La carriola era pesante da spingere e Xeno, arrancando per la strada in salita e aprendosi un varco nella folla berciante, ogni tanto tirava fuori una bestemmia. Giornata di merda. Alla lettera. Per terra il manto stradale tempestato di buche, rifiuti, sterco di animali e certamente anche di persone; in alto l’eterna cappa di nuvole grigie gonfie di decenni di polveri vulcaniche, industriali e altri veleni. E lui in mezzo. Erano le sedici ma pareva fosse quasi notte. 

Qualcuno gli mise una mano sulla spalla. 

— Amico, perché non sorridi? — La voce a Xeno suonò sconosciuta. Si girò.

Era un vecchio con un cappellaccio di traverso e occhi dalle iridi appuntite. Sorrideva a sua volta, mostrando qualche dente in un vuoto nero. — Ascolta! —  bofonchiò additandogli il logo sulla camicia gualcita. — Dai retta ai Consigli dei Mistic. Non hai a cuore la Salvezza?

— Togliti dalla mia strada, vecchio —  rispose Xeno esasperato. — Non è la serata giusta. Ho il mio daffare. Quanto ai Mistic, possono andare a impalarsi sulle aste delle loro bandiere. — Dette una lieve spinta all’uomo, che brontolò qualcosa. 

Riprese la salita. 

I Consigli dei Misticheggianti! 

Già il governo aveva decretato lo stato di estrema emergenza, e vivere stava diventando un’assurdità. Razionata al massimo l’energia, proibito l’uso di vetture, motorini, aerei, treni. Disattivati telefono e tv. L’ossessione dell’EI, l’Energia Inquinante. Le strade diventavano intasate, impraticabili, specie in una città con tre milioni di abitanti. Incidenti, malattie, divieti… 

Il mondo sprofondava e i Mistic si gingillavano con le illusioni, invece di spaccarsi anch’essi la schiena. 

Lui abitava nella periferia della Capitale, e questo era già un vantaggio. Si trovava a distanza relativamente breve dall’esterno, la campagna. Xeno detestava la campagna. Un luogo infido e mortale imbevuto al 90% di veleni tossici. Ma stasera lui era diretto proprio fuori città. 

Sulla carriola era coricato uno sbilenco armadietto in legno, fissato da un incrocio di funi. — È in puro stile contadino, non sfregiarlo —  gli avevano raccomandato quelli per cui stava lavorando. In realtà era un rottame, ma risultava ottimo all’occorrenza. Nel senso che non doveva destare sospetti a guardie e vigilanti. Non si poteva mai sapere.

Giunto in campagna si inoltrò per un viottolo sterrato che conduceva al burrone. Ora c’era il rischio dei sensori di controllo, sparsi ovunque (cacchio di governo, non inquinavano anche quelli?) e lui, appena accettato il lavoro, si era dovuto recare da Nicolangelo, che gli aveva venduto il più recente software (veleno!) per depistare i sensori. E si era giocato la metà di ciò che avrebbe incassato con questo lavoro, ma tant’era. Un tempo – adesso non più – si cercava di recintare tutte le campagne: una lotta contro i mulini a vento, anche perché i recinti duravano un’ora.

Decise di non recarsi al burrone, forse era un luogo troppo ovvio. Un centinaio di metri oltre il burrone, tempo fa aveva scoperto alcuni anfratti quasi invisibili, deserti. Forse c’erano ancora. Cambiò direzione. 

La campagna appariva  brulla desolata e immensa. L’orizzonte era ancora illuminato e nella piana, prima delle colline, si profilavano sagome sottili di cespugli selvatici rinsecchiti, ma soprattutto le linee lontane e sghembe della Centrale. Quella nucleare. Incominciata testardamente a costruirsi nel 2016 e mai portata a termine per mancanza di quattrini. Nella regione ce n’erano altre due, e una aveva avuto perdite e continuava ad ammazzare-inquinare un sacco di gente, animali, piante e natura.

Continuò a camminare.

Eppure lo sapevano tutti, che la campagna e i mari erano diventati la comune discarica mondiale a cielo aperto. Vietata con pene durissime, ovviamente. 

Giunse. 

Srotolò le funi. Dovette faticare un tantino nel depositare sul terreno quasi vetrificato il mobiletto, per non danneggiarlo ulteriormente. Tolse la copertura in plastica sotto il mobile, buttò via le cianfrusaglie che facevano da imballo ed estrasse gli attrezzi: una zappa e la pala. Nulla che fosse automatico, nulla che richiedesse carburanti, o producesse ulteriori veleni, anche se ora la sua personale situazione appariva grottesca. Ma sì, bisognava pur campare. Con fare metodico – mica era la prima volta – Xeno scavò più a fondo in un recondito anfratto. Non sudava sette camicie, pensò, perché lui ne possedeva una sola. La “merce” che scottava era arrotolata in una vecchia coperta bucherellata. Non poteva tapparsi il naso e al contempo agire, quindi cercò di respirare allontanandosi, inspirare, poi tornare al lavoro. Avanti e indietro. Alla fine la merce era ricoperta dal terreno, ben incastrata nell’anfratto. Cavolo, i cimiteri ormai rifiutavano i morti perché “materiale nocivo”. Chi per una vita si è ingozzato suo malgrado di veleni diviene veleno egli stesso. E anche i nuovi forni crematori al plasma erano a loro volta fonte di veleni, ma meno dei cimiteri, e però erano in mano alle grandi mafie capitaliste e cremare costava un occhio per chi non avesse un vero lavoro. Estrema emergenza! Il mondo intero – pensò Xeno – aveva di colpo raggiunto il picco da tanti temuto ma da troppi deriso, e ora si era in emergenza globale, militarizzata, a tempo indeterminato. Questo dovevano capire tutti, dagli Apoc ai Mistic, pensò Xeno.