La festa da ballo era al colmo della sua ebbrezza. Tra i cespi di fiori che trasformavano le splendide sale in altrettante serre luminose, correva una vampa ardente di febbre e di voluttà, sotto il fulgore delle lampade elettriche…

Il mio amico mi susurrò:

— È quello là, vedi, il dottor Bernus!

E me lo indicò.

Era un bell’uomo, ancor giovane, irreprensibile, dalla nera barba a punta. Appoggiato ad un pilastrino di marmo, sormontato da una meravigliosa dracena grandifoglie, egli teneva distratto lo sguardo nella sala rifulgente di belle dame, di luci e di profumi.

— Egli è il mago moderno – mi andava continuando all’orecchio il mio amico mentr’io, inesplicabilmente attratto, tenevo fisso su di lui lo sguardo – egli è il mago moderno. Nel seicento egli sarebbe stato arso vivo! Ora tiene un meraviglioso gabinetto che molti principi visitano commossi e dal quale escono turbati, per le cose straordinarie che hanno veduto. Poiché non è dato a tutti penetrarvi. Ma se tu lo vorrai io potrò condurviti…

Alcuni istanti più tardi – era finita allora allora una danza figurata – lo scorsi nuovamente, il celebre dottor Bernus.

Egli parlava con una dama – una bella signora bruna e piccina e nervosa – e a me pareva vedere il domatore che scherza con l’elegante felino, al quale con il solo voltar degli occhi fa eseguire tutto ciò che vuole.

Egli teneva fissi sulla graziosa creatura i suoi due sguardi grigi, freddi, formidabili: e la poveretta tremava sotto quell’enorme potenza magnetica, si agitava, fremeva, pareva chieder pietà.

— Egli è un vero mago – ripeté ancora al mio orecchio il solito amico – ed è padrone assoluto di tutti noi, qua dentro, quanti siamo, uomini e donne. S’egli volesse con un gesto solo della sua mano e della sua volontà potrebbe farci saltellare tutti come automi, o irrigidirci come tante statue di sale, o farci cader catalettici, o divincolar ne’ gemiti spasmodici delle più tremende convulsioni… Egli è potente! egli è terribile! Egli può ciò che vuole. Egli è un vero mago!…

— Non lo credi? – esclamò ad un mio atto di sorpresa e di dubbio. – Ebbene lo vedrai. Lo proverai con i tuoi occhi, non solo, ma con tutti i tuoi sensi. Io, che te ne parlo, gli è perché appunto l'ho provato con tutto il mio corpo… E ti confesso che, in fondo, io ho quasi paura, di lui.

— Evvia!

— Sicuro. Così com’io ti dico. Io ho quasi paura di lui!… Lo vedrai anche tu e dirai anche tu come me.

E soggiunse:

— Ora ti presenterò.

Da vicino la buona impressione che mi aveva prodotto da prima il dottore, aumentò ancora.

Era affabilissimo, semplice e cortese: naturalmente freddo e senza posa alcuna.

Il suo occhio grigio e profondo aveva un fascino singolare. Occhio di dotto e di veggente; di mago – diceva il mio amico.

Due settimane dopo io mi fermavo dinanzi alla palazzina bianca e raccolta, circondata da un breve giardinetto verde e pieno di fiori – il regno del mago – come l’aveva battezzata il solito amico.

Sul cancello di ferro bruno una piccola targa lucente come oro «Dottor Bernus» e null’altro.

Accanto la catena lucida della campanella.

Mi venne ad aprire un uomo che dall’abito mi parve il giardiniere.

Chiesi del dottore e gli porsi il biglietto.

Mi fece subito entrare: consegnò il mio biglietto a qualcuno presso la porta della palazzina e mi pregò di attendere là.

E s’avviò verso un gruppo di vasi, riparati sotto una tettoia.

Non mi ero ingannato, era il giardiniere.

Dopo pochi istanti comparve un giovane pallido e sbarbato, vestito della caratteristica lunga casacca nera degli assistenti medici, e mi riferì che il dottore mi avrebbe ricevuto volentieri: che avessi avuto la pazienza di attendere un istante.

— Si diverta a guardare le piante che ha intorno – mi disse egli sorridendo.

