Happy birthday Mein Führer canta Marilyn Monroe in un’America occupata dai nazisti. Ebbene sì. Siamo arrivati alla seconda stagione. Continua a sorprendere questa serie che si è sempre presentata come una sfida impossibile. Intanto è una scelta (apparentemente) folle tentare di connettere qualcosa di così complesso come un romanzo di Philip K. Dick (oltretutto scritto più di 50 anni fa) ai meccanismi e ai ritmi della televisione seriale odierna. D’altro canto scegliere PKD significa cercare la sponda tra quegli spettatori che vorrebbero una fantascienza più anticonformista e matura. In un certo senso: più impegnata.

In questo The Man in the High Castle viviamo la costruzione di personaggi e sub plot per poi vederli continuamente decontestualizzati e sganciati dalla realtà (o dal continuum dimensionale che è forse solo uno tra i tanti) che li ha prodotti. Qui vediamo in filigrana l’inconfondibile tocco dickiano che, affascinato dalla retorica persuasiva dei pubblicitari, adorava spostare le pedine della narrazione manipolando bruscamente le mentalità in relazione alle influenze di poteri forti. In High Castle non interessa tanto filmare azioni spettacolari, quanto piuttosto il modo in cui le mentalità vengono plasmate dagli eventi storici, quelli sì particolarmente spettacolari per chi ama le ucronie.

Il trailer della seconda stagione conferma la volontà di non spettacolarizzare l'idea di fondo concepita da Philip K. Dick, vale a dire raccontare una Storia alternativa dal punto di vista di personaggi molto diversi tra loro. Dalla “realtà virtuale” alla “realtà alternativa”, il serial rispetta in pieno il gioco di specchi e i canoni della narrativa di PKD. In particolare la cultura della simulazione praticamente ideata dallo scrittore decenni prima dei videogiochi immersivi e delle second life varie. Per esempio: tutta la vicenda narrata nella prima stagione è solo un sogno di un vecchio burocrate giapponese? Oppure esistono tunnel tra le realtà e sono necessarie particolari disposizioni percettive per scovarli? In questo The Man in the High Castle televisivo non c’è mai niente di scontato o banale.

Del resto la poca sci-fi mainstream degli ultimi anni è talmente satura di plot distopici che diventa necessario distinguersi. Distopie di clamoroso successo teenageriale (film come The Hunger Games) o video ludico (Wolfenstein The New Order) che giocano con la paura di governi spioni e autoritari. A ben vedere questi USA amministrati dai nazisti ricordano molto anche un altro grande successo della televisione del passato: V – Visitors , la serie NBC che nel 1983 incollò al teleschermo due o tre generazioni di spettatori (non necessariamente appassionati di fantascienza) in tutto il mondo. Forse proprio quei lucertoloni nazi e le peripezie degli infiltrati doppiogiochisti hanno insaporito il piatto delle invasioni aliene trasformandolo in una gigantesca allegoria della seconda guerra mondiale. Nella sua semplicità e schematicità il successo di quel serial risulterà seminale per i tanti racconti distopici contemporanei.

Ma rispetto a quelle semplici trame distopiche piene di bolle da soap-opera, la trama ucronica (con annesso quel senso di spaesamento che induce lo spettatore a dubitare anche delle sue stesse nozioni storiche) presentata in High Castle è comunque un gioco non proprio semplice da comprendere. Forse a rendere più ricettivo il pubblico (e a rendere coraggiosi i produttori), c’è anche il recente successo di Person of Interest, in cui spionaggio e paranoia si accordano molto bene al momento storico che segue le rivelazioni di Edward Snowden su quel grandissimo "occhio nel cielo" che è la National Security Agency. A dire il vero negli ultimi dieci anni si sono moltiplicati gli spunti di riflessione su futurologia, tecnologie predittive e sorveglianza di massa. In questo bisogna riconoscere a Philip K. Dick visioni talmente sagaci e preveggenti rispetto alle pieghe della cultura di massa da essere sempre sovrapponibili a qualsiasi fase della storia politica e tecnologica recente. Quanto c’è della NSA nei poderosi apparati spionistici messi in scena in The Man in the High Castle? Aggiungiamo anche che proprio i sub plot spionistici forniscono la necessaria linfa vitale che alimenta sorprese e twist rendendo vivo (anche per chi ha letto e ricorda bene il romanzo) e appassionante il telefilm.

