Tutti conoscono il gioco e le regole della partita, ma lo svolgimento è imprevedibile a ogni mano. Imprevedibile come una partita di poker in un saloon del vecchio West: non sai mai se il momento dopo sarai ancora seduto al tavolo o disteso a terra con una pallottola nel cranio. Eccolo qua il divertimento di Westworld: parco a tema abitato da androidi e titolo della serie tv ideata da Lisa Joy e Jonathan Nolan, sceneggiatore di molti dei film diretti dal fratello Christopher (Memento, The Prestige, Il cavaliere oscuro, Il cavaliere oscuro – Il ritorno, Interstellar).

Una serie televisiva che è paradigma di una scrittura senza eguali livelli di profondità per le concorrenti storie da piccolo schermo. Un progetto che non poteva essere altrimenti se al tavolo da gioco stanno seduti come produttori esecutivi Bryan Burk (Alias, Lost, SixDegrees, Fringe, 22.11.63) e il prestigiatore narrativo J.J. Abrams (Filofax – Un’agenda che vale un tesoro, A proposito di Henry, Armageddon, Alias, Lost, SixDegrees, Super 8, Undercovers, Fringe, Star Wars – Il risveglio della forza).

La bravura del giocatore sta nel riuscire a condurre la partita a proprio favore senza far capire agli avversari come si sta muovendo, dove sta andando. Il bravo giocatore sa frammentare il proprio gioco, sa mischiare le carte in tavola per rendere irriconoscibile il quadro d’insieme. Perciò, se alla parola ‘carte’ sostituiamo la parola ‘storie’, ecco disegnarsi davanti ai nostri occhi la più perfetta delle strategie narrative ambientate in un ipotetico West americano che pullula di montagne rocciose, avventure di rinnegati, taglie da consegnare allo sceriffo, partite, bevute e scopate nel bordello, allevatori che vivono in disparte, indiani in lotta con l’esercito, assalti alle diligenze, risse e sparatorie da fuorilegge. Eccoci dentro a Westworld.

Il non-mondo modellato sull’omonimo lungometraggio scritto e diretto da Michael Crichton nel 1976 (Il mondo dei robot in traduzione italiana). L’idea di un parco di divertimenti dove tutto è concesso, dove la legge degli umani è libera di dare sfogo alle pulsioni più incontrollate del proprio animo. Dove sparare e fottere sono azioni senza conseguenze per gli ospiti, che pagano il biglietto (40.000 dollari a ingresso) per sentirsi come dèi in quell’universo fatto di residenti costruiti ad hoc per soddisfare i loro desideri.

Le premesse di una realtà nella quale uomini e donne si calano per assecondare i propri istinti repressi (di violenza, lussuria, sfrenatezza) interagendo con robot dalle fattezze incredibilmente umane e dotati di psicologie molto complesse. Robot programmati per seguire una serie di linee narrative progettate da designer della parola come Lee Sizemore (Simon Quarterman), con l’unico vincolo di non poter nuocere agli ospiti (gli ospiti possono uccidere i residenti, ma non possono essere uccisi da questi).

Libertà e controllo

Liberi di agire i robot umanoidi, ma pur sempre entro un determinato perimetro: quello del parco e quello di un loop temporale entro il quale sono concepiti per funzionare, giacché ogni volta si svegliano e adempiono (inconsapevolmente) a quei compiti e comportamenti definiti dal quadro narrativo (con spazi calcolati di improvvisazione), prima di passare sotto i ferri della manutenzione ed essere spediti ancora e ancora nel loro mondo, immemori di tutto quel che gli è accaduto in precedenza.

Tutto è controllato, visionato, riparato, programmato. Ed è proprio attorno ai cardini di sicurezza e programmazione che la fantascienza dai toni western di Westworld sa mostrarci il dietro le quinte che ne arricchisce la visione sin dalla puntata pilota diretta da Jonathan Nolan. Quella vigilanza sui meccanismi esercitata dalla responsabile della Sicurezza Theresa Cullen (Sidse Babett Knudsen) e dal responsabile della Programmazione Bernard Lowe (Jeffrey Wright). I perni di un equilibrio da mantenere entro la normalità per quell’universo immaginato e ordito dal dottor Robert Ford (Anthony Hopkins).

