1

La storia di Al, nella squadra, non andava giù quasi a nessuno. Ma c’era poco da lamentarsi. Il Comando Italia del Nord aveva deciso, il Comando marittimo aveva trasmesso la decisione, il tenente aveva obbedito senza fiatare. E bisognava capirlo, perché prima di essere a capo di una formazione partigiana il tenente aveva servito nel Regio Esercito, e un militare resta sempre un militare. Che fra le SAP ci fosse diritto di critica non gli interessava. Si chiamava Gabelli il tenente, ma io questo l’ho saputo solo a guerra finita. A quel tempo noi lo conoscevamo come “il romano”, anche se era di Pustolia, nell’Alto Monsardino.

Già da un mese, dunque, Il Comando marittimo aveva diramato le istruzioni del caso: i disertori repubblichini, se qualcuno di provata fede partigiana ci metteva la faccia e garantiva per lui, si potevano arruolare nelle SAP. Punto. Al era uno di questi, ma la cosa, ripeto, non piaceva a nessuno. Nemmeno a me. Tant’è che a garantire per lui era stato proprio il tenente. Solo, il tenente. – Con questo qui vedrete che mazzate gli diamo giù ai Crucchi – aveva detto. E nessuno, in effetti, aveva fiatato. Avevamo abdicato anche noi al diritto di critica. Del resto anch’io, certi giorni, pensavo che di uno come Al era davvero difficile fare a meno. 

Quel venerdì rientrava fra questi. Era giorno, pieno, perché il freddo era ovunque e di salire senza uno straccio di sole non se ne parlava. Marciavamo lungo uno stretto sentiero di montagna, in fila, come una scolaresca, zitti zitti. Un solo sassolino giù per il dirupo poteva causare una frana; ci avessero beccati, allora sì, che i Crucchi le mazzate le avrebbero date a noi, magari coi trecentocinque dalle corazzate che incrociavano a poche miglia dalla costa. Faceva freddo sì, ma per fortuna ancora non stava nevicando. Dal basso arrivava lo scampanellare delle vacche in lontananza. A destra, la parete, dritta fin su dove arrivava l’occhio. A sinistra, un salto di quattrocento metri di nuda roccia, che pareva tagliata con un sol colpo di una mannaia gigantesca. La stessa che sentivo incombere su di noi.

Ne avremmo avuto ancora per ore, fino alla nostra meta, il passo del Boia. Al chiudeva la fila. Antoine, il francese, che quel giorno camminava proprio davanti a me, si girava di continuo. Ogni volta gli vedevo prima la punta del naso che gli occhi. Il naso di Antoine è uno dei miei ricordi più cari.

In realtà, a turni, ci voltavamo un po’ tutti, ed era solo per guardare Al. Un po’, forse, era per la paura di ciò che avrebbe potuto combinare con tutta quella potenza di fuoco addosso. Un po’ perché quello spettacolo aveva dell’incredibile. Al portava da solo una mitragliatrice Breda da settantacinque da una parte e venticinque caricatori completi dall’altra. Un paio di quintali e mezzo in tutto. Per forza che i repubblichini negli ultimi tempi avevano riportato tante vittorie. Sarebbe bastata una mezza dozzina di gesucristi come lui per togliere una vetta a un intero battaglione in poche ore. E sì che quelli come Al ne avevano ammazzati tanti, di compagni. I repubblichini ne avevano arruolati parecchi, sull’esempio dei crucchi, che avevano fatto lo stesso sul fronte russo, capovolgendo la sorte a Stalingrado, per dirne una. Ma oggi so che non era per questo che la sua presenza non ci andava giù. Era piuttosto il fatto che Al era troppo diverso. Da noi. Dal nemico. Da tutti. Ed era diverso da qualsiasi specie di soldato avessimo mai visto. Continuavo a chiedermi che cosa diavolo voleva veramente. Perché era passato con noi? Aveva senso, per uno così, parlare di “diserzione”? Era plausibile che condividesse i nostri ideali? Il Bonzo era convinto che prima o poi avrebbe piantato la Breda in terra e ci avrebbe falciati tutti quanti. Mi pareva quasi di sentirlo, mentre in testa alla fila bisbigliava al tenente le stesse parole che a turni aveva ripetuto a ognuno di noi: – Ohe’, romano, ma non lo potevi mica mettere davanti alla fila quel coso là? Giusto per non averlo dietro al culo, sai? Ché prima o poi, te lo dico io, quello si ferma e ci sventaglia tutti giù per il burrone, Dio bon!

