Per molti versi posso dire di essermi imbattuto per caso in Takeshi Kovacs.

Prima di tutto il resto, avevo un nome – Takeshi, dall’enorme quantità di letteratura e cinema (e cibo, viene da pensare) che assimilavo negli anni Novanta, e Kovacs, dal cognome di un amico di penna, figlio di un’ala della nazionale ungherese di calcio che aveva trovato rifugio in Francia nel 1956. Non conoscevo molto dell’Ungheria, all’epoca, eccezion fatta per le immagini di uomini e donne armati solo di pietre che sfidavano i carri armati russi per le strade di Budapest, ma mi piaceva il suono del nome (anche se continuavo a pronunciarlo erroneamente, KovaKS – c’è voluto il successivo incontro con una bella signora ungherese per insegnarmi che avrebbe dovuto essere KovaCH) e se pensavo a tutte quelle immagini di eroismo disperato trasmesse dai cinegiornali, ebbene, sembravano attagliarsi pressoché alla perfezione al personaggio di cui volevo scrivere.

Così è nato Kovacs, e Kovacs è cresciuto – e accanto alla disperazione ho trovato nella sua ira violenta e senza fine uno sbocco per le mie stesse frustrazioni di fronte al modo in cui andavano le cose nel mondo, da quelle immagini dei carri armati lanciati contro civili disarmati alle prove dell’idiozia umana con cui mi confrontavo nella mia vita professionale. Insegnavo inglese come lingua straniera, all’epoca, e insegnare inglese (o almeno farlo bene) ti impone di essere un po’ hippie mentre fai lezione. Vorresti che i tuoi studenti si esprimessero in una lingua che non è la loro, e questo ti costringe a rompere con i tradizionali modelli di autorità scolastica, permettendo agli studenti di sentirsi abbastanza sicuri di sé da mettersi alla prova senza timori con una lingua straniera. E naturalmente speri che gli studenti rispettino l’atmosfera che stai costruendo.

Sfortunatamente, non sempre gli studenti apprezzano il loro ruolo in questo rapporto, e questa attenuazione del controllo significava spesso dover sopportare una quantità eccezionale di comportamenti offensivi.

L’esempio più emblematico a cui riesco a pensare in realtà non è capitato a me, ma a uno dei miei colleghi in prima linea. Dovrebbe darvi un’idea di cosa può succedere in classe quando si insegna inglese a degli stranieri. Il mio collega insegnava a un gruppo di studenti egiziani – insegnanti egiziani, in effetti, docenti di inglese nelle scuole statali elementare e media in Egitto, venuti in Gran Bretagna per affinare il loro inglese e la loro tecnica di insegnamento. Una volta venne fuori l’argomento dell’Olocausto e la reazione di un gruppo consistente di questa classe di adulti fu: “Ah, sì, Hitler… ecco un uomo che sapeva come trattare gli Ebrei”.

Cosa avreste fatto voi?

Bene, come insegnante, quello che bisogna fare è sorvolare e trovare una maniera diplomatica di indirizzare (o deviare) la questione, perché questi idioti, razzisti e rincoglioniti, sono tuoi clienti e non puoi metterli in imbarazzo. Mandi giù, trattieni la rabbia e fai il tuo numero hippie.

Non mi è mai capitato qualcosa come questo, ma nel corso di quattordici anni di un lavoro del genere ho avuto un battibecco con singoli studenti che avevano opinioni altrettanto offensive sulle donne, gli inglesi, gli insegnanti, gli americani, la gente di colore, i giapponesi, gli africani, gli arabi – diavolo, l’hai detto! – Qualsiasi tipo di bigotto demente esista al mondo, prima o poi è passato dalla mia classe. E poi ci sono stati quelli che si sono dimostrati semplicemente maleducati, scambiando il mio atteggiamento amichevole per debolezza.

Vedete, voi non potete uccidere questa gente.

Ma Kovacs sì. E Kovacs lo farebbe. Kovacs li ucciderebbe seduta stante per le loro stupide opinioni o per la mancanza di rispetto. Senza battere ciglio. Così Kovacs è traspirato nel corso di questi quattordici anni come qualche tipo di corrosivo olio di scarto dallo scarico sotto pressione del mio controllo emotivo. Kovacs si è accumulato dentro di me, diventando sempre più forte.