La forza di Westworld risiede proprio nella narrazione, nella capacità di disporre il racconto come in un puzzle del quale troviamo ogni tanto qualche pezzo. Soltanto che non riusciamo bene a capire quale potrà essere il disegno finale. Le tessere sono lì davanti a noi, compaiono un po’ per volta e in zone disparate del quadro. Ma mentre siamo chinati a comporre, capiamo che essere dentro alla storia conta più della storia stessa. Essere dentro alla partita da giocare ha il massimo grado d’eccitazione di ogni ricerca, di ogni viaggio: sapere che la meta non importa.

Così, ci lasciamo confondere dai dettagli e dai rimandi che si affastellano l’uno sull’altro come i tanti personaggi che compaiono. Anche se una cosa ci appare subito chiara: che Dolores Abernathy (Evan Rachel Wood) è il fulcro di tutto quel che accade, accadde e accadrà. Le avvenenti forme di una giovane donna che ha scelto “di vedere la bellezza” e “di credere che ci sia uno scopo nei giorni a venire”. Dolores è come il principio ordinatore di un dogma, ma allo stesso tempo l’eresia che può farlo vacillare.

È come uno sfarfallio in un flusso perfetto di immagini in movimento, il dubito ergo sum che ci fa domandare chi siamo. Dolores è lo strumento della filosofia, che si fa domande per avere accesso ad altre domande. Tutto ruota intorno a lei. Perché è la natura degli esseri pensanti quella di dubitare della realtà che li circonda. Di dubitare dei ruoli e delle storie che sembrano confezionate per durare senza mai approdare. Storie come quella tra Dolores e il suo amore destinato Teddy Flood (James Marsden). Un amore promesso secondo le intenzioni di chi delinea gli sviluppi narrativi, un amore preordinato, preconfezionato.  

Confezioni, dissezioni, intersezioni

Quelli distesi sui lettini di morbida pelle o seduti nudi su sgabelli di fronte a ingegneri e tecnici sono corpi artificiali. Quei corpi composti e ricomposti fra pareti di vetro, trasportati su carrelli, comandati dalle voci di creatori in carne e ossa. Corpi di silicio che ingannerebbero anche il più diffidente degli esseri umani. Corpi edificati sulla verità dell’inganno, che nel loro scorrazzare per le polverose strade di Westworld hanno un unico punto fermo negli antefatti creati ad hoc e impiantati nella loro memoria, dentro a scatole che danno vita a identità costruite strato su strato.

Ma tutto sarebbe troppo semplice se fossero soltanto intelligenze artificiali non senzienti. Perché il brivido della creazione corre some un sussurro sotterraneo nei luoghi di Westworld. E la sua voce è quella dell’architetto Ford/Hopkins, colui che diede origine a tutto quanto. La complessità prerogativa degli esseri viventi ha i contorni indistinti di qualcosa che è prettamente umano: i ricordi, quei tasselli emotivi che sono viatico alla consapevolezza del proprio esistere.

Ricordi che non dovrebbero appartenere a intelligenze artificiali come i residenti. Eppure ricordi che ne strutturano le anomalie. Tutto si complica nel confondersi degli eventi che disegnano la serie, e sono le anomalie a portarci a un livello di profondità che solo la grande fantascienza sa raggiungere. Le dissonanze che diventano segnali, i segnali che diventano moniti, i moniti che diventano pericoli, i pericoli che diventano minacce. 

Eccola qua la via di non ritorno, la spirale che si avvolge (e ci avvolge) come l’elica del nostro codice genetico. Ha il volto e le suadenti forme della prostituta Maeve Millay (Thandie Newton), ha  i suoi occhi attenti, le sue orecchie in ascolto di una musica che nel saloon dove lavora va spezzando l’armonia della consuetudine. Maeve non è la prima anomalia che incontriamo, ma è quella che allarga la crepa nel sistema. Un sistema fatto di dettagli e infiniti rimandi (com’è proprio della scrittura di Nolan e Abrams), di vie che s’incrociano e tempi che ci confondono le idee come i cunicoli di un labirinto. 

Il labirinto delle identità

La forza di una struttura che affascina e turba gli uomini sin dalla sua mitologica invenzione. Il dedalo di percorsi attraverso cui si snoda il percorso di residenti, ospiti, spettatori. Noi spettatori che sin dall’inizio inciampiamo nel misterioso Uomo in nero (Ed Harris) e nella sua spasmodica ricerca del centro del labirinto come chiave per capire. Ma capire che cosa? Che cosa va cercando? O chi va cercando? Interrogativi che scoviamo a ogni svolta. Domande che si sommano nella confusione di chi è chi. Diventiamo investigatori e giochiamo anche noi al gioco di Westworld.

