Se un tempo c’era James Bond come modello dell’agente segreto, adesso l’archetipo di Ian Fleming è stato sostituito, almeno su console, da Sam Fisher. L’epoca è diversa, i nemici pure, il taglio del racconto va di conseguenza. Anche perché Sam Fisher è una creatura – più o meno – di Tom Clancy, il re del techno thriller. Fisher è americano, di poche parole, ma quando apre bocca sempre caustico. Soprattutto, è uno che se la sbriga con le paure di oggi, che hanno un nome ben preciso quanto un’essenza indecifrabile: il terrorismo internazionale. Di tutte le sue avventure, che hanno fruttato a Ubisoft vendite milionarie e che presto dovrebbero allargarsi al grande schermo, Double Agent è probabilmente la più 007, nel senso di cinematografica.

Messo momentaneamente da parte lo sviluppo formale, si potrebbe dire marziale dei precedenti episodi, più operazione militare che storia, la serie prova a ribilanciare gli ingredienti, ispessendo la chiave di lettura narrativa. Come insegna Lost, serial che va tanto di moda, un buon inizio e una buona sospensione di solito coincidono con un cliffhanger, un momento sconvolgente, mozzafiato, che obbliga a riconsiderare le certezze fin lì contemplate. Sam Fisher, per chi lo conosce bene, è sempre stato il simulacro dell’eroe americano esemplare. La National Security Agency comanda, lui agisce, per quanto possibile senza far rumore e - siccome ogni cadavere in missione è come il rintocco di una campana la domenica mattina - senza tirare fuori l’arma dalla fondina più dello stretto necessario.

Ma in Double Agente Sam Fisher è cambiato. Non è più il bravo soldatino di Chaos Theory a cui il quartier generale ritira il mandato in caso di uso non autorizzato della violenza. Sam Fisher in Double Agent è un uomo distrutto al quale hanno ucciso la figlia e che proprio per questo, proprio perché crede di non avere più nulla da perdere, accetta l’incarico di infiltrarsi in una pericolosa organizzazione criminale che progetta di far saltare in aria il mondo, la Jba.

L’intero costrutto narrativo di Tom Clancy’s Splinter Cell: Double Agent è una roulette russa sul tema del doppio, con Fisher – e ovviamente il giocatore - costretto a dividersi tra ciò che da lui pretendono i buoni e quello che invece vogliono vedergli fare i cattivi. Uccidereste un civile per non correre il rischio di far saltare la copertura? La nuova direzione del videogame è la posizione in evidenza del valore dell’interpretazione, al punto che il gioco mantiene volutamente un’ambiguità di fondo e nessuno vieta, in definitiva, di abbracciare una causa al posto dell’altra, andando incontro al finale specifico (e alternativo).

Come gioco, invece, Splinter Cell con Double Agent non è particolarmente cambiato. A esclusione di inserti d’azione più coreografica e i differenti approcci – più scoperto o più furtivo - che adesso vengono motivati in qualche modo con la maggiore vicinanza a uno dei due fronti, il grosso dell’avventura lo si passa sempre nascosti spalle al muro, cercando di mantenere il basso profilo in missioni di infiltrazioni che, però, si avvalgono di una nuova interfaccia minimale e molto meno del buio. Intorno una ghiotta modalità multiplayer spie vs mercenari - o guardie e ladri che dir si voglia - sviluppata in Italia (dal team Ubisoft di Milano, mentre il singleplayer è stato realizzato dagli studi di Shanghai) e la potenza audiovisiva di Xbox 360, che dà il meglio di sé in una notte pirotecnica, affacciati su un grattacielo cinese.