– Eh bravo il Bonzo, ne’? E se invece ti do retta, e te lo sbatto davanti, quello piglia velocità e ci lascia quaggiù. E mica per dispetto, è che è fatto così! La Breda è la cosa più preziosa che abbiamo. Vale anche più dell’esplosivo e più, molto di più, di chiunque di noi. Anche di te, Bonzo – così gli aveva risposto il Tenente, prima di sputare un pezzo di tabacco. Questo me lo dissero dopo quelli più avanti, perché da dov’ero io non lo potevo certo sentire. Da quel momento in poi il Bonzo non aveva più aperto bocca. Del resto bisognava capire anche lui, povero cristo: il Bonzo si chiamava così perché un lanciafiamme nazista gli aveva sfigurato mezza faccia. Nulla di personale, stavano disinfestando il ghetto di Barlugia. Il Bonzo non era nemmanco ebreo, nel ghetto ci era capitato per sbaglio, perché si era perso, ma all’altra metà del viso ci doveva tenere ancora parecchio. La Breda addosso ad Al gli ricordava troppo l’arma che gli aveva sfregiato il destino. Il Bonzo era diventato partigiano perché solo i partigiani lo avrebbero accolto. Per sparare, di occhi ne basta uno.

Io invece ero abbastanza vicino ad Al. Fra me e lui c’era solo Ninetto, che era un ragazzo e con quel marcantonio ci andava d’accordo. Ninetto era uno che la solitudine l’aveva avuta come amica sin dal principio; il nome gliel’aveva dato una suora del Pio Albergo in cui era cresciuto, mettendo le vocali fra le due N che il ragazzino, sulle carte, aveva al posto dei genitori. Diceva che Al gli ricordava un compaesano che era morto solo un mese prima, ma non lo avevano ammazzato i fascisti, e nemmeno i Crucchi. Pieno di Bonarda fino all’orlo, Giacomone era scivolato in un vallone sotto gli occhi del fratello. Non lo avevano più ritrovato e secondo il parere di più d’uno, in famiglia, in fondo era meglio per tutti che fosse andata così.

Io, per conto mio, a quel tempo un’opinione precisa non ce l’avevo mica. Al era uno che se ne stava per i fatti suoi. Nessuno, a parte Ninetto, gli rivolgeva la parola. Forse quelli come lui erano tutti così. E forse a me, guardandolo, per farmelo digerire almeno un po’, sarebbe bastato capire com’era fatto. Sì, sarebbe stato un buon punto di partenza. Era la prima volta che vedevo uno straniero così da vicino, eppure non ci capivo niente. Poteva essere colpa della divisa che gli avevano cucito addosso. Chissà che fatica avevano fatto.

Arrivammo al Passo del Boia giusto una mezz’ora prima del tramonto. Conoscevo quelle montagne, perché prima della guerra ci andavo a camminare. Sapevo che lassù c’era un bivacco che, stringendosi un po’, sarebbe forse bastato per starci dentro tutti. Per tutto il percorso mi ero chiesto se Al avrebbe dormito con noi. All’idea di doversi schiacciare contro le sue squame, nella squadra serpeggiava il malumore. Il Bonzo voleva convincere tutti che puzzava ma a me, che lo avevo avuto abbastanza vicino per ore, non era arrivato nessun cattivo odore. Tutto quel che avevo sentito di lui erano le rare parole che aveva scambiato con Ninetto, che sembravano uscirgli dal petto, con quel maledetto accento tedesco e il suono metallico della macchinetta. No, Al non puzzava, ma vi assicuro: averlo vicino non era facile e il Bonzo non aveva poi tutti i torti a diffidare di lui.

