Giù, nell’Interzona
“Mi sono risvegliato dalla Malattia a quarantacinque anni, calmo e sano di mente, e in condizioni di salute ragionevolmente buone, non fosse stato per il fegato debilitato e quell’aspetto di carne in prestito comune a chi è sopravvissuto alla Malattia… Quasi nessuno ricorda il delirio nei dettagli. A quanto pare io ho preso appunti dettagliati sia sulla malattia che sul delirio. Non ho un ricordo preciso degli appunti presi e ora pubblicati con il titolo Pasto nudo. Il titolo mi è stato suggerito da Jack Kerouac. Non ho capito cosa volesse dire fino alla mia recente guarigione. Il titolo significa esattamente ciò che le parole esprimono: Pasto nudo – l’istante raggelato in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta.
La Malattia è la tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane”.
Rientrato a Tangeri, ritrovò una camera d’albergo colma di spazzatura e fogli senza senso. In suo aiuto giunse una delegazione dall’America: Jack Kerouac lo raggiunse per primo, seguito nel giro di poche settimane da Allen Ginsberg e Peter Orlovsky. Kerouac non solo avrebbe trovato il titolo per il primo lavoro che Burroughs sarebbe riuscito a estrarre dal suo “baule di parole”, ma gli fu da stimolo continuo, spronandolo senza interruzioni. Nel 1957 gli fece anche da dattilografo e mentre lo aiutava ad assemblare il suo capolavoro, comprese che per Burroughs ormai la scrittura era tutto: processo catartico e iter salvifico, attraverso di essa avrebbe voluto espiare le sue colpe ed esorcizzare tutti i demoni del passato, giungendo in fine a guadagnarsi l’agognata redenzione.
Dopo un mese dietro la macchina da scrivere, Kerouac ricevette il cambio da Ginsberg e Orlovsky, che aiutarono Burroughs a mettere a fuoco la struttura narrativa e l’evoluzione della storia. Il problema era che, con il suo svolgimento non-lineare, il libro rifletteva il caos umano che ormai era divenuto un autentico legame tra l’autore e la città, quasi una forma di immedesimazione. Non a caso Burroughs dovette ritirarsi per un mese in Scandinavia, verso la fine del 1958, per portare avanti il suo lavoro chiuso ventiquattr’ore a giorno nella sua camera d’albergo. Al suo ritorno, la città era irrimediabilmente cambiata: i suoi pochi amici avevano preso il largo, nei casi più fortunati, oppure ci avevano rimesso la pelle. Ma il suo vecchio volto era ora fedelmente, spietatamente impresso nel libro.
Tutto ciò che gli restava era la profonda consapevolezza dello stato d’animo del tossicodipendente.
“La droga produce la formula di base del virus del «male»: l’Algebra del Bisogno. La faccia del «male» è sempre la faccia del bisogno assoluto. Il drogato è qualcuno che ha un bisogno assoluto di droga. Oltre una certa frequenza il bisogno non conosce nessun limite né controllo. […] E la droga è una grande industria. […] Se volete alterare o annientare una piramide di numeri in correlazione seriale dovete alterare o rimuovere il numero alla base. Se vogliamo annientare la piramide della droga dobbiamo partire dalla base: il Tossicodipendente della Strada, e smetterla di partire lancia in resta contro i mulini a vento, cioè contro i pesci grossi, i quali sono tutti immediatamente sostituibili. Il tossicodipendente della strada, che ha bisogno della roba per vivere, è l’unico fattore insostituibile nell’equazione della droga. Quando non ci saranno più tossicodipendenti disposti a comprare la droga non ci sarà più traffico di droga. Finché esisterà il bisogno della droga, ci sarà qualcuno pronto a soddisfarlo”.












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