E soggiunse:

— Ne troverà delle curiose assai.

Mi guardai attorno.

Il luogo era raccolto e silenzioso: nella via appartata, fiancheggiata da giardini, era una grande quiete; poche casine sorgevano qua e là, dietro i muri e fra il verde.

Mi avvicinai al gruppo di vasi, intorno a’ quali lavorava il giardiniere che mi aveva aperto.

Il giovane aveva detto il vero.

Quelle piante erano in verità degne di essere osservate.

Vi erano delle bellissime orchidee, dalle varietà a me ancora ignote: ne ricordo una, delicatissima: un ciuffetto candido e tremolante, esile come fili di seta o di piume, dalle lievi venature color di rosa – un poema di delicatezza e di evanescenza.

E poi altre piante costose e rare e bizzarre: i desmodi, che un misterioso fremito interno agita continuamente; le dionee, le drosere, le rosolide; certi mostruosi gerani dalle foglie quasi nere; e, ben riparato e in pieno sole, un grande Megaclinium, bizzarrissima pianta che i botanici ben conoscono per una strana particolarità; un interno palpito che la fa quasi ansare come un essere vivente…

Ma mentre la mia mente e il mio sguardo si fermavano fantasticando sopra quelle strane e rare creature vegetali, venne il giovane assistente ad avvisarmi che il dottor Bernus mi attendeva nel suo gabinetto.

Lo seguii.

Mi fece attraversare alcuni corridoi e m’introdusse finalmente nel famoso gabinetto.

Il dottore mi venne incontro.

Era trasformato.

Nella lunga tunica nera, da laboratorio, che gli giungeva ai piedi, egli pareva altissimo.

Il volto pallido naturalmente, su quel nero, appariva ancor più bianco, sopra la nera barba che gl’incorniciava il mento.

Egli mi stese la mano.

— Sono nel vostro regno – mormorai.

Egli sorrise.

Io mi guardavo intorno.

Era molto semplice, invero, il famoso gabinetto del dottor Bernus.

Le pareti eran corse da lunghe e strette tavole gremite di preparati anatomici, sotto campane di vetro; di fiale, vetri, istrumenti di precisione. Da un lato era una grande tavola, con su alcuni libri, fogli e un astuccio d’operatore.

Una grande poltrona nera, alcune seggiole.

Era tutto lì il famoso regno del dottor Bernus, del mago, come mi si era detto!

In un angolo un magnifico cane, un danese colossale, impagliato, mi fissava con i grandi occhi lucenti.

Mi avvicinai a lui, ammirandolo.

— È bellissimo – mormorai – lo avete imbalsamato voi, dottore?

Il dottore sorrise senza rispondere.

— Sembra vivo – esclamai.

Il dottore sorrise ancora, poi disse:

— Lo è.

— Come! – gridai.

— Toccatelo – aggiunse il dottore.

Posai su di lui la mano.

Era caldo!…

— Urtatelo – disse ancora il dottor Bernus.

Spinsi la bella bestia con la mano.

Il cane, urtato a quel modo, si pose a camminare con movimento strano, meccanico, da automa.

Era strano e pauroso, nello stesso tempo, a vedersi.

Egli camminò così, sino al limite della stanza, finché non ebbe urtato contro la parete.

Allora si arrestò, senza piegarsi, senza volgere la testa, senza dare altro segno alcuno.

Si fermò, ecco tutto, e ritornò immobile, rigido in piedi, riprendendo quella sua automatica figura di cane impagliato.

— È strano – mormorai.

— È un fenomeno vecchio e molto noto – mi spiegò il dottore – a questa povera bestia, che comprai ferito a morte, tolsi completamente il cervello: risanata la ferita della testa essa vive, ossia meglio vegeta semplicemente. Non sente nulla, non vede, non percepisce più sensazione alcuna. Lo imbocchiamo per cibarlo, come un fantoccio. Ma vi ripeto, è cosa vecchia, cotesta, e notissima…

E preso il cane, lo trascinò al posto di prima e l’obbligò ad accucciarsi in atto di riposo.