2

Giunti al bivacco, stanchi morti strascicati com’eravamo, non prendemmo troppe precauzioni. Una staffetta, il giorno prima, ci aveva assicurato che non ci avremmo trovato nessuno; tedeschi e fascisti si erano piazzati sul costone del Bardàn, più a Nord, che era più facile da difendere; del Passo del Boia non era mai importato niente a nessuno manco in tempo di pace. Le montagne che univa erano un enorme sasso brullo verso sud e sul lato settentrionale una losanga di velluto umido, rivestito da una foresta battuta dalla pioggia per dieci mesi l’anno, buona neppure per far legna da ardere. Trovammo le porte chiuse con un catenaccio e il tenente ordinò a Marietta di aprire. Marietta era l’unica femmina della Squadra. Aveva capelli rossi e lentiggini ovunque, ed era la donna di un partigiano di un altro Gruppo, un ufficiale comunista di origini slave, perciò nessuno si sarebbe mai sognato di allungare le mani su di lei, anche se a molti di noi non sarebbe dispiaciuto. Mi stupiva che il Bomba, così tutti chiamavano il suo uomo, la lasciasse in balia di un’intera Squadra, per giunta facente capo a un partito che non era il suo; era forse una prova che stavamo costruendo un’Italia migliore, un Paese dove le donne potevano competere con gli uomini in qualsiasi mestiere e gli stranieri potevano combattere a fianco degli esseri umani; persino in nome della libertà. A quel tempo non sapevo ancora quale delle due prospettive fosse più inverosimile. Per conto mio, comunque, ero partigiano per questo. Forse non ci saremmo mai riusciti. Forse ci avrebbero fatti fuori, tutti. Ma valeva la pena provare; l’alternativa era un mondo senza più colori né sorriso.

Marietta infilò una forcina nel lucchetto e in pochi minuti lo aprì. Era la sua specialità. Il tenente la ringraziò con un sorriso appena accennato (io penso perché nessuno lo giudicasse male e si facesse venir lo sghiribizzo di riferire al Bomba) e sferrò un calcio alla porta con lo stivale del Regio Esercito. – Al! – gridò poi, e allora tutti ci voltammo. – Porta dentro la Breda, va’ al piano di sopra e piazzala sul tetto – ordinò. – Fammi ‘sto favore, dai – aggiunse, con gentilezza quasi affettata. Diavolo di un tenente. All’inizio nessuno capì un ordine tanto strampalato: perché proteggere in quel modo la Breda? Solo uno come Al avrebbe potuto portarcela via, e la montagna ci risultava pulita. Eh, già. Ma di soldati come lui, nelle file nemiche, ce n’erano diversi. A un paio di quelli sarebbe bastata un’ora per salire al Passo del Boia, saltare sul tetto e riportarsela in valle dietro le linee tedesche. Non prima di averci sforacchiato ben bene, quello è scontato.  

Al obbedì docilmente. Sfilò davanti a noi con i suoi lunghi passi, lo sguardo basso (o almeno credo), portandosi appresso arma e caricatori come se fossero un mazzolin di fiori per la sua bella. Ovviamente salì dall’esterno. Dopo qualche secondo la Breda faceva bella mostra di sé dall’abbaino. Quasi ci inorgoglì. Per un istante, mi sembrò, ci eravamo scordati tutti che Al era Al. Che non era uno di noi. Poi qualcuno tossì e l’incanto si spezzò. Al grugnì, tornò dabbasso, alzò un arto in quel suo gesto di saluto che ormai conoscevamo, e senza dire una parola andò a stendersi a un centinaio di metri dal bivacco, dove il terreno era più umido. L’acqua gli piaceva.

