Rivoluzione informatica

Per il momento l’interrogativo se riusciremo, e quando, a simulare il cervello e la sua intelligenza su una macchina rimane sospeso, senza risposta. Una risposta che manca da settant’anni, ossia dai primi passi dell’intelligenza artificiale. Tuttavia non è forse nemmeno questa la domanda più importante che gli straordinari sviluppi dell’informatica, della potenza di calcolo dei computer, dell’efficienza degli algoritmi e dei programmi che vi girano, e infine dell’intelligenza artificiale (nella versione debole o ristretta) ci stanno ponendo.

Dall’arrivo del personal computer, immortalato come personaggio/macchina dell’anno dalla rivista Time nell’ormai lontano 1983, molte cose sono cambiate e in queste pagine abbiamo raccontato alcuni dei momenti più importanti delle ricerche e delle idee dietro questa rivoluzione tecnologica. Computer, telecomunicazioni, reti, interconnessioni non sono ovviamente rimaste curiosità tecniche o esperimenti di laboratorio. Sono tecnologie che si sono diffuse nel mondo del lavoro, della finanza, dei media, della vita quotidiana inducendo profondi mutamenti nelle nostre società.

Chi ha qualche anno, come chi scrive, può ricordarsi quando negli uffici di grandi imprese, ad esempio la RAI, gli appunti (per comunicazioni e disposizioni interne) venivano battuti a macchina in doppia o triplice copia grazie alla carta carbone (che i più giovani forse non sapranno nemmeno cosa sia). Le copie poi venivano perforate e archiviate in speciali raccoglitori che sulla costa esterna avevano scritto il periodo o la destinazione di quegli appunti1. Oppure possono ricordare quando le foto (e anche i servizi televisivi) venivano realizzati con la pellicola che doveva poi subire una fila di lavorazioni complicatissime prima di arrivare al prodotto finito. Quel mondo delle macchine per ufficio e della pellicola è in gran parte scomparso, come le grandi aziende dai nomi famosi, ad esempio Kodak2 o Olivetti, che ne erano i leader. È chiaro che i cambiamenti non hanno riguardato solo la pellicola o le macchine da scrivere. I computer sono entrati dovunque e grazie alla loro memoria e rapidità di calcolo (sempre crescenti e a prezzi, invece, sempre decrescenti), hanno trasformato, in buona parte, il nostro modo di vivere e di produrre.

In questa grande trasformazione, cominciata a partire dalla fine degli anni Ottanta, e che a livello geopolitico ha generato fenomeni come la globalizzazione, il computer e le reti di telecomunicazione sono stati grandi protagonisti. Senza comunicazioni rapide e la possibilità di gestire rapidamente e con precisione enormi quantità di dati non sarebbe stata immaginabile un’integrazione delle economie planetarie (sia nel commercio che nella produzione) come quella di cui siamo stati testimoni. Ma i cambiamenti non si sono fermati alla globalizzazione, hanno riguardato il funzionamento di aspetti importanti delle nostre società come il lavoro o l’informazione. Per seguire questi cambiamenti proviamo a individuare le tappe più importanti.

L’inizio

La rivoluzione informatica, come accade con i chicchi di grano nella prima metà della scacchiera, inizialmente non sembra poi così travolgente. Certo il PC, il personal computer, che si diffonde ovunque e a prezzi abbordabili a partire dagli anni Ottanta, permette di scrivere un documento, archiviarlo, recuperarlo, correggerlo o integrarlo e infine inviarlo senza dover trafficare con raccoglitori cartacei per ritrovare il prezioso appunto che poi sarebbe stato ribattuto, ex novo, per introdurre le modiche richieste.

Anche la trasmissione viene semplificata. Niente buste, niente francobolli o postini o reti di uffici postali. Con la posta elettronica, uno dei primi servizi il cui successo ha aperto le reti (che prima servivano solo università, laboratori di ricerca o centri militari) al grande pubblico, l’invio e la ricezione sono istantanei.

Le nuove possibilità di elaborazione e trasmissione rapidissima di enormi quantità di dati aprono nuovi orizzonti industriali. Ad esempio si possono controllare catene di produzione nelle quali un oggetto complesso come un telefonino viene progettato in un luogo, mentre le sue parti vengono costruite in luoghi diversi, in fabbriche diverse e in nazioni diverse: il microprocessore da una parte, le memorie da un’altra, lo schermo in un’altra ancora, lo chassis chissà dove e il tutto assemblato ancora in un'altra località. Una catena di produzione che sfrutta, a livello planetario, le migliori capacità industriali offerte, sia come costo che qualità. Una catena resa possibile dal controllo in tempo reale e nei minimi dettagli dell’andamento della produzione.

Negli anni Novanta anche il mondo interno alle imprese cambia grazie alla rivoluzione informatica. Prima del computer la tipica organizzazione aziendale era fondata sulla divisione in dipartimenti o settori specializzati. Anzi, la divisione del lavoro era il principio cardine. Un principio di cui aveva scritto, per la prima volta, il grande economista del XVIII secolo Adam Smith con il famoso esempio della fabbrica di spilli.