Poi si rivolse a me:

— Voi desiderate conoscere in me – disse egli – il mago che vi ha presentato il vostro amico. Oh, un ben semplice e natural mago!… – esclamò egli sorridendo. – Ebbene, desidero contentarvi. Sedetevi, se vi piace, là.

E mi accennò la grande poltrona.

— Vi darò saggio anzitutto di alcuni esperimenti, sulla vostra persona, di suggestione ipnotica, molto noti del resto anche questi.

Mi pregò di stare quieto e raccolto.

Quindi si pose a girare tranquillamente per il gabinetto, accomodando qua e là alcune fiale, dei libri, togliendo alcune carte da un luogo per pòrle in un altro…

Ad un tratto si volse e avanzò verso di me.

Sentii i suoi occhi posarsi con una strana impressione ardente e fulminea su tutto il mio essere.

E tese verso di me le mani.

Un velo di tenebre passò sui miei occhi.

Mi parve che nella stanza fosse disceso repentinamente un buio immenso.

— Siete cieco – disse la voce del dottore.

— Eppure ho gli occhi aperti – mormorai, rabbrividendo mio malgrado.

— Alzatevi – comandò la voce del dottore.

Tentai alzarmi.

Invano.

Una forza misteriosa, potente, irresistibile, m’inchiodava sulla poltrona.

Volli ciò malgrado riuscirvi.

Cieco, grondante di sudore, tentai, ritentai più volte la prova: i miei muscoli irrigiditi facean sforzi sovrumani per riescire a sollevare il corpo che parea formare un tutto con la poltrona: invano.

Alfine stanco, affranto, rinunciai e mi detti vinto.

— Liberatemi – mormorai – liberatemi per carità, dottore.

In quell’istante sentii come sollevarmi da terra.

— Dio mio! – gridai.

Provavo l'impressione reale di una forza che mi sollevava, che mi trasportava qua e là, in aria, staccato dalla terra.

Quest’impressione però non aveva nulla di spiacevole o di pauroso.

Mi pareva di essere divenuto leggero, aeriforme, direi quasi, di essermi sottratto alla comune legge di gravità…

Però ero sempre cieco.

La fitta benda di tenebre era sempre sopra i miei occhi.

Ad un tratto mi parve che la nera benda si sciogliesse: la luce ritornò ne’ miei sguardi.

Ma ahimè! detti un grido di spavento, di sorpresa, di terrore…

Io ero in alto, sospeso presso la volta della stanza!

Sotto i miei piedi era il vuoto!…

Vedevo il dottore, sotto di me, che mi guardava sorridendo.

Ad un tratto udii la sua voce.

E mi ritrovai semplicemente seduto, come prima, sulla poltrona, nella stessa posizione nella quale mi ero… addormentato!

Il dottore mi disse:

— Che ve ne pare?

— Meraviglioso!

— Oh! cose vecchie.

— Ma, dottore…

— Dite.

— Volevo chiedervi se… realmente ho fatto, volando, il giro del soffitto.

Il dottore sorrise di nuovo.

— Dite di no?

— È stata un’illusione.

— Un’illusione, voi dite?… dunque tutto non è stato che un sogno?

— Dite pure un fenomeno notissimo di suggestione.

— È bizzarro davvero!

Il dottore prese un gran bacino di rame e vi picchiò sopra, con un martelletto, un gran colpo.

Il bacino risuonò fragorosamente, in modo assordante.

— Avete udito?

— Lo credo bene! – esclamai.

Allora fissò un momento sopra di me lo sguardo penetrante.

E vidi quindi il suo braccio alzarsi per dare sopra il bacino un formidabile colpo di martello.

Ma strano!…

Vidi il martello cadere, rimbalzare sul metallo, ricadervi sopra, martellarlo furiosamente, ma il mio orecchio non fu colpito da verun suono!…

Ero sordo.

Il dottore moveva le labbra: io non sentivo una parola di quello che diceva.

Lo vidi prendere una pistola.

Premette il grilletto, vidi la vampa, il fumo… ma silenzio profondo!…

Ero perfettamente sordo.

Ad un tratto il dottore mi fece cenno che mi avrebbe ridonato l’udito.

Difatti un momento dopo percepiva – e come! – il frastuono del martello che il dottore aveva ripreso per battere l’orlo del bacino.