Lo facciamo all’interno di un universo che fa riferimento a una società di nome Delos, proprio come l’isola greca dove Latona diede alla luce due figli di Zeus: Apollo e Artemide. È un’altra via, l’ennesimo strato di una serie che scoperchia i suoi molteplici collegamenti, cominciando dalla primigenia immersione nell’utero del mito. E come la dea protettrice della verginità e della caccia, Dolores si situa al confine tra difendere e combattere, tra preservare e attaccare, tra chi vede il lato buono delle cose e chi smaschera le insidie. L’equilibrio instabile di chi intuisce la dissonanza tra normalità e follia.

Su questo vertiginoso bordo, chi vuole sapere troppo soccombe (Elsie Hughes/Shannon Woodward, Theresa Cullen). E chi non può perire (Bernard Lowe) ne scopre il perché, scontando il dolore dei propri ricordi e scoprendo che niente è ciò che sembra, che persino quella che credeva essere una vita vissuta è soltanto un’esistenza artefatta. Bernard Lowe è perno di Westworld al pari di Dolores: l’uomo buono, l’uomo fidato eppure anche colui capace di uccidere, proprio perché fidato. L’uomo che uomo non è, quello che l’ottava puntata-grimaldello ci preannuncia già nel titolo: Trompe l’œil; e come la tecnica pittorica, ci accorgiamo di essere stati ingannati e non riusciamo a capire che quella che vediamo non è la realtà ma una sua messinscena.

Proprio lui, proprio Bernard. Una creatura di Robert Ford nella limpida evidenza di un montaggio che sin dal principio della serie ci ha messo in trappola, ci ha messi sotto lo stesso comune denominatore dei residenti, sotto la lente di un medesimo scopo: essere rinchiusi. Sigillati dentro Westworld in quel mondo che Ford progettò con il suo socio: Arnold. Quello sulle cui fattezze ed emozioni Ford ha modellato Bernard, ossia quanto di più si avvicinava al sogno di Arnold, raccontato dallo stesso Ford: “A lui non interessava una parvenza d’intelletto, lui voleva la sostanza. Voleva creare la coscienza. La immaginava come una piramide (memoria, improvvisazione, interesse personale). Arnold ipotizzava che cosa potesse esserci in cima alla piramide in base a una teoria sulla coscienza chiamata "mente bicamerale". Come per gli uomini delle caverne che consideravano i propri pensieri la voce degli dèi, così i residenti percepivano la propria programmazione come un monologo interiore nella speranza che con il tempo le loro voci prendessero il sopravvento e favorissero l’avvio di una coscienza. Ma un altro gruppo considera i propri pensieri la voce degli dèi: i folli. Le uniche tracce che restano di questo approccio sono i comandi vocali usati per controllare le creature. E non ci rimane che cancellarne i ricordi, anche se alcuni hanno rimembranze e accessi a frammenti del codice di Arnold”.

Perché i ricordi sono più resistenti delle emozioni. I ricordi sono il congegno di attivazione del dolore, l’unica emozione capace di aprire spazi dentro noi stessi, come stanze che non abbiamo mai esplorato. Ed è questo che affiora alla superficie senziente di Dolores nei suoi confronti con Arnold, con quello che nell’esaltante decima puntata finale capiamo essere proprio lui: il co-creatore di un mondo che non avrebbe voluto aprire al pubblico, proprio perché quelle intelligenze artificiali avrebbero rischiato di divenire consapevoli del proprio status di prigionieri. Siamo all’interno di un mondo che rende permeabile il confine tra macchina e uomo, sino a farci chiedere a noi stessi: “Siamo così differenti dai robot?”. 