– Alé! – esclamò il Bonzo, prima di entrare, imitato dagli altri, tranne Ninetto, che era andato appresso al suo amico e gli si era seduto accanto, quasi imitando per quanto possibile la postura di quel gigante dalla faccia grigia e la folta criniera azzurro-argentea. Austero, rannicchiato eppure impettito, lo straniero se ne stava seduto come un eremita in contemplazione, con lo sguardo a spazzolar la valle. Restai lì, a guardarli, per qualche istante. A chiedermi che cosa ci trovasse Ninetto in uno come quello. A cercar di capire perché Al era lì, con noi, in un posto che da casa sua, per arrivarci, la luce del fiammifero con cui mi accendevo la nazionale ci avrebbe messo, mi dissero poi, un milione di anni. A indovinare se anche lui avesse qualcuno che lo amava, che aspettava con ansia il suo ritorno. Un figlio, magari. Un milione di anni. A quel tempo, non sapevo neppure bene cosa significasse. Per un provinciale come me, cresciuto fra i campi, che dei mondi esterni aveva sempre solo sentito le notizie alla radio, e da qualche anno anche alla terravisione, era tutta roba nuova. Roba che non ero sicuro di poter capire fino in fondo. La terravisione, poi, non mi piaceva. Qualcuno diceva che l’avevano portata loro, e forse era per questo, ma io non ci credevo. Se erano come Al, che interesse potevano avere gli stranieri per la terravisione? Chissà, forse lui era un tipo particolare anche fra i suoi simili. Non ci avrei scommesso.

All’improvviso mi ricordai perché eravamo lì, ventitré poveracci male assortiti, un gigante, una donna lentigginosa, un ragazzino e una mitragliatrice, al bivacco di Passo del Boia. L’indomani ci attendeva un compito ingrato. Alcuni noi ci avrebbero lasciato le penne e speravo di non essere fra quelli. Entrai per ultimo nel bivacco e mi lasciai andare all’odore della minestra che già bolliva. A girare il mestolo era Ninetto, che doveva essere sgattaiolato dentro senza che me ne accorgessi. Non so perché, ma per la prima volta mi chiesi se ad Al dispiaceva restare sempre solo, come in quel momento. Quando mi affacciai un’ultima volta dalla porta, nel buio ormai fitto, non lo distinguevo più. Sentii un mugugno e fui sul punto di rispondere, poi mi sentii uno sciocco e tirai la porta.

Al mattino successivo il sole si levò dietro al massiccio a forma di stelo ricurvo che dà il nome al Passo, proiettando sul pianoro un’ombra lunga che mai come quel giorno raffigurò così bene il profilo della scure del Boia nell’atto d’esser levata per l’aria. Sotto a quell’ombra stava il bivacco, come la testa del condannato pronta a rotolar via, giù per la valle. E noi lì dentro, come le ultime pazze idee che gli frullavano per le meningi prima di chiudere per sempre gli occhi. Idee di rivoluzione, idee di libertà.

Furono le grida del Bonzo a svegliarmi. Erano tanto forti che passavano attraverso i vetri chiusi. Aprii gli occhi e m’accorsi che erano quasi tutti già fuori. Avevo dormito della grossa. Ninetto si stava svegliando anche lui in quel momento. – Al! – gridò fra sé e si lanciò giù dal letto a castello ancora in mutande, poi afferrò i calzoni e corse via infilandoseli alla meglio. Io i calzoni li avevo ancora indosso dal gran freddo e non feci fatica a seguirlo subito. Sul prato davanti al bivacco la squadra stava assiepata intorno al Bonzo, che non la finiva di sbraitare come un ossesso, e allo straniero, che aveva un’altezza pressappoco doppia. – Come ti permetti? – gridava il Bonzo. – Come stradiavolo ti permetti, eh? Pezzo di un animale che non sei altro! Come ti sei permesso, caprun di extrastramasso, o cosa l’è che sei te, che ti non ti se’ altro!

La scena era grottesca. Con la coda dell’occhio vedevo Ninetto che s'intrufolava fra le giubbe e i fucili e guadagnava la prima fila. Io invece ci vedevo bene anche da là dietro, perché ero salito su un sasso. Il Bonzo superava a stento il metro e cinquanta, e vicino ad Al pareva un ragazzino capriccioso che non la smetteva di agitarsi e frignare. Lo straniero se ne stava lì, immobile, in silenzio, le spalle curve (perché le spalle, quelle sì, le riconoscevo) a prendersi le brutte parole e le ditate che il Bonzo, che prendeva sempre più confidenza, gli piantava sulla giubba in segno di protesta. Capire i sentimenti di Al non era facile, ammesso che ne avesse, ma in quel momento avrei giurato che fosse costernato. Sinceramente. I nostri compagni fissavano la scena, muti, scambiandosi occhiate di incomprensione.