Un lavoratore che debba da solo costruire uno spillo probabilmente non riesce a produrne che molto pochi al giorno. Ma se questa operazione viene divisa in 18 sotto-operazioni (dallo stiramento del filo di ferro, al taglio, alla molatura della punta, alla preparazione della testa, alla lucidatura, all’impacchettamento e via dicendo) e ognuna, o al massimo due o tre, sono fatte dallo stesso operaio che quindi impara a farle molto bene e rapidamente, invece di qualche spillo al giorno ne vengono prodotti (con l’aiuto di attrezzi e macchine molto semplici), secondo Adam Smith, ben 48.000.

Adam Smith parlava della manifattura, delle fabbriche, ma lo stesso principio è stato applicato anche all’organizzazione aziendale. Ad esempio: acquisto delle materie prime, produzione, personale, vendita al cliente venivano svolti da dipartimenti separati. Di frequente la comunicazione fra questi settori non era ottimale e paradossalmente, almeno in un primo momento, l’arrivo del computer non migliorò la situazione. Spesso i vari settori di una stessa azienda affrontarono in ordine sparso la rivoluzione informatica, installando sistemi che non si parlavano fra di loro. Fino a quando negli anni Novanta non si capì che, con software gestionali ben progettati a dimensione dell’intera impresa (ad esempio SAP e Oracle), computer e reti permettevano la direzione unitaria di tutto il processo produttivo e un controllo dei vari fattori, materie prime, personale, impianti, magazzini, inventari, vendite ecc. con una precisione e un tempismo che si traducevano in risparmi su molti fronti, in un aumento della produttività e in definitiva in maggiori profitti. E per le aziende il Web ha allargato il mercato sia degli approvvigionamenti di risorse indispensabili alla produzione sia dei clienti interessati alla ricerca e all’acquisto dei prodotti (in breve, ha fatto decollare l’e-commerce).

La rivoluzione continua

A questo punto si potrebbe pensare che la rivoluzione informatica abbia in un certo senso compiuto la sua missione. Le mansioni di routine e ripetitive, sia negli uffici che nelle fabbriche, sono state automatizzate (o lo saranno presto) da algoritmi o robot. L’intero processo produttivo messo sotto un controllo unitario largamente automatizzato è più efficiente e produttivo, mentre all’uomo, liberato da lavori poco stimolanti e spesso faticosi, rimane la parte più interessante: la capacità di progettazione, di giudizio, di valutazione, di scelta, in breve “pensare”. È quasi un luogo comune credere che in un mondo dominato da computer, algoritmi, robot e reti, l’uomo comunque rimanga indispensabile per la sua capacità di giudizio e di ragionare che supera la cieca raccolta, l’analisi di dati e la loro elaborazione secondo rigide e immutabili regole.

Tuttavia, come sostengono Erik Brynjofolsson e Andrew McAfee nel loro libro La nuova rivoluzione delle macchine le cose non stanno esattamente cosìi. E l’intelligenza artificiale, in particolare l’apprendimento automatico delle macchine, sta cambiando gli scenari.

Numerose ricerche, che i due ricercatori del MIT citano nel loro libro, dimostrano il contrario. Affidarsi agli algoritmi del machine learning, che macinano enormi moli di dati ed estraggono poi generalizzazioni, previsioni o altre forme di “giudizio”, produce, statisticamente, risultati più affidabili di quelli di esperti umani. Centinaia di ricerche lo confermano in campi molto diversi, dalla psicologia alla medicina, dalla sociologia all’economia, cioè in quei campi dove è possibile usare l’apprendimento automatico.

Anche l’ultimo bastione, il ruolo intelligente dell’esperto, sta cadendo sotto i colpi dell’intelligenza artificiale? In realtà le macchine hanno cominciato a sostituire l’uomo, non solo nella routine, ma anche in mansioni più “nobili” da molti anni. Uno degli esempi più noti è la valutazione che le banche fanno delle persone cui concedere un prestito. Quante sono le probabilità che lo restituisca e quali sono gli elementi chiave da considerare? I primi sistemi automatici per giudicare l’affidabilità di un cliente (il suo punteggio di credito o credit score in inglese) risalgono addirittura al 1956 e oggi il 100% di queste “valutazioni” avviene automaticamente, almeno sotto certi importi. In anni recenti, grazie alla quantità di dati disponibili, questi giudizi automatici sono stati ancora più affinati e sono molto più affidabili.

Altre decisioni ormai prese automaticamente sono le “raccomandazioni” ai clienti, cui Amazon attribuisce circa il 35% delle sue vendite. Anche in altri sistemi, ormai piuttosto diffusi in molti paesi, che gestiscono il continuo variare nei prezzi di biglietti aerei o hotel a seconda del rapporto domanda-offerta (noto come revenue management), le decisioni sono prese automaticamente senza intervento umano.