Gli autori riescono nel miracolo dunque: niente esasperazioni su effetti speciali e azione; e niente voci off o facili didascalismi, lo sfondo storico del 1962 ucronico viene fatto trapelare goccia a goccia dai dialoghi e dalle situazioni. La Storia dell'umanità sta vibrando ad una certa frequenza e se cambiano le dinamiche geopolitiche di fondo, alcuni dettagli restano sostanzialmente invariati tra i due continuum. Anche in questi anni Sessanta alternativi c’è una Guerra Fredda, ma cambiano i contendenti: la sfida è tra Germania e Giappone e gli Stati Uniti sono relegati ad una posizione subalterna, come quella dell’Europa nei “nostri” anni Sessanta. È sempre bellissima Marilyn Monroe che canta e augura Happy birthday all’uomo più potente del mondo.

La principale differenza tra la serie e il romanzo di PKD targato 1962 sta nella straordinaria crescita che ha avuto la civiltà delle immagini in questi 50 anni. Philip K. Dick faceva ruotare le sorti della propaganda bellica intorno al libro La cavalletta non si alzerà più, un romanzo di fantascienza che immaginava (pensate un po’) gli USA vincitori della seconda guerra mondiale. Nel telefilm La cavalletta non si alzerà più è una misteriosa pellicola cinematografica che si presenta come un documentario sulla seconda guerra mondiale.

A proposito di potere delle immagini, lo stesso Philip K. Dick ne assaggiò un po’ in punto di morte, quando uscì Blade Runner: molto probabilmente la sua straordinaria fama postuma è dovuta proprio al successo di quel film del 1982.

Tutto ruota dunque, invariabilmente, intorno al vedere-percepire-ricordare condizionato dal mezzo audiovisivo. La parola passa all’evocatività delle immagini. Costumi e scenografie sono un affollamento di insegne e simboli propagandistici. Non c’è alcun bisogno di strafare con la computer grafica. Svastiche e bandiere certo. Ma anche rievocazioni sul filo della memoria audiovisiva, icone visive forti. Quella strana cenere che fiocca dal cielo di martedì proviene dalle ciminiere degli ospedali dove l’America nazi combatte la sua guerra per la supremazia mondiale liberandosi dai pesi inutili.

Da una parte l’immediatezza dell’audiovisione aiuta a rendere il racconto più fluido condensando svolte emotive e prese di coscienza; dall’altra ci ricorda che oggi la Storia non viene fatta più con i libri ma con le immagini. Lo spostamento dal medium libro alla pellicola ha una ulteriore implicazione spiazzante: non esiste al mondo (specie negli anni Sessanta) una Hollywood dotata dei mezzi necessari per ricostruire fedelmente ciò che si vede nel film ovvero i momenti salienti della sconfitta dell’Asse. Non è possibile dubitare delle immagini così precise dello sbarco in Normandia, della Conferenza di Jalta, della caduta del Palazzo del Reichstag. Il realismo o la presunta falsificabilità delle immagini è la miccia che fa scattare il dramma e/o la paranoia. Insomma il potenziale distruttivo/costruttivo insito nei film rende ancora più intrecciato e ricco di implicazioni il discorso tipico di Philip K. Dick sulla natura delle percezioni umane.

Chi è davvero l’uomo nell’Alto castello? Qual è la vera natura di personaggi ambigui come Joe Black? In questo senso la vertigine illuminante delle bobine che compongono La cavalletta non si rialzerà più viene amplificata ulteriormente dal fatto che vi compaiono anche i protagonisti (o almeno delle loro versioni alternative) ritratti mentre si muovono nella dimensione parallela.

Ma in entrambi i continuum il sentimento della realtà nei protagonisti è ormai inquinato dalle visioni (le pellicole misteriose ma anche le varie propagande e inserzioni pubblicitarie) indotte dalla tecnica. Ogni sequenza del film ucronico appare come una permutazione di quelle che Philip K. Dick considera porte della percezione. A ben vedere non sono visioni che richiedono clamorosi effetti speciali. Lo sta dimostrando The Man in the High Castle che, senza far pesare la computer grafica e con i tempi lunghi dei capitoli di un serial tv, riesce a garantire il respiro necessario ad affrontare la complessa mole di idee e sub plot tipica di PKD.