E risentii la sua voce:

— Mi sentite ora?

— Perfettamente. E anche questo…

— Suggestione ipnotica.

— Interessante… e strano.

— Vi risparmio – riprese il dottore – altri esperimenti, perché divenuti comuni e volgari ormai: come quello di suggerirvi sapori ed odori di liquidi o sostanze differenti e lontane dall’impressione ch’io v’impongo di provare. Vi sottometterò invece ad un curioso esperimento, che giudicherete: la trasposizione dei sensi.

Mi fece alzare.

Quindi mi fece sollevare una mano.

— Ora voi diverrete cieco… dagli occhi – mormorò egli – ma voi vedrete ugualmente.

Difatti ritornai – come già poco prima – perfettamente cieco dagli occhi.

Ma strano, meraviglioso, inaudito!…

La mia mano vedeva!

Io non riesco ora ad esprimere la stranissima, mai avuta impressione che provavo in quel momento.

I miei occhi erano sbarrati nelle tenebre: questo io lo sentivo bene, direi quasi lo vedevo.

Eppure io scorgevo la stanza, il dottore di fronte a me, le tavole intorno a me: tutto, tutto, io scorgevo bene e nitidamente: ma non dagli occhi.

La funzione visiva mi veniva dalla mano. Il mio cervello percepiva la luce e i contorni, ma questa sensazione gli era inviata, ripeto, per mezzo della mano!…

Quando il fenomeno cessò e ripresi l'uso de’ miei occhi io ero sbalordito.

E non mancai di riferire la mia impressione al dottore-mago, il quale osservò:

— Veramente il fatto è abbastanza curioso, ma è molto frequente… specie negli alienati. I nostri manicomi sono pieni di questi casi. Ma il più delle volte non sono riconosciuti dai medici curanti, i quali li ritengono aberrazioni mentali dei ricoverati.

— Lo stesso fenomeno – riprese quindi a dire – sono riuscito ad ottenere con il senso dell’odorato. Osservate.

Prese una fialetta che avvicinò alle mie nari.

Mi apparve perfettamente inodora.

Allora mi denudò il braccio e mi applicò la bocca della boccettina al gomito.

Detti un sussulto!

Percepii perfettamente – e intensamente – l’odore penetrantissimo dell’ammoniaca!

— Avete provato? – disse il dottore.

— Ho sentito l’odore col gomito!

— Proprio così.

— È bizzarro! E dite, dottore, tutti i nostri sensi possono venire così spostati?

— Quasi tutti – rispose egli.

Poi disse:

— Ora un piccolo intermezzo… musicale, se vi piacerà. Per divagarci un po’ da tutti questi bizzarri fenomeni di suggestione, comprendete! Osservate un poco questo istrumentino…

E trasse da una cassettina di noce un piccolo apparecchio, fornito ad una estremità d’una tromba come quella del fonografo.

— Quest'è il microfono, un istrumento assai noto inventato dall’inglese Hugues, ma che io sono riuscito a rendere d’una sensibilità veramente straordinaria. Vi prego di avvicinare un poco l’orecchio alla tromba…

Ubbidii.

Appena messo in azione l’apparecchio fui colpito da uno scrosciare impetuoso di acqua corrente, come il correre di un grosso torrente. E in mezzo a questo fragore caratteristico io udivo a tratti un sordo tonfo, poderoso e cupo, come il cadere misurato e profondo di que’ potenti magli che sono nelle nostre grandi officine… Era, tutt’insieme, un fragore che quasi assordava e confondeva la mente.

Interrogai con un gesto il dottore.

— Osservate la mia mano – egli disse.

Allora scorsi che teneva la mano aperta e distesa sopra la tavola risuonante del microfono.

— Lo scrosciare caratteristico che udite – mi spiegò il dottore – è il rumore del mio sangue che scorre nelle vene della mano.

— E quel tonfo sordo e lontano?

— Ah! è il battito regolare e cadenzato del cuore.

— Oh, strano!

— Ora ascoltate – disse ancora il dottore.

E preso un foglio di carta lo posò sulla tavoletta risonante.

