E' stata per molti versi surreale la battaglia che si è combattuta a Praga verso la fine dello scorso agosto, nella quale oltre duemila astronomi hanno dibattuto sulla definizione di "pianeta". Non lo è stata del tutto solo grazie all'ufficialità della cornice che ospitava gli esimi scienziati, ovvero la XXVIa Assemblea Generale dell'International Astronomical Union (IAU), massimo organismo internazionale preposto alla definizione e alla classificazione sistematica di tutto quello che viene scoperto nel cielo. Surreale, perché se non si tengono

in considerazione le radici scientifiche del problema, come del resto ha fatto la gran parte dei media, si poteva avere l'impressione che il caldo ferragostano avesse dato alla testa a molte centinaia di persone, le quali avevano deciso di sbattere la porta in faccia al povero, incolpevole, Plutone, dopo aver discusso, e pure litigato, per giorni e giorni riguardo a un problema simile a quello della definizione di che cosa è l'acqua calda. Eppure questo non è vero. L'istanza di natura squisitamente scientifica esisteva e una questione da dirimere c'era davvero. Come abbiamo avuto modo di illustrare ampiamente in una puntata precedente del nostro Contact (http://www.fantascienza.com/magazine/rubriche/7587), da quasi quindici anni a questa parte la tecnologia aveva reso obsoleta la definizione di pianeta che la comunità scientifica aveva adottato fino qualche giorno fa. Anzi, a ben vedere in realtà una definizione ufficiale e formale di pianeta non esisteva neanche. Erano state la tradizione culturale astronomica e l'evoluzione del sapere astronomico che, nel corso dei secoli, avevano consolidato una modalità di classificare i corpi celesti comunemente accettata. In altre parole, almeno per quanto riguarda i pianeti, nessuno si era mai posto il problema di creare una classificazione di sana pianta, perché in un certo senso la classificazione era venuta da sé. A parte i pianeti "maggiori", ovvero quelli che, essendo visibili a occhio nudo contro la notte stellata, erano conosciuti fin dalla notte dei tempi, e parliamo dunque di Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno (più la Terra naturalmente), le aggiunte successive erano venute facilmente, a mano a mano che la tecnologia affinava le sue armi e forniva agli studiosi strumenti di osservazione sempre più potenti e precisi. Urano e Nettuno erano venuti così. Poi, un po' per caso, un po' per fortuna, un po' perché un giovanotto aveva buttato un occhio nel punto giusto, al momento giusto e con lo strumento giusto, e un po' perché come nel caso di Nettuno, i calcoli dicevano che da quelle parti qualcosa ci doveva pur essere, era arrivato Plutone. Ma nessuno si era mai veramente domandato che cosa era un "pianeta". Non ce n'era bisogno. O meglio, molti probabilmente se lo erano chiesto, ma nessuno fino al punto da sentire il bisogno di indire una riunione mondiale per dirimere la querelle. La questione in fondo era semplice. Non essendo stelle, i pianeti sono corpi celesti dotati di grande massa, sferici, che orbitano intorno al Sole. Punto. E dentro questa definizione, il nodo cruciale era il concetto di "grande massa". Fino a Nettuno compreso, i pianeti infatti erano corpi celesti "enormi", o comunque molto grossi, quasi sempre più grossi della Terra. In fondo solo Mercurio e Marte sono più piccoli del nostro pianeta, mentre Venere più meno è come noi, e i altri quattro restanti sono giganti. Poi però, a sparigliare le carte, era giunto Plutone che, nel corso degli anni, a mano a mano che le tecniche di misurazione si affinavano, era dimagrito, da oltre 40.000 km di diametro a poche migliaia. Ma almeno, finché si pensava fosse laggiù, da solo, problemi non ce n'erano. E così, a prescindere dalle sue dimensioni e anche dalla sua orbita molto più ellittica delle altre che sono quasi circolari e inclinata rispetto all'eclittica (il piano immaginario sul quale giacciono le orbite di tutti gli altri otto pianeti) di ben 17°, non sussistevano particolari controindicazioni o effetti collaterali a chiamare anche lui "pianeta", con somma soddisfazione del giovane Clyde Tombaugh, catapultato così a soli trent'anni nella Hall of Fame dell'astronomia insieme ai leggendari Herschel, scopritore di Urano nel 1781, e Galle e D'Arrest scopritori di Nettuno nel 1846.