Una porzione promettente delle ricerche attualmente in corso in materia di nanotecnologie verte sull’impiego dei cosiddetti nanotubi di carbonio, particolari architetture molecolari del carbonio, lo stesso elemento che costituisce la base della vita organica sulla Terra e che in natura è presente sottoforma di carbone, graffite o diamante. Tra le caratteristiche di spicco dei nanotubi di carbonio vi sono la resistenza meccanica alla trazione, la sensibilità ai campi elettrici e proprietà conduttive variabili in base alla geometria, dal comportamento metallico a quello semiconduttore (come il silicio su cui si basa oggi l’industria della microelettronica). In virtù delle loro caratteristiche geometriche e fisiche, a partire dalla loro ideazione queste strutture hanno goduto di una popolarità crescente, che non di rado le ha portate a varcare il confine, labile e mutevole, che separa la scienza dalla fantascienza. Una dimostrazione quanto mai opportuna arriva con un tempismo perfetto dall’ultimo lavoro di Bruce Sterling, pubblicato lo scorso novembre nella collana Odissea Fantascienza della Delos Books: Il chiosco tratta proprio della possibile rivoluzione sociale che potrebbe essere propiziata dall’avvento di nanofabbricatori in grado di riprodurre oggetti di ogni forma, attraverso l’impiego di nanotubi di carbonio, stravolgendo l’industria manifatturiera.

I nanotubi sono stati scoperti nel 1991 da Sumio Iijima, ricercatore presso l’industria elettronica giapponese NEC Corporation. Nel 1985 il chimico americano Richard E. Smalley aveva scoperto che gli atomi di carbonio tendono a disporsi, sotto particolari condizioni, in strutture dalla forma sferica. Tali strutture, inizialmente denominate soccereni per via della loro somiglianza con un pallone da calcio, furono poi ribattezzate fullereni in omaggio al celebre architetto Richard Buckminster Fuller, che ne diffuse la concezione nel nostro immaginario attraverso la riproduzione della loro struttura nelle cupole geodetiche riprese anche da tanti scrittori di fantascienza, a partire da William Gibson con le sue visioni dello Sprawl. La caratteristica strutturale dei fullereni è di disporre gli atomi di carbonio in anelli esagonali e pentagonali, il che ne impedisce di assumere la caratteristica forma planare che contraddistingue la graffite (composta esclusivamente da anelli esagonali di carbonio, un atomo per ogni vertice). Questa varietà allotropica del carbonio, quando viene forzata a un fenomeno detto di rilassamento, tende ad arrotolarsi su se stessa producendo la tipica struttura cilindrica, tubolare, che contraddistingue i nanotubi di carbonio.

Il corpo di un nanotubo è formato da soli esagoni, mentre esagoni e

pentagoni di carbonio (proprio come nei fullereni) si uniscono a formare le strutture di chiusura. L’elevatissimo rapporto tra la lunghezza dei nanotubi (fino a ordini di grandezza di diversi millimetri) e il loro spessore (compreso tra 0,7 e 10 nanometri) consente di considerarli come delle strutture agli effetti pratici monodimensionali, caratteristica che è all’origine delle loro peculiari proprietà. I nanotubi possono essere suddivisi in nanotubi a parete singola (SWCNT, da Single-Wall Carbon NanoTube) e nanotubi a parete multipla (MWCNT, da Multi-Wall Carbon NanoTube), a seconda che uno o più strati risultino avvolti su se stesso o coassialmente l’uno sugli altri.