Rimesso l’orecchio alla tromba fui colpito subito da una serqua di curiosi scricchiolii, che mi davano l’impressione di una tavola di legno secco, che si rompesse e sgretolasse.

— Cos’è mai? – chiesi.

— Sono i movimenti naturali della carta che si stira, dirò così, sotto l’azione della temperatura.

Ad un tratto un potente rimbombo superò con la sua intensità gli scricchiolii che sopra ho detto. Erano colpi forti che avevano una lontana analogia con lo scalpitare d’un cavallo al galoppo…

— Ed ora cos’è? – chiesi stupito.

— Osservate sopra la carta – rispose il dottore.

Non potei a meno di ridere.

Una mosca se la passeggiava tranquillamente sulla carta e sulla tavoletta!…

— Mi dispiace – disse il dottore – ch’io non abbia troppo tempo da dedicarvi, in questo momento, e me ne vorrete perdonare. Però non voglio andar via senza farvi conoscere una curiosa ed interessante mia scoperta; tutta mia, questa, ve lo assicuro!…

— Dottore… voi mi avete finora riempiuto di meraviglia! Quale altra fantastica cosa voi presenterete ora al mio spirito?

— Oh! una cosa ben semplice nella sua essenza – profferì il dottore, mentre riponeva il microfono nella sua custodia, ma i cui effetti sono veramente interessanti, come vedrete, e d’incalcolabili effetti per la scienza. Io v'introduco ne’ regni dei minimi, de’ microscopici.

E il meraviglioso esperimento incominciò.

Il dottore mi pregò di adagiarmi nuovamente sulla solita poltrona.

Quindi si fece recare dal giardiniere un mazzo di fiori freschi.

Li pose in un vaso sopra la tavola, accanto a me.

Poi collocò ad esso vicino una scatolina ripiena di sabbia, una farfalla disseccata ed infilzata ad uno spillo sopra una tavoletta, ed un pezzo di zucchero.

Quindi tese verso di me le mani.

Sentii prendermi dal sonno ipnotico.

Dopo un istante io mi trovavo trasportato in un regno nuovo e fantastico. Dov’ero io? Non riuscivo a comprenderlo. Intorno a me era come una conca d’oro, dai vivi colori smaglianti, formato d’una sostanza resistente ma lucida come un mai veduto tessuto di raso o di seta. Questa conca fatta ad imbuto terminava in fondo con una selva di rutilanti colonne variopinte, snelle ed agili, cosparse di grossi globi ardenti, sopra i quali fulgidissimi brillanti, topazi e rubini quasi mi accecavano con il loro splendore…

Malgrado la stranezza della cosa io compresi di trovarmi sulla corolla di un fiore!…

E aveva la percezione esatta di quanto intorno a me io vedevo. Non era un sogno questo, un'illusione; era la realtà! Vedevo le pareti rosate e aurate del fiore distendersi, allungarsi, svolgersi sopra ed intorno a me, vedevo grossi blocchi adamantini – gocce di rugiada certamente – rotolare lentamente lungo la splendida seta e cadere al fondo e sprizzare nel cammino scintille.

Ad un tratto un mostro orrendo, dai mille tentacoli nero, difforme, fornito di colossali mandibole, di due enormi occhi lucidi e senza fiamma, mi si parò dinanzi.

E provai un vivo senso di ribrezzo.

Il mostro – uno scarafaggio certamente – proseguì il suo cammino tastando qua e là lo splendido tessuto che facea da tappeto ai suoi piedi villosi, poi scomparve…

Ad un tratto tutta questa scena svanì.

Mi sentii trasportato – o meglio sentii il mio spirito trasportato – in un altro mondo.

Mille pagliuzze lucenti, dagl’infiniti riflessi metallici, mi circondavano d’ogni parte.

Sotto di me io scorgevo grandi fasce di velluto nero, e larghe pezze gialle, arancione, brune e bianche.

Era sulle ali della farfalla!…

Dopo un momento il mio spirito penetrava nel più meraviglioso tempio che mai ad occhio umano fosse dato scorgere.

Io ero nel regno del candore.