Un altro settore dove le decisioni del machine learning sono ormai in concorrenza con quelle degli esperti umani è la pubblicità e in particolare le strategie di dove – ossia in quali media – piazzare l’annuncio. Risposte a interrogativi del tipo “dove si trova il pubblico che voglio raggiungere? in quale canale? in quale trasmissione? in quale orario?” erano fino a poco tempo fa appannaggio di esperti e consulenti, fra l’altro pagati piuttosto bene. Adesso le macchine, analizzando sterminate quantità di dati, sono capaci di scelte migliori e più redditizie per l’inserzionista. Persino nella progettazione, cioè nell’ideare soluzioni innovative, ad esempio per uno scambiatore di calore (come un banale termosifone) o la scocca di un’auto da corsa, il machine learning ha dimostrato di trovare soluzioni molto originali. A questo punto ci si può chiedere: quali sono i lavori non facilmente automatizzabili con algoritmi o robot? Uno dei critici dell’intelligenza artificiale, Hubert Dreyfus, aveva indicato nell’essere nel mondo, nel rapporto interpersonale, la dimensione che i computer non sarebbero per molto tempo, e forse mai, riusciti a catturare e replicare. Proprio i lavori dove la dimensione personale è dominante sono quelli in cui l’automazione non avanza così rapidamente. L’esempio classico sono le cure sanitarie o della persona. Nessun paziente ha voglia di aver intorno un robot o di farsi dire la diagnosi (anche se esatta, come quella di un medico) da una macchina. Il contatto umano ha ancora una grande importanza in molti aspetti della nostra vita e tutta questa parte è, per il momento, fuori portata, di algoritmi e robot.

Piattaforme

Joseph Shumpeter, un grande economista austriaco della prima metà del 1900, individuò nella “distruzione creatrice” la grande molla che muove le moderne società capitaliste. Al centro della distruzione creatrice si trova l’imprenditore che rischia le sue risorse (o quelle prese in prestito) per investire in innovazione. Innovazione che può voler dire sia un nuovo prodotto, completamente originale, sia un inedito modo di produrre, con nuove macchine e tecnologie, sia una diversa e più efficiente organizzazione del lavoro.

Se l’imprenditore riesce in quest’opera di innovazione ne trarrà i meritati profitti. Ma la sua opera di innovazione avrà anche conseguenze negative, per non dire distruttrici, sui tradizionali protagonisti del mercato, che vedranno diminuire i loro guadagni o addirittura finiranno in perdita e scompariranno. Secondo Shumpeter, il meccanismo che muove le moderne società industriali è quindi fondamentalmente turbolento, proprio per la continua capacità innovativa della ricerca scientifica, tecnologica e organizzativa. I due autori del MIT, Brynjofolsson e McAfee, che hanno analizzato le grandi trasformazioni degli ultimi vent’anni, vi hanno trovato un’ennesima conferma delle teorie di Shumpeter.

Confrontando, ad esempio, la situazione americana di giornali quotidiani, riviste e settimanali, musica su CD, stazioni radio e persino centri commerciali fra gli anni Novanta e oggi è impossibile non accorgersi di un vero e proprio crollo del tradizionale sistema di intrattenimento-informazione-commercio al dettaglio. Tirature di giornali e riviste che crollano fra il 50% e il 70%, vendite di CD musicali del 45%, le entrate delle stazioni radio che scendono in picchiata del 30%, i centri commerciali che hanno chiuso circa il 20% delle loro sedi. E si potrebbe continuare con altri esempi.

Cosa è successo? La risposta che danno i due ricercatori del MIT si può riassumere in una parola: piattaforme. Mettendo insieme l’effetto moltiplicatore di Internet, insieme ad algoritmi dell’intelligenza artificiale e del machine learning e alla potenza di calcolo tascabile degli smartphone (l’unione di cellulare e computer), sono stati creati dei sistemi di distribuzione e diffusione di ogni tipo di contenuto per l’informazione e l’intrattenimento, le piattaforme appunto.

Il punto chiave è che fare migliaia o milioni di copie di parole, immagini, suoni non costa praticamente niente (in realtà, le memorie e la gestione dei server che contengono questi dati qualcosa costano) e la qualità della riproduzione digitale è perfetta. Esempi più famosi sono i motori di ricerca di Google, i video di Youtube, la conoscenza enciclopedica di Wikipedia. Ma in realtà la rete ha permesso a tutti di diventare “giornalisti” scrivendo all’inizio sul proprio blog poi su Facebook, Twitter, e applicazioni analoghe o di caricare i propri video o le proprie foto su altre applicazioni come Youtube e Instagram (e programmi analoghi). Da applicazioni come iTunes della Apple si possono comprare canzoni e musica “à la carte” oppure da altri, come Spotify, si può accedere a cataloghi di milioni di brani. Netflix, Hulu, HBO, Primevideo di Amazon offrono film e serie televisive originali con un contenuto abbonamento mensile.

Quando non c’è l’abbonamento e su Internet qualcosa è gratis, vuol dire che il prodotto è l’utente stesso. O meglio la sua attenzione suscitata (e quindi prodotta) dalla piattaforma con i contenuti offerti. I giganti che gestiscono e organizzano, con le loro piattaforme tecnologiche, il traffico di parole, di immagini, di suoni caricati e visti da miliardi di persone in tutto il pianeta si sono impadroniti di un’audience sterminata da “rivendere” agli inserzionisti pubblicitari. Google e Facebook ricavano, ad esempio, gran parte dei loro guadagni dal mercato pubblicitario. E al contrario della pubblicità di altri media, come stampa o tv, su Internet, grazie alla sua dimensione interattiva, è possibile contare quante persone hanno visto l’annuncio e addirittura quante lo hanno “cliccato” per approfondire l’offerta.

