The Shape of Water, in Italiano nelle sale con il titolo La forma dell’acqua dal 15 febbraio, è l’ultima creazione di Guillermo del Toro.

Mentre nelle ultime settimane vediamo girare il trailer di Pacific Rim 2, prodotto da Del Toro e seguito del film da lui diretto nel 2013, La forma dell’acqua vince il Golden Globe, il Leone d’Oro e una marea di nomination agli Oscar: non possiamo non notare l’incredibile differenza tra i due film. Il primo progettato per diventare un blockbuster che strizzava l’occhio ai cliché Hollywoodiani (legittimo anche per Del Toro, per carità), il secondo più riservato, più di nicchia, forse senza grandi aspettative dal botteghino (che però potrebbe sorprendere) ma lanciato a fare incetta di premi e che la critica applaude con ovazioni in piedi.

La forma dell’acqua è in effetti un film che potremmo definire d’autore – più di qualsiasi altro di Del Toro – perché affronta i temi fantastici in una maniera adulta e raffinata. È riuscito a trasformare un mostro pulp come quello “della laguna nera” in un antieroe più umano degli stessi umani. Ma è soprattutto nella sua realizzazione più che sulla trama che La forma dell’acqua sbalordisce ed eccelle. Infatti la cura dei dettagli, nelle scenografie e nel casting sono veramente strabilianti.

La storia, in breve e senza spoiler, parla di un uomo pesce (c'è anche un nome scientifico, Homo piscis) che viene trovato dal governo americano in Amazzonia durante gli anni Sessanta e viene portato in un centro di ricerca segreto.

Qui, una semplice donna delle pulizie, Elisa Esposito (Sally Hawkins), si incuriosisce della creatura e prova compassione per la sua sorte. Ambedue muti, l’una a causa di un trauma infantile, l’altro per questioni evidentemente biologiche, comunicano con i segni e con gli sguardi. Elisa se ne innamora e lo aiuta a scappare dal laboratorio ospitandolo a casa sua, o meglio nella vasca di casa sua. Non poteva mancare un cattivo di tutto rispetto, ovvero il direttore del centro di ricerca interpretato da uno strepitoso Michael Shannon che si rende conto di quello che sta succedendo e cerca in tutti i modi di bloccare la loro fuga.

Raccontata così sembra una trama lineare, molto semplice, ma a punteggiarla di eccellenze e di sofisticazioni sono a mio parere le storie dietro ai personaggi, le loro ambizioni e sogni, le loro paure. Ci sono accenni al razzismo, all’omosessualità, all’autoerotismo, al sessismo, alla guerra fredda, al maccartismo. Ma sono di corollario alla storia, spesso sussurrati e mai volgari e senza alcun intento pedagogico a cui purtroppo certo cinema recente ci sta abituando.

Da quello che poteva essere il plot di un B-movie ne è uscito un capolavoro del cinema di fantascienza moderno. Il fatto stesso di far recitare la protagonista per quasi due ore con i sottotitoli perché muta è un atto di coraggio che solo un grande regista come Del Toro avrebbe potuto fare. Chi a Hollywood avrebbe avuto il coraggio di assegnare una parte del personaggio principale ad un’attrice semisconosciuta al grande pubblico e decisamente fuori dai canoni di bellezza hollywoodiani? E che scelta quella di Sally Hawkins. Un’attrice capace di veicolare tutto lo spettro delle emozioni umane semplicemente con l’espressione del suo viso e dei segni. Una performance emozionante per cui ha ricevuto varie nomination, tra le quali l’Academy Award e il BAFTA come miglior attrice.

Un Del Toro quindi che nel 2017 si ispira a certo cinema pulp degli anni Cinquanta, lo rielabora in chiave moderna e lo ingraziosisce con temi attuali e maturi. Grande rispetto per un regista che riesce ad andare oltre ai soliti cliché dettati da Hollywood e riesce a portare al grande pubblico storie fantastiche e di fantascienza spesso relegate al fandom. Per me queste sono le virtù di un ottimo regista in un mare di mediocri teste accondiscendenti. 

Cinque stelle più che meritate.