Nivei cristalli, d’una bianchezza abbagliante, mi circondavano, pendevano sul mio capo; pari a stalattiti d’un incomparabile nitore, aguzzi come aghi e rutilanti di candore come avorio brunito. E tutto era neve, avorio, cristallo, intorno a me.

Compresi essere penetrato dentro il pezzo di zucchero!…

Finalmente sentii trasportare il mio spirito altrove.

E mi trovai in mezzo a una dirupante rovina di macigni: grossi pietroni accatastati l’uno sull’altro, scheggie aguzze come lame, grossi cristalli, piccoli sassi vermigli, verdi, gialli rilucenti, E in mezzo a questo pietrame scomposto, che faceva pensare alle macerie di milioni di muri, alla rovina di cento città, scheletri a mezzo corrosi, grossi membri di mostri mai veduti, teste orribili disseccate armate di pungiglioni orrendi o di strane dentiere a sega…

Era sulla sabbia!…

Sentii la voce del dottore che richiamava il mio spirito al suo corpo e che mi faceva ritornare uomo.

Lo vidi sereno e trionfante, davanti a me.

— Che ne dite? – mormorò.

— Meraviglioso! semplicemente meraviglioso! – gridai.

— Ma non crediate che questa volta si tratti di suggestione, di suggerimento d’idea…

— Ah no? e in che cosa consiste dunque cotesto veramente straordinario fatto…

— Ve lo dico subito. Io ordino alle vostre facoltà intelligenti di uscire dall’involucro materiale del vostro corpo…

Io ascoltavo a bocca aperta.

— E il vostro spirito ciecamente mi ubbidisce – finì il terribile dottore Bernus.

— Sicché… durante l’esperimento il mio corpo…

— Restò privo della sua anima.

— Mi fate paura.

— Oh, non v’è di che!

— E voi siete padrone di farla spaziare, questa mia anima, dove a voi piace?

— Certamente.

— È sovrumano!

— È la conquista paziente della Scienza – profferì solennemente il dottore.

— Sicché il mio spirito è penetrato realmente, poco fa, nel calice del fiore…

— Ma sì, vi dico.

— E sulle ali della farfalla?…

— Sì, sì.

— E nello zucchero cristallino, e fra i macigni della sabbia!

— Sicuro.

— E questo spirito conserva tutte le sue proprietà di analisi, di critica, come unito al corpo…

— Sì. Vedete voi quale immenso vantaggio potrà ricavare da tutto ciò la Scienza, nello studio, per esempio, degli esseri microscopici?…

— Siete… un mago voi!

— Sono semplicemente… uno scienziato!

— Ed ora – disse il dottore – a voi, che siete alquanto poeta, regalerò qualcosa di adatto… che v’interesserà molto. Chiudete pure gli occhi.

Chiusi gli occhi e sentii il solito e dolce languore annunciatore del sonno ipnotico.

Stetti alquanti momenti così sospeso, come in dolce dormiveglia, poi mi guardai d’intorno e mi vidi solo, circondato da ogni lato da una infinita distesa di sabbia arida e gialla, che si perdeva all'orizzonte cupo e tetro, sotto il cielo grigio… Silenzio profondo intorno a me. Non altro che solitudine e sabbia, io ero perduto in un deserto, in un immenso, sconfinato deserto. E solo!… Ad un tratto il mio occhio è attratto, davanti a me, come da una lontana ombra oscura che s’avanza e s’ingrossa, con una strana apparenza di gomitolo rotolante e avvicinantesi sempre di più. L’ombra si avanza, aumenta di volume, è un nugolo di polvere, che si rende man mano meno incerta, più decisa, più evidente: e in mezzo ad esso è una frotta di cavalli, di uomini bruni, di corazze, di armi… Sono arabi, sono selvaggi, sono gli abitatori del deserto. L'irrompente cavalcata s’avanza rapidamente, scorgo le teste ansanti dei cavalli, il luccicar delle armi, i volti contratti de’ cavalieri… Eccoli, sono a cento metri, a cinquanta!… Mi sono addosso, eccoli sopra di me, furiosi, violenti, frenetici. Sento il mio essere scomparire sotto gli zoccoli furenti dei cavalli, scorgo sulla mia testa quella turba feroce.

Tutto è finito!