Di fronte a questa ondata di contenuti (parole, immagini, suoni) disponibili gratuitamente e su un apparecchio tascabile come lo smartphone, i media tradizionali (stampa, radio e tv) hanno visto drasticamente ridursi il loro giro di affari, anche se ovviamente tutti hanno tentato di adattarsi al nuovo ambiente lanciandosi nel grande oceano del Web. È facile immaginare che senza potenti algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, anche se nella versione “debole” e orientata a fini pratici, la gestione di una quantità di dati che raddoppia ogni anno non sarebbe possibile.

Dai bit agli atomi

A questo punto ci si può chiedere se le piattaforme non siano un fenomeno limitato al Web, cioè ai bit che possono viaggiare nei suoi circuiti alla velocità della luce (e quindi informazione e intrattenimento). Facebook, che ormai può essere considerata la più grande impresa editoriale del mondo (anche se non ha fra i suoi impiegati nessun giornalista che scriva articoli o inchieste), muove parole, suoni e immagini che possono essere duplicati e trasmessi a costo quasi-zero.

Quando si passa dal mondo dei bit a quello degli atomi, cioè degli oggetti che ci circondano nella vita di tutti i giorni, come auto, case, persone, cosa succede? Le piattaforme, i sistemi di distribuzione che sfruttano gli effetti moltiplicatori della rete e dei terminali collegati (2,4 miliardi miliardi di smartphone stimati al 2017), riescono a organizzare anche il mondo degli atomi, degli oggetti quotidiani. Gli esempi, notissimi, non mancano. C’è l’e-commerce, con i giganti Amazon e Alibaba, imitati da decine di migliaia di piccole piattaforme che vendono di tutto online.

Uber e Lyft offrono servizi di trasporto urbano prenotabile via app tramite uno smartphone. Airbnb è specializzata nel servizio alberghiero, in tutto il mondo, con ogni genere di alloggio, dalle stanze super-economiche a sfarzose dimore. Il fatto curioso è che né Uber o Lyft possiedono una sola auto, né Airbnb possiede mezza stanza d’albergo. Il segreto di queste piattaforme è di far incontrare un’offerta di auto o di stanze con una domanda e, cosa fondamentale, di garantire sia la qualità del servizio che la correttezza della transazione fra chi compra e chi vende.

In breve, gli utenti di questi servizi non pagano direttamente l’autista o l’albergatore, ma la piattaforma che provvederà poi a girare l’importo, naturalmente decurtato di una piccola commissione per il servizio. Non è tutto. Gli utenti sono invitati a lasciare un giudizio sul servizio ricevuto e il loro grado di soddisfazione. Un metodo per creare sia trasparenza che concorrenza, che spinge sia migliorare l’offerta, sia a tenere sotto controllo eventuali brutte sorprese. Uber e Airbnb sono gli esempi più noti. Ma piattaforme analoghe sono sorte in ogni settore. L’idea è sempre quella di far incontrare, grazie a rete e smartphone, o comunque computer, la domanda e l’offerta in particolari situazioni e di garantire la correttezza della transazione.

BlaBlacar è ad esempio un’app di origine francese, ma ormai diffusa in 22 paesi e con 25 milioni di utenti, che fa incontrare chi deve fare un lungo viaggio in macchina con chi cerca un passaggio, per condividere le spese. Postmates, in varie città negli Stati Uniti, porta a domicilio pasti preparati da rinomati ristoranti locali e ha superato il milione di consegne l’anno. Sul principio dell’incontro fra domanda e offerta molte piattaforme nascono per ottimizzare le esigenze più curiose: ad esempio per riempire lo spazio non utilizzato in grandi depositi industriali o i viaggi di ritorno a vuoto di camion e autoarticolati, o la ricerca di grandi sale e alloggi per conferenze e congressi. Le piattaforme non si limitano a offrire beni o servizi al consumatore, a volte si rivolgono anche a un pubblico molto più ristretto. Abbiamo accennato ai sistemi Cloud di machine learning, piattaforme specializzate offerte da giganti come Amazon, Google o Microsoft, agli esperti di software per affittare potenti strumenti di intelligenza artificiale necessari a costruire nuove app o programmi. Strumenti fino a qualche anno fa utilizzati soltanto da centri di ricerca e università, e che oggi sono a disposizione, a un prezzo ragionevole, di chiunque abbia le conoscenze e il talento per usarli con profitto.

Le imprese-piattaforma diventeranno la forma dominante nel vicino futuro? Secondo Brynjofolsson e MacAfee, se da un lato il loro arrivo porterà in molte realtà tradizionali una grave e forse insuperabile crisi, in altre situazioni le piattaforme allargano il mercato e non cannibalizzano, almeno non completamente, i vecchi servizi. L’esempio è quello di Airbnb, che è dedicato soprattutto al viaggiatore e al turista che vuole spendere poco e accetta anche condizioni più spartane. Il pubblico dei normali alberghi, un pubblico in buon parte in viaggio per lavoro e affari, pretende e ottiene, pagando, servizi migliori. Le due clientele quindi non coincidono esattamente.