Per via delle loro proprietà negli ultimi anni – in particolare a partire dal nuovo millennio – i nanotubi di carbonio sono stati al centro di un numero crescente di studi. Le possibili applicazioni spaziano dalla messa a punto di nuovi circuiti elettronici miniaturizzati e veloci (in grado di consentire la transizione dalla microelettronica alla nano elettronica) al loro impiego come nanoattuatori elettromeccanici o nanobilance (sfruttandone le capacità di risonanza in presenza di campi elettrici ad alto voltaggio); dalla realizzazione di nanomacchine da utilizzare nel modellamento atomico di strutture molecolari alla riproduzione delle loro caratteristiche per realizzare resistentissime funi chilometriche in grado di supportare, per esempio, le strutture di un ascensore orbitale del tipo concepito da Arthur C. Clarke ne Le fontane del paradiso. Dal 2007 il Dipartimento di Chimica e Scienze Ambientali del New Jersey Institute of Technology si sta occupando di adottare nanotubi di carbonio nella realizzazione di celle fotovoltaiche efficienti ed economiche, e già da qualche tempo si sperimentava la loro applicabilità nell’ambito dell’interfaccia uomo-macchina. Da qualche tempo è infatti attivo presso l’Università della California un programma di ricerca che prevede di impiantare neuroni prelevati dall’ippocampo di topi su un substrato di nanotubi a parete multipla.

Ma un importante impulso alla ricerca nel campo dell’integrazione tra tessuti biologici e componenti artificiali è arrivato nei giorni scorsi, grazie ai risultati ottenuti da un team interdisciplinare di ricercatori italiani e svizzeri. Lo studio ha coinvolto Michele Giugliano e Henry Markram del Laboratorio di Microcircuiti Neurali (Ecole Polytechnique Federale di Losanna, in Svizzera) e Laura Ballerini e Maurizio Prato dell’Università di Trieste, e ha dimostrato l’aumento dell’eccitabilità in neuroni connessi a nanotubi di carbonio. Secondo la ricerca, pubblicata il 22 dicembre scorso nell’edizione elettronica della rivista Nature Nanotechnology, i nanotubi riescono a formare contatti molto solidi con le membrane cellulari dei neuroni, “stabilendo una relazione con le strutture neuronali molto più potente di quella ottenibile con gli altri materiali metallici che costituiscono, per esempio, gli elettrodi impiegati nel trattamento clinico di alcune patologie nervose (come il tremore parkinsoniano). In particolare, i nanotubi possono aumentare la probabilità di cortocircuiti  funzionali fra le diverse parti della morfologia di un  neurone, aumentandone la performance”. La resistenza di questi collegamenti artificiali può essere sfruttata per ripristinare l’integrità di percorsi neurali danneggiati, riparare lesioni attraverso ponti neurali alternativi che aggirino eventuali traumi localizzati oppure predisporre interfacce neurali per neuroprotesi.

“I risultati riportati nel nostro lavoro” spiegano gli autori nell’articolo, “indicano che i nanotubi potrebbero influenzare l’elaborazione neurale dell’informazione”. I nanoelettrodi al carbonio potrebbero essere anche usati per rimpiazzare le parti metalliche in trattamenti come la stimolazione elettrica profonda per i casi di Parkinson, e aprono la strada allo sviluppo di un’ampia varietà di materiali “intelligenti” utili per la riorganizzazione di sinapsi all’interno delle reti neurali e per l’implementazione di neuroprotesi. Secondo Giugliano i nanotubi potranno essere usati in prospettiva come mattoni di nuovi sistemi di “bypass elettrico” per ripristinare le funzioni compromesse da danni traumatici al sistema nervoso centrale: “Questo risultato è di estrema rilevanza per il nascente campo della neuro-ingegneria e della neuro protesica”.

E Markram ha rilanciato: “Ci sono tre ostacoli fondamentali allo sviluppo effettivo delle neuroprotesi. Il primo è l’interfacciamento stabile delle apparecchiature elettromeccaniche con il tessuto nervoso; il secondo è la comprensione di come stimolare il tessuto nervoso; e infine il terzo è la comprensione di quali segnali nervosi registrare affinché l’apparecchiatura decida in modo automatico e appropriato lo stimolo. La nuova tecnologia di interfaccia tramite nanotubi di carbonio, unita con le più recenti simulazioni delle interfacce cervello-macchina, può essere la chiave per lo sviluppo di tutti i tipi di neuroprotesi, per la vista, l’udito, il gusto, il movimento, l’eliminazione degli attacchi epilettici, il bypass spinale e anche per la riparazione e perfino il miglioramento delle funzioni cerebrali”.