– Ma insomma, insomma, che cosa l’è ch’è successo? – intervenne finalmente il romano, fattosi largo fra la platea. Mi incuriosii, era la prima volta che vedevo qualcuno dialogare con Al. A parte Ninetto, che però con lui riusciva a comunicare per lo più standosene zitto, o al massimo a mezze parole e mezzi mugugni. Valli a capire, i giovani.

– Il sa lui! Il sa lui! – faceva il Bonzo, sempre più fuori di sé. – Uno non può neppure starsene in santa pace per conto suo, ne’? – continuava a gridare. – Dì, ma al paese tuo, a casa tua, fate tutti così? Eh? Ma dov’è che vivi, te?

– Allora, amico, tu cos’è che hai da dire? – fece il tenente in direzione dello straniero. – Cos’è che gli hai fatto, al Bonzo qui?

Considerato il modo in cui ci esprimevamo in quei giorni, noi capre ignoranti che altro non eravamo, brulicanti da una vita intera sempre e solo sui monti del basso Monsardo, mi meravigliavo che la macchinetta di Al riuscisse a capire quei bocconi di dialetto che masticavamo come carne secca e poi ci sputavamo addosso. Non mi sfuggì il vorticare degli occhi del tenente mentre porgeva la domanda. Cercavano qualcosa che lo rassicurasse che guardava nella direzione giusta.

– Lassiam stare, lassiam stare! – iniziò a gridare il Bonzo che, qualsiasi cosa fosse accaduta, sembrava proprio che non voleva che diventasse di dominio pubblico. – Il sa lui e tanto basta! Sicuro, oh Siur! Il sa lui, ne’! Sicuro!

Il Bonzo sembrava pentito di aver messo su tanto teatro. Ma a contenere la rabbia proprio non ci riusciva.

E finalmente Al parlò.

– Sono assai dispiaciuto di aver indotto molestie siffatte in ispirito al signor… Bonzo – sentenziò, calmo come un serafino. A sentire quelle ERRHE e quelle ESZE, a noi tutti ci si torcevano le budella. La voce, poi, gracchiava dalla macchinetta sul petto della giubba, ed era accompagnata da una specie di sibilo, che era la vera emissione sonora di Al, che la macchinetta traduceva all’istante ricorrendo a un italiano forbito, manco fosse un libro stampato, per noi persino difficile da capire. Quel modo di parlare suonava arcaico, e del resto oggi so che l'atto stesso del parlare, per Al e per quelli come lui, era una maniera primitiva di comunicare. Il sibilo, insomma, lo emetteva per noi. E la macchinetta faceva il resto. La fabbrica delle macchinette era a Dortmund, e quelli del Genio ne avevano riadattata qualcuna alla nostra lingua dopo averle rubate ai Crucchi. Per la pronuncia però non c’era niente da fare.

– Non era assolutamente mia intenzione cagionare… – iniziò a ripetere.

– Lassiam stare! – il Bonzo gridò di nuovo, alzando tutt’e due le braccia e impedendogli di continuare, prima di girar sui tacchi e uscire di scena in un silenzio di tomba nel quale si udirono solo un gufo, il ruscelletto in lontananza e qualche risatina.

3

Vi furono varie ipotesi su quale tipo di sgarbo Al avesse commesso ai danni del Bonzo, eppure ancora oggi non ho idea di cosa davvero fosse accaduto quel giorno fra loro due. Ma per me era stata una buona occasione prima di tutto per avere conferma che il Bonzo non aveva tutte le rotelle a posto, e poi anche per iniziare a vedere gli stranieri con occhi diversi. Ancora non sapevo che quello era solo il principio.