È però vero che in altri settori, come l’aviazione civile, i nuovi arrivati, vale a dire le linee low cost, hanno, se non proprio sbaragliato, perlomeno messo in gravi difficoltà le compagnie tradizionali (come l’Alitalia). E la concorrenza di Uber o Lyft con i servizi di taxi locali è diretta alla stessa clientela e se ne vedono le conseguenze in molti paesi. Naturalmente, procedendo nei prossimi anni oltre la seconda metà della scacchiera, con algoritmi sempre più efficienti e intelligenti e potenze di calcolo più alte, si può immaginare che la trasformazione di cui oggi siamo testimoni acceleri il passo.

La folla

Un ultimo elemento di questa rivoluzione che Brynjofolsson e McAfee indicano, fin dal titolo originale del loro libro (Minds, Platforms, Crowds), è la “folla”. La sterminata schiera di utenti che possono collegarsi alla rete con ogni genere di apparecchio. Secondo i due ricercatori del MIT la folla è capace di esprimere competenze e conoscenze insospettabili, in qualche caso addirittura superiori a quelle di stimati centri di ricerca dove lavorano i migliori ricercatori mondiali. Gli esempi riguardano complesse ricerche di genetica o particolari progetti industriali. Nei casi citati, gli enti di ricerca o le imprese non si sono limitati ad affidare la soluzione del problema agli esperti del proprio centro di ricerca, ma hanno, per così dire, reclutato la folla del Web richiedendo, on line, il loro contributo. Insomma, una specie di concorso per trovare la migliore soluzione a sfide difficili.

I risultati sono stati sorprendenti. Nel caso del problema di genetica, dove si trattava di migliorare un algoritmo che analizzava automaticamente tratti di DNA, la “folla” ha proposto soluzioni alla pari se non leggermente superiori a quelle degli esperti. Ovviamente questa “folla” non era composta dall’utente medio del Web, ma da studenti o scienziati che si erano occupati di quel settore e hanno accolto la proposta come una sfida e una curiosità intellettuale.

Sicuramente il Web è capace di catalizzare questi processi di conoscenza, facendo convergere su obiettivi precisi le capacità non utilizzate e disperse in tutto il pianeta. Del resto, il Web ha dimostrato come la “folla” possa essere chiamata a finanziare con piccole somme, con il “crowdfunding” (il finanziamento della folla appunto), i progetti più disparati che non trovano altre vie per accedere al credito. Gli esempi dei progetti finanziati possono darci un’idea della creatività che il Web stimola a emergere. Eccone alcuni finanziati attraverso le piattaforme Kickstarter e Indiegogo: un sistema per trasformare l’aria inquinata in inchiostro, un robusto casco da ciclista ripiegabile, una speciale “toilette” per cani e gatti, un motore elettrico applicabile alle biciclette, un robottino che pulisce gli acquari, e così via. In genere si tratta di oggetti per la casa, il lavoro o il tempo libero, in particolare per lo sport. Tutti oggetti che, senza la linea di credito aperta dalla folla, non avrebbero mai visto la luce.

Il Web e la folla presentano tuttavia anche altri aspetti, questa volta non del tutto incoraggianti. Abbiamo incontrato gli algoritmi dell’apprendimento automatico che sono in grado di raggruppare persone con certi stili di consumo, o di gusti, o di altre caratteristiche. Di solito questi dati vengono utilizzati da giganti come Amazon per proporre consigli sugli acquisti, le raccomandazioni, che si materializzano nelle pagine web o della posta elettronica quando meno ce lo aspettiamo (e ci chiediamo: ma come fanno a sapere che sto cercando proprio quella macchina fotografica o quel paio di scarpe?). Questo tipo di algoritmi sui cosiddetti “social media”, come Facebook o Twitter, possono ottenere altri effetti, come quello di consolidare gruppi “virtuali” che condividono le stesse idee, e quindi di impedire il dialogo e il confronto fra posizioni diverse. La rete, invece di essere un luogo di comunicazione globale, può frammentare la folla in tribù contrapposte, sotto la spinta invisibile di algoritmi automatici. Ovviamente i fenomeni, noti come camere dell’eco (echo chambers), dove l’utente seleziona solo i messaggi simili ai suoi o “amici” con le stesse idee, quasi ne fossero un’eco che gli ritorna, non sono soltanto la conseguenza di algoritmi automatici.

Le notizie false, le bufale diffuse ad arte, servono proprio a far scattare molle emotive, indignazione, rabbia o addirittura odio contro un presunto “nemico”, rinforzando così l’identità delle tribù, dei gruppi in cui si è frammentata la folla, e favorendo quindi un processo di radicalizzazione, di chiusura, restringendo sempre di più gli spazi del dialogo.

In questa opera demolitrice della coesione sociale possono entrare in scena, e in modo molto efficace, anche governi o altri protagonisti dotati di competenze e mezzi finanziari adeguati ad azioni su larga scala e con agende geopolitiche più o meno nascoste e segrete. La fabbrica delle bufale ( ake news) avviene, in questi casi, su scala industriale e la distribuzione capillare e massiccia è resa possibile dall’insonne attività degli algoritmi (i cosiddetti bots, metodi automatici che diffondono le notizie, anche false).

