Un caso su tutti, il termine Replicante, non il frutto di un’illuminata traduzione (a volte è proprio il traduttore il papà dei neologismi più efficaci), ma una parola creata a bella posta

da Philip K. Dick nell’originale di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? per rilanciare in modo assolutamente nuovo il connubio uomo-macchina e riempire di valenze inedite il concetto stesso di riproducibilità umana. Come spiega Nicoletta Vallorani in un suo interessante saggio, “avvicinandosi all’umano, la macchina perde l’inflessibile indifferenza che la rendeva servile. La sensibilità porta a una ribellione cosciente, che è desiderio di libertà. [...] Ora se è vero che il robot è concepito come la realizzazione di un modello, esso non dovrebbe avere problemi di identità. La questione si complica man mano che lo stereotipo di partenza si articola fino ad acquisire le caratteristiche di una “persona vera”"1. Non quindi una macchina e basta, e nemmeno una semplice riproduzione sintetica (a volte “banalizzata” da certa letteratura e certo cinema), ma qualcosa di profondamente più completo che poteva essere espresso e delineato solo da una parola nuova, che rappresentasse un rilancio rispetto a tutti i sinonimi conosciuti. Alzi la mano chi alla parola Replicante o rivedendo nella propria mente le immagini di Blade Runner, sarebbe disposto a considerare gli androidi di Dick alla stregua di semplici copie deambulanti in stile Rank Xerox?

Magia delle parole, appunto.

Circa la mia esperienza di autore, ricordo di quando alla consegna in Mondadori di Infect@ mi fecero notare che sarebbe stato opportuno modificare il supporto fisico dei +toon (originariamente un semplice Compact Disc) in qualcosa di più “futuribile”. Avevo preso, cioè, un oggetto del 2005 e, pur immaginandolo aggiornato, mi ero illuso che suonasse ancora credibile vent’anni dopo, nel 2025. Avevo compiuto una piccola “ingenuità tecnologica”, alla quale si sarebbe potuto porre rimedio semplicemente cambiando una parola (con un taglia & incolla, per qualche decina di volte). Miniaturizzai l’oggetto (l’operazione dà sempre buoni frutti quando si deve declinare un gingillo elettronico al futuro) e optai per il termine Tera disc. Nel 2008 - a soli tre anni dalla consegna del romanzo - la misurazione dello spazio di memoria in “Tera byte” non è più fantascienza, anche se i tera disc non sono ancora approdati sugli scaffali di MediaWorld (ricordatevi, comunque, che il copyright è mio!). Se dovessi consegnare il romanzo domani mattina, dovrei scegliere un’altra parola. A mia parziale discolpa dirò che non sono pochi gli autori di fantascienza che hanno in qualche modo sottostimato la velocità del progresso scientifico e tecnologico finendo con l’approssimare per eccesso l’effettiva traduzione in realtà di quanto avevano profetizzato. Però, i +toon (questo, sì, un termine tutto del sottoscritto), ho qualche dubbio che li vedremo mai...

Nella prima versione di Infect@ compariva anche il termine Blue Tooth, che nel corso della revisione fu virato in Black Tooth: concetto uguale, colore diverso, effetto upload assicurato.

Un secondo aneddoto riguarda invece un mio romanzo di prossima pubblicazione. L’argomento in questione era “telefonini”. Qui il problema mi saltò all’occhio subito: memore dell’esperienza precedente, mi posi la questione se veicolare il concetto di cellulare usando una parola diversa, chessò vocal-qualcosa o tele-qualcosaltro. A volte coi formaggi e i farmaci lo fanno! In ultima analisi, però, l’idea doveva essere la stessa, volevo che il lettore leggesse vocal-qualcosa e recepisse te-le-fo-ni-no. Scelsi di non farne nulla, cellulare era in origine e cellulare rimase. Dopotutto, in Matrix i telefoni sono telefoni, di vecchia solida bachelite, e hanno ancora - udite udite - il disco combinatore, che non si vede più da almeno 25 anni. Merito forse della dirty visual, che tanta parte ebbe nel rendere Blade Runner un capolavoro e molte opere cyberpunk - in narrativa e al cinema - straordinariamente visionarie e innovative.