– In marcia fra dieci minuti – ordinò il romano. Feci appena in tempo a mangiare un tozzo di pane secco e buttar giù un sorso di caffè riscaldato, che erano già passati. La discesa era meno impervia della salita del giorno precedente, perché il sentiero scendeva docile attraverso la boscaglia sempre più fitta che la pioggia notturna faceva puzzare di uova marce, e che ci rendeva invisibili alle sentinelle nemiche appostate sul Bardàn. Naturalmente il Bonzo andava ripetendo che l’odore veniva da Al. Questa volta, al contrario della salita, lo straniero ci precedeva. Un po’ perché il nemico poteva apparirci davanti in ogni istante e la Breda in avanguardia ci faceva star tranquilli; un po’ perché Al, pur con le armi a tracolla, riusciva a trasformare il sentiero in un’autostrada solo tenendo le gambe un po’ più larghe mentre avanzava. Un Super Landini con motore a testa calda non avrebbe fatto meglio. Qualche quercia di quelle giovani venne giù, ma pazienza; Al spostava i tronchi come fossero fuscelli, e noi si andava lesti avanti.

Il nostro obiettivo era il Ponte della Bestia. Sapevamo che i Crucchi preparavano la controffensiva verso Sud e il Ponte era largo abbastanza per farci passare sopra le panzer-divisionen. Da lì sarebbero scesi sul mar ligure come una torma di mocciosi sullo scivolo e si sarebbero facilmente uniti alle forze navali dell’imperatore Hiro Hito, che preparavano lo sbarco insieme alla Kriegsmarine. Poteva essere una seconda Gibilterra: la costa italiana di nord-ovest, che con tanta fatica avevamo liberato in quasi un anno di guerriglia e grazie al supporto della Francia libera, sarebbe stata travolta. Pur di impedirlo, eravamo pronti a morire.

La marcia fu tranquilla. Lo scrosciare del Borgia lungo le rapide si fece sempre più impetuoso, e nell’arco di tre ore fummo su un costone protetto dal quale il ponte si vedeva quasi per intero. Quasi, perché in quel punto il corso del fiume piegava in un’ansa che nascondeva alla vista la nostra sponda, e con essa l’estremità del ponte che la raggiungeva. L’esplosivo era negli zaini di Antoine, di Ninetto e nel mio. Per questo procedevamo per ultimi, distanziati dagli altri.

– Le operazioni iniziano subito – fu l’ordine del romano. Ognuno di noi si mise al lavoro. Marietta prese a dare istruzioni su come disporre il campo. I compagni, eseguendole, iniziarono a formare un circolo, usando i massi sparsi come ripari, perché per il giorno dopo si prevedeva pioggia. Il Bonzo le stava sempre appresso, come un’ombra, annuendo a ogni istruzione e quasi sempre ripetendone le parole, nemmeno fosse il suo luogotenente. Ninetto, che sembrava preferire me a chiunque non fosse Al, aveva gettato la sua sacca accanto alla mia. Lo straniero, infatti, si era già dileguato nella direzione che gli era stata indicata, circa settanta metri più in alto, lungo un ripido crinale che lassù formava una sporgenza da cui, all’occorrenza, la Breda avrebbe potuto sparare fin sopra il ponte. Andrea detto il genovese, e Geppo, un anarchico greco, essendo i più snelli, sarebbero saliti fin lassù al tramonto, per passarci la notte. Sarebbero morti di freddo, e per giunta dopo l’alba sarebbero diventati un bersaglio facile, ma almeno il compito di coprirci con la potenza di fuoco della mitragliatrice li avrebbe esonerati dal prendere parte all’azione in prima persona. Perché il giorno dopo, a noialtri toccava far saltare il ponte. E l’esperto in esplosivi ero io.

Non era un mestiere, anche se un giorno lo sarebbe potuto diventare. È solo che, in casa mia, di come far saltare in aria un masso, accendere una miccia o buttar giù un intero costone si parlava quasi tutti i giorni, un po’ come nelle famiglie dei contadini si sapeva come far venire grosse le uova di gallina o raccogliere le fascine in fretta per iniziare a macinare più presto che si può. Io lo sapevo, che tutti si auguravano che fossi più in gamba di mio papà. Perché lui, giù in miniera, a forza di lavorare con il tritolo, ci aveva lasciato le penne. Ma era successo tanti anni prima e nessuno si azzardava a farmi domande. Anche perché più di un ufficiale partigiano si era già avvalso dei miei servizi; nessuno si era mai lamentato e nessuno, almeno fino ad allora, si era mai fatto male. A voler essere sinceri, però, a paragone con un paio di muraglioni e una casamatta abbandonata, far saltare il Ponte della Bestia era un altro paio di maniche. Lo sapevano loro e lo sapevo io.