Guardando oltre l’orizzonte, potremmo forse un giorno affermare che in questo modo sono state gettate le basi per l’integrazione nanotecnologica del nostro sistema nervoso centrale, con tutto quello che l’interfaccia bio-sintetica può comportare sul fronte – finora di esclusivo appannaggio degli scrittori di fantascienza – dell’intelligence enhancement e dell’augmented reality.

Abbiamo raggiunto la dottoressa Laura Ballerini, neurofisiologa dell’Università di Trieste presso il centro Brain, e il dottor Michele Giugliano, ingegnere elettronico attualmente all’Università di Anversa, coautori dello studio che si sono dimostrati estremamente gentili e disponibili nel rispondere per i nostri lettori ad alcune domande.

Quali sono le applicazioni della vostra ricerca che ritenete più promettenti nell’immediato?

Le applicazioni a più breve termine che vediamo sono senza dubbio legate allo sviluppo di nuovi elettrodi per gli impianti cerebrali profondi e per gli stimolatori elettrici (per esempio stimolazione elettrica cocleare, retinica, etc.). L’uso di un materiale metallico ricoperto da una dispersione di nanotubi di carbonio ne cambia le proprietà elettriche all’interfaccia elettrodo-elettrolita. È come se un elettrodo metallico migliorasse le sue proprietà di agire come un’antenna ricetrasmittente.

E sul versante delle ricadute a più lungo termine?

Quando i tempi saranno maturi potremo sfruttare non solo questo cambiamento superficiale, ma anche il fatto che dei minuscoli “ciuffi” di nanotubi, tutti ancorati alla superficie dell’elettrodo metallico, possano avvicinarsi alle membrane dei neuroni e punzecchiarle. Questo contatto estremamente intimo dovrebbe risultare in un nuovo straordinario modo di trasduzione del segnale dall’elettrodo al neurone e viceversa, senza che il neurone ne venga a soffrire.

Quali sono stati gli esiti più interessanti della ricerca?

La cosa sorprendente del nostro studio è che quando i nanotubi di carbonio vengono messi a contatto con un neurone, abbiamo notato un cambiamento apparente delle caratteristiche di propagazione dei segnali (endogeni) all’interno del neurone stesso. Un neurone è come una cabina telefonica che riceve una moltitudine di squilli da altri telefoni e convoglia i propri segnali a valle, letteralmente, tramite un cavo elettrico. È osservando indirettamente le conseguenze della propagazione dei segnali all’interno di uno stesso neurone che abbiamo osservato l’effetto dei nanotubi. Non crediamo che sia un effetto di tipo chimico, o un’interazione non specifica. Sembra che sia una conseguenza delle proprietà conduttive (come il rame) combinate con la presenza dei “ciuffi” nanoscopici di cui sopra. Ipotizziamo che ci sia una sorta di cortocircuito, una specie di parallelo fra punti diversi del neurone, capace di accelerare localmente la propagazione degli impulsi.

Questo potrebbe tradursi – come è stato annunciato sui principali organi di stampa – in una ottimizzazione dei processi chimici che coinvolgono il funzionamento dei neuroni? Un primo passo verso cervelli iperveloci?

Dal punto di vista della ricerca sui meccanismi del cervello, potremmo oggi disporre di un materiale in grado di ingegnerizzare le performance elettriche di un neurone o di una rete di neuroni. Per il momento questo potrebbe avvenire in un contenitore di vetro dove una porzione di sistema nervoso viene mantenuto in vita. Se riusciremo a sfruttare questo strumento, potremo capire meglio come funziona una porzione del sistema nervoso “in vitro”. Il passo successivo è capire come e se questo effetto di cortocircuito controllabile avviene anche sul sistema nervoso intatto.