La democrazia sopravvivrà all’intelligenza artificiale?

Altri ricercatori come Gerd Gigerenzer, economista all’Istituto Max Planck di Berlino, segnalano inediti problemi che potrebbero sorgere con la diffusione, non attentamente controllata, dei potenti algoritmi dell’intelligenza artificiale (anche se stiamo parlando solo della versione “debole”).

Un inquietante esperimento sociale è in corso in Cina ed è conosciuto come il “Punteggio del Cittadino” (Citizen Score, in analogia al credit score che classifica l’affidabilità di chi richiede un mutuo). Grazie agli algoritmi di machine learning, che abbiamo visto in azione nelle raccomandazioni per gli acquisti in giganti dell’e-commerce come Amazon o Alibaba, è possibile tracciare il profilo di centinaia di milioni o, nel caso della Cina, di miliardi di utenti.

Il “Google” cinese, che si chiama Baidu, può ad esempio costruire un profilo delle ricerche effettuate da chiunque. Ma anche altre attività svolte sul Web possono ugualmente essere tracciate e riportate nella “cartella” dedicata al nostro utente in teoria anonimo, ma facilmente identificabile. Tutte queste tracce possono essere automaticamente esaminate e valutate. Sono stati visitati siti porno? O siti politicamente ostili al governo centrale? Oppure questi siti sono stati visitati non dal nostro utente direttamente, ma dai suoi amici virtuali di qualche rete sociale? Tutti clic che danno un punteggio negativo. Nel profilo del nostro utente possono ovviamente finire informazioni di altre fonti: è stato multato per eccesso di velocità o per esser passato con il rosso? O peggio ancora, l’etilometro ha segnalato un eccesso di alcol nel sangue? Altri punti negativi. Il punteggio in apparenza punisce azioni che spesso non sono nemmeno reati, ma delle quali non molti sarebbero orgogliosi. Alla fine il punteggio negativo farà sentire il suo peso quando il cittadino in questione dovrà chiedere un mutuo, un visto per un viaggio o essere assunto da qualche impresa.

Dietro l’encomiabile obiettivo di formare dei buoni cittadini rispettosi della legge e della morale si nasconde un’ insidia per la democrazia e per la vita privata del cittadino. Gerd Gigerenzer riassume alcuni dei rischi più gravi del Punteggio del cittadinoii:

  • La tracciabilità e la valutazione di tutte le attività che lasciano tracce digitali lascerà il cittadino “nudo”. La sua dignità e la sua privacy verranno progressivamente erose.

  • Le decisioni del cittadino non potranno più essere libere, perché su di loro penderà la spada di Damocle del Punteggio (assegnato in base a regole stabilite da un’autorità centrale) e delle sue conseguenze negative.

  • Si potrebbe addirittura arrivare a punire le intenzioni in base alle previsioni degli algoritmi che analizzano i profili dei cittadini e la loro tendenza a “peccare”.

  • Poiché anche gli algoritmi sbagliano, il Punteggio introduce l’arbitrarietà nella giustizia e contro questo sistema “automatico” il cittadino avrebbe poche difese.

  • Le regole di buona condotta del Punteggio stabilite da un’autorità centrale produrranno società a una dimensione, eliminando la variabilità delle diverse culture e tradizioni.

Il Punteggio del Cittadino cinese è un caso estremo. Altre forme di “paternalismo digitale”, cioè trattare i cittadini come minorenni bisognosi di una guida, sono alla portata anche di governi e nazioni più democratiche, sempre grazie ai potenti algoritmi dell’intelligenza artificiale, dell’apprendimento automatico e delle reti sociali.

La tecnica ha un nome inglese, “Nudging”, che potremmo rendere in italiano come “spintina”, una gentile pressione per indirizzare la persona sulla strada giusta. Una pressione che, grazie agli onnipresenti canali di comunicazione aperti dai miliardi di smartphone, può facilmente raggiungere milioni di persone in un attimo. Qui non si tratta di punire azioni moralmente censurabili, ma di indirizzare il cittadino verso comportamenti che sono nel suo stesso interesse. Una “spintina” per ricordare che fare esercizio fisico fa bene alla salute o che fumare è invece dannoso. Un’altra spintina per ricordare che separare i rifiuti nella differenziata è un’azione che riduce l’inquinamento dell’ambiente.

Tutte queste “spintine” potrebbero, grazie ai Big Data, ossia all’enorme quantità di dati che viene raccolta su tutti i cittadini, essere confezionata come un abito su misura per le singole persone. Consigli che, arrivando al momento giusto, verrebbero ascoltati probabilmente con più attenzione. In apparenza un sovrano saggio e con lo scettro digitale potrebbe così dirigere le masse, a volte confuse e poco consapevoli, verso il loro stesso bene e quello dell’intera società. Anche qui i pericoli sono evidenti. Il rischio di una deriva manipolatoria che, da spintine encomiabili per migliorare la salute o l’ambiente, passi ad altre spintine per favorire questo e quel governo nelle elezioni. Sono scenari che in gran parte riguardano il futuro, ma ci avvertono che gli algoritmi dell’intelligenza artificiale e dell’apprendimento automatico sono strumenti molto potenti capaci di trasformare profondamente le nostre società e che quindi una riflessione sul loro utilizzo è ormai urgente.

