutto questo suggerisce che dobbiamo ripensare il valore letterario, poiché la nostra percezione della qualità estetica dipende dalle connessioni che siamo in grado di fare con il testo. Senza queste connessioni qualsiasi opera letteraria finirà per sembrare debole e anemica – e, per caso o forse no, l’anemia è una dei sintomi di una malattia mitocondriale. Come ho detto prima, i movimenti e i gruppi letterari come gli Inkling hanno sempre funzionato come creatori di connessioni, almeno nella comunità di scrittori e lettori uomini. I drammaturghi del Rinascimento rubavano tranquillamente dalle opere altrui; i poeti romantici difendevano il loro operato a vicenda e pubblicavano insieme; romanzi modernisti come The Great Gatsby e The Sun Also Rises sono significativi in parte perché li leggiamo come voci in una conversazione. Li leggiamo anche in un contesto di editori, curatori, recensori, studiosi e insegnanti che ci dicono in vari modi che questo è ciò che la narrativa dovrebbe fare, questi sono i temi che contano, questi il tipo di personaggio e azione che ci interessa (vale a dire, non donne, persone di colore o bambini). Queste opere si danno spessore a vicenda. Ciascuna di esse contribuisce a creare risonanze, invita alla contemplazione di temi condivisi e costruisce i codici culturali e generici che ci permettono di leggere gli altri in modo ricco e completo.

Quindi, come funzionano i mitocondri letterari? Immaginate di aver appena scelto una storia e di aver iniziato a leggerla. Se siete come me, aspettate di esserne conquistato: “fammi divertire” è la prima cosa che dici alla storia, e poi “convincimi che hai importanza”. A volte la storia è già venduta: si trova già in un’antologia di prestigio o è scritta da un autore che conosci già e di cui ti fidi. Altre volte ti ritrovi a cercare una scusa per metterla da parte. L’onere della prova è sul testo affinché si guadagni il tuo tempo e il tuo investimento emotivo.

Tuttavia a volte, mentre stai leggendo le prime pagine, inciampi in un collegamento con qualcos’altro che riconosci. Forse è uno schema narrativo. Per esempio, stai leggendo Boy, Snow, Bird (2014) di Helen Oyeyemi e ti accorgi che l’eroina maltrattata è una versione di Biancaneve. All’improvviso, qualsiasi cosa accada nella storia, vuoi sapere come quello strano scenario di competizione femminile si svolgerà questa volta. La storia non è solo quella che ti viene raccontata dal narratore di Oyeyemi, ma anche un’intera costellazione narrativa, inclusa la versione dei Grimm, la versione di Disney e la versione di Anne Sexton. Facendovi riferimento Oyeyemi si inserisce in una conversazione di vecchia data e invoca tutti i tormenti, riguardanti l’aspetto fisico, l’invecchiamento e l’essere inermi, che aleggiano sulla fiaba. Ti ha preso. A quel punto lei può andare avanti facendo cose nuove e sorprendenti con la struttura, inserendo questioni di lavoro, razza, comunità e psicologia.

La storia di Biancaneve è la dinamo cellulare che vive nei tessuti del romanzo di Oyeyemi senza esserne assimilata. Amplifica, fornisce energia, e indica al lettore modi per considerarlo importante. La relazione fra i due testi è complessa, ironica e in ultima analisi benefica per entrambi.

Un altro modo per richiamare testi precedenti e appellarsi al loro valore è creare personaggi che rappresentano temi letterari e storici importanti. Uno dei personaggi principali di Boy, Snow, Bird è uno psicologo sperimentale che ci costringe a interrogarci sulla natura del genere [gender] – come James Tiptree, Jr. Non ho la certezza che Oyeyemi abbia intenzionalmente basato il suo personaggio su Alice Sheldon ma, poiché uno degli altri romanzi di Oyeyemi era nella longlist per il premio Tiptree, potrebbe essere stata al corrente della sua ispiratrice. Intenzionale o meno, il riferimento risuona con molti altri temi e immagini del romanzo. Storie di Tiptree come The Psychologist Who Wouldn’t Do Awful Things to Rats costituiscono un ulteriore ceppo mitocondriale, fornendo ancora più potenza alle cellule del romanzo.

Al di là di trame e personaggi, ci sono molti altri modi di segnalare affinità a testi precedenti: titoli che sono citazioni dalla Bibbia o da Shakespeare, ambientazioni familiari, espressioni che rivelano echi, e anche negazioni apparenti di un riferimento, come il verso di T. S. Eliot “Io non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo” in The Love Song of J. Alfred Prufrock (Eliot 167). Gli scrittori che si occupano di temi da uomini sono facilitati in questo senso. Hanno accesso alla maggior parte dei miti, delle religioni e della letteratura d’élite — in altre parole, possono attenersi al tipo di riferimento che acclama altri uomini e ottenerne una ricompensa. Questa rete di riferimenti è così radicata nei modi in cui leggiamo che le lettrici donne, e anche le scrittrici, devono disimparare la lezione secondo cui la loro esperienza è meno ricca, meno risonante e meno significativa di quella delle loro controparti maschili.

Tuttavia la catena mitocondriale che sto tracciando parte da Madame D’Aulnoy e altre littérateuses delle corti francesi seicentesche, per arrivare alle giovani donne che raccontarono “Biancaneve” ai fratelli Grimm, fino a Shelley e altri che hanno usato il valore d’impatto del gotico per scuotere i presupposti sul genere, e così fino al presente – e anche questa è una bella eredità. È a disposizione di uomini, trans e queer come delle donne, ma le donne generalmente sembrano più attente all’opera culturale delle fiabe.