Ero preso da questi pensieri quando Al, di ritorno dal posizionamento della Breda, mi si piantò davanti, immobile. Sulle prime mi venne da scostarmi, poi invece me ne restai lì, a guardarlo. Puntavo gli occhi verso la parte alta della testa, dove quella cascata di filamenti traslucidi che erano il suo organo visivo rifrangevano i colori formando mille piccoli arcobaleni scintillanti. Oggi so che con quella piccola aurora boreale Al poteva vedermi pure le ossa, o conoscere la temperatura di ogni centimetro della mia pelle. Ma quel giorno, nel bosco intorno al Ponte della Bestia, io non vidi che un ridicolo e sgradevole siparietto che sembrava volermi impedire l’accesso allo sguardo del mio interlocutore. Però restai lì, per una volta deciso a capire chi davvero avevo davanti. Non avevo paura, non mi sentivo in pericolo, anzi con lui sapevo che potevo essere me stesso; forse perché il suo giudizio non m'interessava, così come a un gatto non importa ciò che di lui possano pensare un coniglio o una donnola.

– Salute, Giova – mi disse poi, all’improvviso, alzando un braccio. – Ti auguro la buona sorte per dimani.

Forse fu solo suggestione ma quella volta non colsi alcun accento tedesco. Certo, Al si esprimeva in quell’italiano forbito e desueto che gli avevano montato nella macchinetta usando un Sansoni della lingua italiana del 1893, però si era rivolto a me con il diminutivo che usavano anche gli altri compagni della SAP e che avevano sempre adoperato tutti sin da quando ero bambino. Mi fece impressione. Stava forse modificando il suo modo di parlare per entrare più in sintonia con noi? Difficile rispondere.

– Grazie, Al – risposi in un mormorio. Furono le prime parole che scambiai con uno straniero in vita mia. Al mosse il primo di una serie di lunghi passi e si allontanò in direzione di Ninetto, che era sceso giù verso il letto del fiume a riempir la borraccia. Io, per avergli solo parlato, mi accorsi che avevo i brividi.

Nonostante non riuscissi a chiudere occhio, la notte fu breve. Un’ora prima dell’alba, Antoine e io ci caricammo tutto il tritolo sulla schiena. Senza neppure parlarne ci ritrovammo a dividerci la parte di esplosivo che fin lì aveva portato Ninetto. Nessuno si oppose. Avevamo sfruttato già abbastanza le giovani spalle del ragazzo, mica potevamo chiedergli pure di giocarsi la pelle.  

Iniziammo a scendere verso il ponte. Nessuno fiatò e tutti, persino il Bonzo, ci sfiorarono una spalla, un gomito, un dito. Un addio, perché non si sa mai. Ninetto mi sorrise. Non si rendeva conto di quanto quel giorno sarebbe facile stato morire. Meglio così. Stranamente non avevo paura. Forse perché sapevo che, se volevo aver salva la pelle, era meglio rimandarla a dopo. Il tragitto per la base del pilone era breve, l’acqua del fiume era bassa, ma bisognava esser pronti a far tutto in fretta appena il sole ci avesse concesso quel tanto di luce per vederci senza dover accendere lanterne. Il cielo era terso e un pallido quarto di luna mi consentiva di vedere la sagoma di Antoine, che mi camminava davanti. La sera prima gli avevo chiesto perché si fosse offerto volontario: lui di esplosivi non capiva niente, la sua sola funzione era portare sulle spalle la parte di peso che non riuscivo a portare io. – Io sono come Al – mi aveva risposto. – Non sono di qui. Non ho nessuno che mi aspetta.

Gli avevo chiesto come facesse a sapere che Al non aveva nessuno ad aspettarlo a casa. Lui era rimasto qualche istante in silenzio e poi aveva risposto: – perché altrimenti, mon ami, col cavolo che sarebbe qui con noi adesso.