Il futuro ha posto per noi?

Secondo alcuni ricercatori le trasformazioni che ci attendono nei prossimi anni (nella seconda metà della scacchiera) sono paragonabili soltanto a quelle che nei primi decenni della rivoluzione industriale spostarono i contadini, che costituivano l’80-90% della popolazione, dalle campagne alle città dove si trasformarono in operai, impiegati (e anche disoccupati).

A quasi due secoli e mezzo dall’inizio di quella trasformazione, che ha creato le società moderne, la schiera dei contadini che rappresentava l’80-90% della popolazione si è ridotta al 4% in Italia e a poco più dell’1% negli Stati Uniti, continuando a produrre gli alimenti (e in parte i combustibili) necessari al resto della società. Una trasformazione epocale resa possibile dalle macchine e dalle nuove energie (comprese quelle fossili) che hanno aumentato, in modo straordinario, la produttività del lavoro umano.

Oggi uno dei timori più diffusi è che l’automazione, ossia i robot e gli algoritmi, sostituiscano l’uomo e in un certo senso gli “rubino” il lavoro. Questa visione, come ci avvertono gli economisti, non è corretta, perché presuppone che i posti di lavoro siano un numero fisso e immutabile e che quindi se un posto viene occupato da un robot o un algoritmo, un uomo deve necessariamente perdere il suo. Non è così: il numero dei posti di lavoro è variabile e dipende dalla crescita economica. Con una crescita robusta, i posti di lavoro aumentano e ci sarà spazio per uomini e robot. Con la stagnazione economica, invece, non c’è bisogno dell’invasione dei robot per rischiare la disoccupazione. Con queste precisazioni, inoltriamoci negli scenari elaborati da diversi centri di ricerca sugli effetti dell’intelligenza artificiale e dell’automazione sul mondo della produzione da qui al 2030.

Uno dei rapporti più affidabili, prestigiosi e recenti è quello del McKinsey Global Instituteiii, ne seguiamo le analisi più interessanti. Prima domanda: quante attività lavorative sono automatizzabili con lo stato attuale della tecnologia? La risposta può risvegliare qualche timore: il 50%. Alla stessa conclusione erano giunti, in modo indipendente, anche i ricercatori dell’Università di Oxford in Gran Bretagnaiv. C’è da considerare tuttavia che un “lavoro”, cioè la mansione svolta da un lavoratore, è composta di più attività. In parte queste attività sono oggi automatizzabili, in parte non ancora. Quindi parlare di lavoratori espulsi dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale e dai robot non è esatto. È vero comunque che molte occupazioni subiranno importanti trasformazioni e i lavoratori dovranno adeguarsi, imparare ad usare le nuove tecnologie e le nuove macchine.

Vediamo di quantificare il problema. A livello mondiale gli occupati (almeno quelli censiti nelle statistiche ufficiali) sono 2,6 miliardi. Da qui al 2030 quanti di questi lavoratori vedranno le loro mansioni trasformarsi per l’avanzamento della tecnologia? La McKinsey ci indica una forchetta con una media di 400 milioni e una punta di 800 milioni. Questi numero non sono, lo ripetiamo, quelli degli espulsi dal ciclo produttivo, ma di quelli che vedranno il proprio lavoro cambiare per l’arrivo di algoritmi e robot.

È possibile calcolare quelli che saranno invece espulsi per davvero, perché in questo caso le macchine li sostituiranno completamente? Il rapporto della McKinsey ci fornisce anche in questo caso la forchetta: il numero oscillerà, da qui al 2030, fra i 75 e i 375 milioni. Questi sono lavoratori che dovranno imparare un nuovo mestiere o comunque acquisire nuove capacità se vorranno trovare un altro impiego.

Queste sono medie per tutto il pianeta. Come è facile immaginare, l’impatto di automazione e intelligenza artificiale su ogni nazione sarà diverso. L’impatto dipenderà infatti da vari fattori come la demografia (la popolazione è giovane o anziana?), il livello dei salari (più alti i salari, più conveniente sarà automatizzare), crescita economica (cioè creazione di nuovi posti anche in presenza di automazione) o mix di attività produttive (alcuni settori industriali si prestano più di altri all’automazione).

Per l’Italia è stato calcolato che i posti di lavoro che, in misura diversa saranno interessati e trasformati dalle nuove tecnologie, saranno circa 5,3 milioni, da qui al 2030. Precisiamo: 5,3 milioni non sono gli espulsi, ma coloro che dovranno adattarsi a cambiamenti del modo di lavorare ed avranno quindi bisogno di nuova formazione professionale.

Il bicchiere mezzo pieno

L’inquietante avanzare dell’intelligenza artificiale e dell’automazione non costituisce però tutta la storia. Da qui al 2030 il pianeta continuerà a crescere sia come popolazione sia come ricchezza, a meno di inimmaginabili catastrofi. Il rapporto McKinsey quantifica i cambiamenti economici e sociali della popolazione umana da qui al 2030 e le sue ripercussioni sui posti di lavoro.

