Un libro importante, questo Adieu pearà, un libro da prendere sul serio, anche se forse il goliardico autore (o collettivo di autori), espressione della fanzine L’ombroso, non apprezzerà una recensione seria.

Innanzitutto perché parla di Verona, e romanzi di fantascienza (perché di questo comunque si tratta, ambientandosi la vicenda nel 2029) che si svolgono nella città scaligera se ne contano davvero pochi. Nonostante la proverbiale fama di mati attribuita ai veronesi consenta non poche fantasticherie, speculazioni, estrapolazioni sul loro conto e su quello della loro romanzesca città, Verona sale spesso agli onori della cronaca più realistica e prosaica, soprattutto nera – ed è questa una fama con cui la narrazione gioca, e bene.

Il romanzo è un testo importante, poi, perché parla della Verona odierna e delle sue derive più tristi e meschine senza esserne un’allegoria scoperta, senza la preoccupazione di far capire al lettore che si sta parlando di questo o di quel personaggio, senza essere fantapolitica a tesi. Anzi, le parti forse più deboli della narrazione, dove essa pare avvolgersi nell’autoreferenzialità, sono proprio quelle in cui si fanno nomi e cognomi, in cui traspare la satira ad personam oppure l’inside joke comprensibile al gruppo da cui il narratore trae la sua origine: ci sono passi – a cavallo tra la seconda e la terza parte del romanzo – che possono risultare francamente ostici ad un non-veronese, o addirittura a un non-ombroso (Ombrosi sono i membri della folle società segreta – che assume a tratti connotati chestertoniani – che anima la rivoluzione carnascialesca che conclude il romanzo, e che nasce da quello stesso gruppo), e che comunque suonano estranei in un testo davvero gradevole nella sua capacità di dipingere luoghi e stati d’animo e (pur non scevra da errori, forse frutto della molteplicità delle mani intervenute, più che di un editing carente) nella ricercatezza lessicale che può ricordare un Labranca, anche per la parsimonia del turpiloquio.

È un testo di speculative fiction, dicevamo: è una vera e propria estrapolazione delle tendenze in atto – oggi, ma pare che sia da sempre – nella società veronese, che – quale che sia il colore politico dominante – si ingrigisce e involgarisce sempre più in prevaricazioni e abusi di potere, in paure e sottomissioni, in rivalità e sgarbi e litigi e guerre con nemici sempre nuovi:  Montecchi e Capuleti, Hellas e Chievo… nel romanzo, abbandonata la città anche dagli immigrati, un’inedita, paradossale rivalità esplode sotto gli occhi dell’impotente protagonista. Si perviene al gran finale, tragico e poetico, per accenni, per accumulazione di dettagli del paesaggio umano – che è veronese sì, ma inevitabilmente, malinconicamente italiano (e Caparezza ne sarebbe un’ottima colonna sonora) – in un crescendo che non sembri eccessivo definire ballardiano, dove le amicizie ingombranti, i messaggi obliqui, i segnali apparentemente trascurabili prendono progressivamente forme e dimensioni inquietanti.

Il protagonista, che rientra a Verona per assistere la madre e si ritrova coinvolto in una serie di circostanze grottesche per la loro imperscrutabilità, è tutto fuorché un eroe, e descrive bene la sensazione – quella sì, tipicamente veronese – di non capire del tutto le dinamiche dei “giri” che ci si trova a frequentare, di essere sempre un po’ “tagliati fuori”, anche quando si è parte dei circoli che contano – magari solo perché si è strumentali agli interessi di qualcuno, che rimane sempre in sella anche quando cambia bandiera. Il protagonista-narratore, vagamente mediocre, ma con velleità rivoluzionarie, come un personaggio di Houellebecq, si muove con vana circospezione in questi meandri sociali, ma finisce tirato, addirittura conteso da parti opposte della disputa, senza in realtà potervi contribuire in alcun modo, e covando un desiderio di fuga che è l’unica risposta possibile allo squallore imperante. E allora anche il recensore, che a Verona ci vive, si ritrova a temere, adesso, non già ritorsioni per aver lodato un libro proveniente da circoli semiclandestini della Verona non allineata, bensì proprio apprezzamenti imbarazzanti e compromettenti, da qualsiasi parte provengano.