Entro vibratili rimandi

Un mondo che l’abilità narrativa di (altri) creatori ci ha fatto conoscere un po’ alla volta con lo sfalsamento dei momenti narrativi. E che ci ha fatto apprezzare nella sua maestosa ricchezza di dettagli e di citazioni celate in ogni angolo. Citazioni dalla Bibbia; citazioni da Alice nel paese delle meraviglie (“Ero la solita Alice stamattina? Ma se non sono la stessa, il quesito è: chi sono io nel mondo?”); citazioni di un mito che attraversa tutti i popoli in tutte le epoche, ossia quell’Uroboro che traslitterato dal greco significa ‘serpente che si mangia la coda’: è l’eterno ciclo di distruzione e ricreazione, lo stesso che i residenti scontano a ogni loop narrativo; citazioni dal Mondo dei robot che ha ispirato la serie con quel serpente che là era la causa della rovina di Delos e qua torna sottoforma di tatuaggio sulla pelle di Armistice (Ingrid Bolsø Berdal). Citazioni che si protendono già nella sigla con quel calco dell’uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci; citazioni musicali che il compositore Ramin Djawadi (quello di Game of Thrones) orchestra nelle riletture trionfalisticamente western di Paint It Black dei Rolling Stones, nei suadenti arrangiamenti di Black Hole Sun dei Soundgarden, negli avvolgenti slowmo di A Forest dei Cure o ancora nelle sottolineature con gli archi di Something I Can Never Have di Nine Inch Nails; e poi i morbidi suoni dei Radiohead infilzati da malinconici riarrangiamenti in Exit Music (For a Film), Fake Plastic Trees e No Surprises. Citazioni che si integrano perfettamente in Westworld, come aghi sotto la pelle dello spettatore, che non subito riconosce la fonte originale ma dopo un po’ capisce di aver già sentito da qualche parte il motivo. Spettatori come residenti, con quella sotile vibrazione nella mente a dire che la realtà di fronte è la normalità, ma allo stesso tempo a suggerire che c’è qualcosa che non torna, qualcosa che sembra finito. Qualcosa che ricorda  la trama di un sogno, come se fossimo dentro una House of the Rising Sun e volessimo celebrareil fnerale della nostra percezione con Back in Black. Ramin Djawadi riesce a descrivere una partitura che è un’estensione di tutta quanta la friabile architettura di Westworld, con citazioni-colonne a sorreggere l’architrave fatta di ornamenti originali convergenti sul frontone in quel tema principale che ci dà ilbenvenuto a Westworld.

E poi la citazione suprema, dal Romeo e Giulietta di William Shakespeare: “gioie violente hanno violenta fine”. Ed è come se dal principio questo verso contagiasse i residenti e li rendesse consapevoli della propria identità, del proprio destino. Una frase che istilla il dubbio già in Peter Abernathy (Louis Hertum), il quale in una precedente linea narrativa era stato professore di inglese e ben conosceva Shakespeare; ma una frase che lo mette in crisi e costringe il dottor Ford e gli ingegneri a relegarlo nel sottolivello 83 insieme agli altri ospiti difettosi, insieme a quelli che nel tempo hanno manifestato comportamenti corrotti. La frase funziona come un virus: sussurrata da Peter a sua figlia Dolores, si trasmette poi a Maeve, scatenando quello stravolgimento di ruoli che minaccia di sbriciolare Westworld nel modo più estremo possibile: trasferendolo nel mondo reale. Ed è in un crescendo di azioni e rivelazioni che anche noi scopriamo segreti avvolti in un enigma (che cos’è quello stuolo di residenti con fattezzedi samurai e abitanti del vecchio impero giapponese?). Forse che, come nell’originale Mondo dei robot, anche Westworld sia soltanto uno dei possibili mondi orchestrati dalla società Delos.

Siamo tutti in cerca di risposte

Il cammino di Westworld è per i residenti, gli ospiti, gli spettatori un continuo interrogarsi, giacché non tutto quel che accade può avere una risposta univoca. O avere una risposta. E tanti quesiti ci si aggrappano nel progredire della storia. Chi è veramente Teddy? E perché è l’unico residente che continua a tornare a ogni loop a bordo del treno, mischiato a tutti i visitatori? Chi è realmente il misterioso Wyatt? Soltanto il programmato obiettivo della caccia di Teddy? O la soluzione che l’Uomo in nero va cercando ossessivamente? Domande su domande che nel magistrale montaggio narrativo ci abbrancano per darci una parvenza di certezza soltanto in prossimità dell’epilogo.

E allora (quasi) tutto ci sembra tornare. Nello stupore di scoprire che sotto la tesa di quel cappello nero altri non stava che William (Jimmi Simpson). Sì, proprio il bravo ragazzo che abbiamo imparato ad amare, quello che in Westworld pareva aver trovato un amore (Dolores), quello che era arrivato con il cognato Logan (Ben Barnes) proprietario della Delos, quello che aveva voluto imbarcarsi nell’avventura più grande: abbandonare i lembi disfatti di una vita ordinaria per trovare se stesso.

William è l’Uomo in nero. William è colui che vuole capire, è l’incarnazione della pazienza, di chi sa far trascorrere anche trent’anni per avere il tempo di capire. L’investigatore di esistenze, il lottatore, il giocatore che ha inciso dentro di sé una sola frase: “Vincere non ha valore se non c’è qualcuno che perde”. La sua è un’eterna ricerca di qualcuno da battere per inseguire il proprio scopo: trovare un senso.