Mi risveglio.

Il solito sogno, la solita illusione!

— Ancora, ancora – mormorai al dottore, richiudendo gli occhi, come un bimbo.

Ho appena il tempo di scorgere fuggevolmente un sorriso sulle labbra del dottore che il dolce sonno mi riprende, mi fa suo, mi ridona al lieve languore di poco prima.

Oh, il dolce sogno!…

È un'alba tutta di rosa. Tutto è roseo, diafano, leggero, evanescente nell’aria piena di luce chiara. Sotto di me è un canale di acqua verde, d’una strana cupezza di smeraldo, con toni quasi neri, qua e là. Galleggiano su quell'intensa acqua verde dei larghissimi fiori d’un candore di neve, e grandi foglie li circondano, fan loro riparo e corona. Davanti a me, sull’opposta riva del canale, è un tempio, un colonnato, un insieme di cupole, il tutto di uno strano marmo d’un giallo tenero, delicatissimo, che meravigliosamente s’intona e sembra quasi palpitare al raggio roseo del cielo pieno di luce chiara.

Una bella creatura, una donna, dalle nude braccia color di quel cielo, dal volto perfetto che sembra scolpito in quel marmo, e reclinata sopra di me e su tutto il mio corpo agita un immenso ventaglio di penne di struzzo e di pavone intrecciate

Quando il dottore mi accompagnò finalmente verso l’uscio del suo gabinetto, per ridonarmi alla mia vita di tutti giorni, io ero confuso, commosso, non sapevo che dire e che pensare, dopo tutte le meravigliose cose passate sotto i miei sensi e davanti alla mia mente.

— Mi permetterete di ritornare? – azzardai timidamente, stringendo le mani al dottore.

Il dottore, sempre cortese, s’inchinò garbatamente.

Appena entrato nel breve corridoio mi avviai verso l’uscita di esso.

Ma, strano!

Giunto al limitare una forza misteriosa ma irresistibile non mi lasciò proseguire.

— Uno scherzo del dottore – pensai subito.

Difatti feci per ritentare la prova.

Invano.

Come se attraverso a quell’apertura fosse stata posta un’invisibile spranga di ferro io non potevo assolutamente proseguire.

Allora pensai di ritornare indietro, rientrare nel gabinetto del dottore per pregarlo di liberarmi…

Ma giunto a questa seconda uscita la stessa inesplicabile forza mi arresta di botto.

Spingo contro… il vuoto, faccio sforzi inauditi per rompere l’incanto.

Tutto è vano. Non posso oltrepassare nè l'una nè l’altra di quelle due uscite.

— Sono io dunque prigioniero del dottore? – mi domando sorridendo.

Passeggio in su e in giù alcuni istanti, con la certezza di vedere da un momento all’altro comparire l’alta figura e la barbetta nera del dottore-mago.

Non vedendo alcuno, e cominciando ad inquietarmi di quella solitudine e di quel silenzio della casa, dico fra me:

— Chiamerò qualcuno.

Apro la bocca per mettere in azione il mio proposito… nessun suono.

Diavolo! sono diventato muto!

Ciò m’inquieta sempre di più.

Un invincibile orgasmo, mio malgrado, mi assale.

Se non è che uno scherzo del dottore… via è più d’un quarto d’ora ormai che dura!

Ad un tratto sento che anche i movimenti mi si fanno torpidi e confusi: fo’ per muovere un passo; la gamba non ubbidisce più al comando della mia volontà.

Mi appoggio al muro.

E sento come un terribile senso, dirò così, di pietrificazione di tutte le mie membra, di tutto il mio corpo. Mi sembra di divenire un tutto solo con la muraglia, di solidificarmi, di unirmi, di confondermi con essa… Il senso che provo è veramente orribile! Ad un tratto una fitta benda mi cade sugli occhi: sono cieco perfettamente.

Muto, cieco, in piena catalessia, quanto tempo durai in quello stato?…

Non so.

So che a un certo punto mi trovai nel giardinetto del dottore.

Egli mi stava da un lato e il suo assistente dall’altro.

Mi accompagnarono al cancello: il dottore mi strinse forte la mano… Io lo salutai in fretta… E fuggii.