  • La popolazione umana nel 2030 arriverà a 8,5 miliardi. Un miliardo in più di oggi e il consumo, specialmente nei paesi oggi emergenti, aumenterà di 23.000 miliardi di dollari all’anno. Una domanda aggiuntiva di nuovi beni e servizi che potrebbe creare intorno ai 250 milioni di nuovi posti di lavoro in tutto il pianeta.

  • Il pianeta invecchierà. Nel 2030 ci saranno 300 milioni di ultrasessantacinquenni in più di oggi. L’invecchiamento farà aumentare i posti di lavoro nella sanità e nella cura della persona, che sono fra l’altro i settori più difficilmente automatizzabili. Stima della McKinsey dei posti di lavoro creati dall’invecchiamento a livello globale: fra i 50 e gli 85 milioni.

  • Lo stesso sviluppo dell’automazione e dell’intelligenza artificiale e la sua applicazione industriale avrà bisogno di nuovo lavoratori. Stima dei posti aggiuntivi creati dalla domanda tecnologica: fra 20 e 50 milioni.

  • Investimenti in infrastrutture, costruzioni ed energie rinnovabili. Opere di rinnovamento di vecchie infrastrutture, di adeguamento o per il mitigamento del cambiamento climatico (fra le quali anche la diffusione massiccia di energie come quella solare o l’eolica). Stima dei nuovi posti di lavoro: fra 100 e 200 milioni.

L'alba del pianeta degli androidi?
L'alba del pianeta degli androidi?

Se confrontiamo gli scenari di riduzione dei posti di lavoro a causa dell’automazione con quelli invece di crescita, spinta dalle dinamiche della popolazione umana, vedremo che il saldo è positivo: ci sarà una crescita dei posti di lavoro per l’uomo. Se infatti confrontiamo le due forchette: 75-375 milioni di posti perduti completamente per l’automazione contro 555 – 890 milioni di posti creati dalla crescita economica (da qui al 2030), ci possiamo rendere conto che, nonostante tutto, il lavoro per l’uomo ci sarà e anzi continuerà a crescere. La McKinsey nel suo rapporto indica anche in quali aree: operatori sanitari; ingegneri e specialisti in generale e nelle tecnologie dell’informazione in particolare; manager e dirigenti con funzioni non automatizzabili; insegnanti e altre figure professionali dell’istruzione e della formazione; creativi, artisti e operatori dell’intrattenimento; professioni e mestieri legati alle costruzioni; mestieri manuali non automatizzabili, come ad esempio badanti, giardinieri o parrucchieri.

È bene ricordare che si tratta di scenari che aiutano a individuare le sfide e gli snodi critici, ma che non pretendono di darci una visione esatta di come sarà il nostro futuro. Sono strumenti tuttavia molto utili per prepararsi a cambiamenti e trasformazioni ormai inevitabili e che, anzi, sono già in corso. Se ci sono messaggi che si possono ricavare da queste analisi, potremmo, semplificando, ridurli a due.

Per affrontare nelle migliori condizioni possibili le sfide del futuro bisogna favorire in ogni modo la crescita economica, perché con la crescita sarà possibile sia impiegare al meglio l’automazione e l’intelligenza artificiale per far aumentare la produttività, sia creare nuovi posti di lavoro aggiuntivi. Secondo messaggio: ci saranno comunque aggiustamenti da fare e turbolenze inevitabili in questa trasformazione (come ci furono due secoli fa con l’esodo dalle campagne nelle città) ed è il caso di prepararsi con strumenti che proteggano i lavoratori spiazzati dalle nuove tecnologie, li aiutino a ricollocarsi dopo aver seguito nuovi percorsi di formazione o comunque ne sostengano il reddito nelle transizioni più difficili. Anche ripensare il sistema scolastico per adeguarlo, almeno in parte, a queste sfide, non sarebbe una cattiva idea. Perché i bambini che oggi entrano alle elementari arriveranno al 2100 e oltre e qui siamo già preoccupati per le trasformazioni previste entro il 2030.

Note

1 Ahimè, in certe imprese, anche se non ci sono più le machine da scrivere, il computer viene usato come una macchina da scrivere e gli appunti e la corrispondenza vengono ancora stampati, perforati e archiviati nei raccoglitori conservati negli armadi metallici che “tappezzano” stanze e corridoi di queste aziende.

2* Il marchio Kodak esiste ancora per sistemi grafici professionali e gestione dei diritti d’autore delle foto “online” con la tecnica del block-chain. Anche il marchio Olivetti esiste ancora, ma è una società del gruppo Telecom Italia.

i Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano, 2015.

ii Gerd Gigerenzer et al., Will Democracy survive Big Data and artificial intelligence?. “Scientific American”, 25 febbraio 2015.

iii What the future of work will mean for jobs, skills, and wages, McKinsey Global Institute, novembre 2017.

iv Carl Benedikt Frey, Michael A. Osborne, The future of employment: how susceptible are jobs to computerization?, University of Oxford, 2013.