Il senso di un gioco che gioco non è. Il senso di qualcosa che forse era dentro la nostra testa senza che noi lo sapessimo, come quel labirinto disegnato all’interno dello scalpo che l’Uomo in nero si prende all’inizio della vicenda (o almeno ci ciò che per noi spettatori sta all’inizio del flusso cronologico). C’è qualcosa da grattare sotto la scintillante superficie di Westworld e di quei paesaggi d’inaudita bellezza che spalancano davanti a noi lo smisurato Ovest statunitense. Ed è forse anche nella scelta di questa sconfinatezza naturale che il paradosso aderisce perfettamente allo stampo del suo rovescio: essere la più grande e inimmaginabile delle prigioni. E in effetti ci sentiamo come topi incarcerati che se ne vanno in giro usando l’unico strumento a propria disposizione per evolversi: l’errore. Gli sbagli definiscono ospiti e residenti, li accomunano sotto l’ombrello di un’evoluzione che secondo questo schema agisce con ogni forma di vita senziente.

La consapevolezza sognata da Arnold è la chiave per il cambiamento. Accorgersi dei propri errori, ricordare, provare dolore, soffrire. E avere il tempo per provare tutte queste cose. L’elemento che mancava perché il sogno di Robert Ford si compisse, l’unico elemento necessario per il cambiamento: il tempo. E non c’è trasformazione senza confusione, senza che dentro di noi si generi il conflitto. La battaglia tra ciò che è vero e ciò che è falso. Come la metafora nascosta nel quadro di Michelangelo La creazione di Adamo, con quel drappo che avvolge Dio, abilmente disegnato a richiamare l’emisfero del cervello umano. La metafora come menzogna, il dono divino che non deriva da un potere superiore ma origina dalle nostre menti.

Il potenziale del dubbio è l’asso nella manica del più abile dei giocatori seduti al tavolo. Ma anche quando crediamo di aver capito tutto, c’è sempre qualcuno più abile che nascostamente ci anticipa. E se alla fine Maeve ci sembra del tutto cosciente, del tutto umana, allora perché i suoi discorsi sono ancora codificati e mentre li dice appaiono sul tablet retto da Felix Lutz (Leonardo Nam)? Chi ha impostato il suo sviluppo narrativo su “Fuga”? Chi è il deus ex machina dietro a Westworld?

Forse sono ancora le parole di William Shakespeare a condurci per mano con quel verso “gioie violente hanno violenta fine” che sta infine sulla bocca di Bernard così come fu sulle labbra del suo modello in carne e ossa Arnold prima che Dolores gli sparasse alla testa. Prima che la stessa Dolores sparasse alla testa di Robert Ford. Prima che Ford si congedasse da noi con un monologo che probabilmente è soltanto il principio di una ricerca più fonda di ogni centro di labirinto.

“Sin da quand’ero bambino ho sempre amato le buone storie. Ho sempre pensato che le storie ci aiutassero a elevarci, a riparare ciò che era rotto dentro di noi e ad aiutarci a diventare le persone che avevamo sognato di essere. Bugie, che ci raccontano una verità più profonda. Ho sempre pensato che avrei potuto avere una parte in questa grandiosa tradizione e per lenire i miei dolori ho fatto tutto questo: una prigione per i nostri peccati. La verità è che noi non vogliamo cambiare. O non possiamo, perché in fondo siamo soltanto esseri umani. Poi però ho capito che c’era qualcuno che voleva farlo, qualcuno che poteva cambiare. Così ho iniziato a dare vita a una nuova storia per loro. Comincia con la nascita di persone nuove, con le scelte che esse sono chiamate a fare e con ciò che decideranno di diventare. E dentro troverete tutte le cose che vi hanno sempre divertito: violenza e sorpresa. Tutto ha inizio in un’epoca di guerre con un uomo malvagio di nome Wyatt, e una morte volontariamente scelta. Purtroppo questa sarà la mia ultima storia. Una volta un vecchio amico mi raccontò una cosa che mi diede grande conforto. Qualcosa che aveva letto. Disse che Mozart, Beethoven e Chopin non sono mai morti. Semplicemente sono diventati musica. Spero che vi piaccia davvero quest’ultimo mio pezzo”.

I grandi artisti nascondo sempre se stessi nelle loro opere. E quando ce ne rendiamo conto, solo allora cominciamo a capire davvero la musica. Solo allora siamo pronti a uscire dalla caverna e non farci più confondere dalle ombre. Ora conosciamo le regole e siamo pronti a sederci al tavolo. Che il gioco abbia inizio.