Sui mitocondri c’è un fatto che non ho ancora menzionato, rilevante per le questioni di interdipendenza testuale e valore letterario. Quando un nuovo individuo si forma, il DNA mitocondriale non viene trattenuto dallo spermatozoo ma solo dall’ovulo. Discende dalla madre – dalle madri – risalendo a ciò che i genetisti hanno soprannominato Eva mitocondriale. Mentre noi, semplicemente per analogia, non possiamo escludere l’influenza di uno scrittore sugli altri o sulle scrittrici (ricordate quello che fa Le Guin con l’epica di Virgilio), la metafora mitocondriale ci suggerisce che un modello di storia letteraria tutto al maschile, o anche quello che Russ rivela essere al maschile per il 92-95%, è seriamente sfasato.

In questa discussione continua a far capolino il James Tiptree, Jr. Literary Award. Una delle sue conquiste principali è stata promuovere la consapevolezza di questo tipo di connessioni mitocondriali. Il premio, assieme alla comunità che vi si è formata intorno, non solo acclama storie nuove ma fornisce loro una genealogia e un contesto, e perciò nuovi modi di leggerli e valutarle. Il codice genetico mitocondriale è anche un codice di lettura.

Il libro di Russ fa riferimento ad alcune delle madri che sono state cancellate dalla storia letteraria. L’altra faccia della medaglia sono gli uomini che rimangono dentro, ma per ragioni che potremmo non aver notato. Lo studio di Glyer mostra come al modello di creatività del genio solitario mancano molte delle più importanti interazioni che avvengono anche all’interno di gruppi di scrittori – e lei suggerisce dei motivi per cui sia gli stessi scrittori sia i loro critici possano negare la possibilità dell’influenza. Agli uomini generalmente piace pensare a se stessi come soggetti unitari piuttosto che come assemblaggi permeabili o come parte di qualcos’altro. Ho menzionato i modernisti, e Ernest Hemingway, nel suo memoir romanzato A Moveable Feast, è un buon esempio dell’artista maschile che riscrive la sua storia per cancellarne le linee di influenza, specialmente dalla sua madre letteraria Gertrude Stein. Hemingway è disposto solo a riconoscere una specie di rapporto edipico con padri letterari come Mark Twain. Si tratta anche di un tropo standard (maschile): è l’intera base della teoria di Harold Bloom sull’angoscia dell’influenza. Ignora la possibilità che l’influenza possa essere sia divertente che femminile. Abbiamo bisogno di quei mitocondri. Senza di essi siamo bloccati al livello iniziale, monocellulare.

A questo punto sto lavorando con due metafore che sembrano non connesse: il club dei libri e il mitocondrio. Ci vorrà un piccolo gioco di prestigio per metterle insieme. Ma pensate all’albero genealogico che ho tracciato. Inizia con Mary Shelley e Jane Austen. Loro donano i mitocondri a un’altra generazione, che include donne dimenticate o sottovalutate come Mary Hallock Foote e Margaret Oliphant (entrambe menzionate da Le Guin come esempi di Disappearing Grandmothers). Da loro il DNA passa a scrittrici di fantascienza e utopia degli inizi, come Charlotte Perkins Gilman e Inez Haynes Gillmore, e poi a C.L. Moore, Leigh Brackett e Leslie F. Stone. Loro passano i mitocondri a Sheldon e Russ, Butler e Le Guin. Il lavoro di queste scrittrici vive nelle storie di Nalo Hopkinson, Kelly Link, Karen Fowler, e le anima. E questo ci riporta a Nike Sulway e ad altre scrittrici emergenti, che è dove sono partito.

Si tratta sia di una genealogia che di un club dei libri di lunga durata. La metafora biologica ci mostra come i testi operino all’interno di altri testi; il club ci ricorda che non si tratta di un processo automatico, ma di un processo che implica scelta e riflessione. A quel club bisogna iscriversi.

E un club dei libri può essere anche pensato come un altro tipo di cellula: il tipo nascosto, che funziona come strumento di resistenza e di rivoluzione. Ipotizzerei che tutti qui facciano parte del club di lettura di James Tiptree Jr., che è anche il club di lettura di Ursula K. Le Guin, il club di lettura di Karen Joy Fowler, e così via. Siamo una serie di cellule che si incastrano, quello che uno scrittore di fantascienza ha chiamato con diffidenza la Segreta Cabala Femminista. Questo, sfortunatamente, è un tempo di resistenza, di cellule segrete, di sostegno reciproco, e di intervento attivo nella cultura letteraria e in tutta la cultura. Ogni volta che un gruppo di lettori accoglie un nuovo libro, quel libro diventa parte del DNA collettivo e una centrale elettrica per la cellula, la cospirazione, la cabala. Questo è parte di quanto Karen Joy Fowler ci dice in What I Didn’t See e Nike Sulway ci dice in The Karen Joy Fowler Book Club. Comunque chiamiamo questo processo, sia mitocondri o allusione o qualcos’altro, come l’Euforia dell’Influenza, può servire da corollario all’opera di Russ. Mostra come Non Sopprimere la Scrittura Femminile.

Uno degli slogan del premio Tiptree è “Dominio del mondo attraverso la vendita di dolcetti”. Propongo di aggiungervi un corollario: "Insurrezione mondiale (e potere mitocondriale) attraverso i club di lettura”.

Ringraziamenti

Grazie a Ursula K. Le Guin per aver riguardato questo intervento e per averlo reso possibile in ogni modo possibile, fra cui il suo saggio The Carrier-Bag Theory of Fiction. Grazie a Andrea Hairston e Ellen Klages per i loro utili suggerimenti .

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