Una logica ineccepibile, ma non mi aveva convinto.

Giunti a pochi metri dal letto del fiume, ci mettemmo a cercare un percorso in secca; di notte, lo sciabordio dei nostri passi poteva essere letale. Caddero le prime gocce di pioggia. Antoine procedeva spedito, l’esperto di esplosivo ero io ma il veterano di guerra partigiana era lui: erano sette anni che combatteva i Crucchi, su tutti i fronti d’Eurasia. I nostri occhi si erano abituati al buio e vedevo che fra la nostra posizione e il primo pilone era quasi tutto asciutto. Il Bardàn si ergeva sulla sponda opposta, ne riconoscevo il profilo per l’assenza di stelle nell'alta sagoma nera. Se qualcuno, in quel momento, avesse acceso la luce all’improvviso, i Crucchi avrebbero potuto prendere la mira con comodo e giocare al tiro a segno. Il motivo principale per cui l’idea non mi andava giù era il ponte. Morire poteva pure andarmi bene, ma quel maledetto di un ponte doveva prima venir giù. Lo dovevo a mio padre.

Ancora una manciata di minuti e Antoine e io fummo alla base del primo pilone. Ci inginocchiammo fra canne e rovi alti non più di un metro e mezzo. Per restare nascosti, per tutto il tempo che sarebbe stato necessario a piazzare il tritolo, sarebbe bastato. Il piano era semplice: mettere le cariche nei punti giusti della coppia di piloni, protetti dalla vegetazione; venir via a notte fatta, srotolando il cavo fino a riva; dare conferma con la fiammella dell’accendino. Dopo la risposta, il verso di un gufo che avevamo sperimentato dalla stessa distanza nei giorni precedenti, e solo a quel punto, far brillare le cariche. Avremmo illuminato la valle. E poi, via, a brindare all’anno nuovo, che sarebbe arrivato di lì a pochi giorni. Il millenovecentoquarantasei. – Ai Crucchi non ci dispiacerà mica che facciamo i botti in anticipo? – aveva chiesto il Bonzo la sera prima. Eravamo scoppiati tutti a ridere.

4

La parte peggiore del piano per buttar giù il ponte della Bestia? La fatica dell'attesa. Piazzar le cariche era stato un gioco da ragazzi, per me. Ma poi, ore e ore, acquattati fra le canne, confinati in un paio di metri quadrati, ad aspettare il ritorno dell’oscurità, unico possibile riparo per il disimpegno. C’era da diventare intimi come due coniugi anziani. La sera prima io e il francese ci avevamo scherzato sopra, raccomandando l’uno all’altro di non esagerare con la razione di fagioli.

Ai primi bagliori dell’alba mi misi all’opera. Sotto la pioggia che non accennava a smettere srotolai il cavo, girai intorno al pilone, ci andai giù di colla, nastro e silicone. Piazzai ben dodici cariche. Da solo. Antoine attendeva nel punto più protetto. Mi toccò far tutto a quattro zampe, e mi toccò rifarlo, più o meno secondo lo stesso schema, per il secondo pilone. Fra l’uno e l’altro andai di corpo. Scherzi dei nervi. Fortuna che c’erano l’acqua e le frasche. Il lavoro mi prese appena tre ore, forse tre e mezza, durante le quali la pioggia cessò. Tornai da Antoine, dietro al primo pilone, e lo trovai disteso sul fianco, che leggeva un libro con una margherita in bocca, come fosse stato a fare una scampagnata con gli amici.

– Cos’è?

Per tutta risposta, sbuffò nel modo tipico dei francesi. – À la recherche du temps perdu – aggiunse.

Anche se non ero neppure sicuro che mi avesse risposto, annuii. Non feci nemmeno in tempo a chiedergli se gradisse un caffè, che mi era sembrata una replica appropriata; gli eventi successivi avvennero in una sequenza che mi parve di vivere al rallentatore. Nel giro di pochi secondi essi cambiarono la mia vita per sempre. Ogni volta che ci ripenso, e devo dire che pur dopo tanti anni mi capita spesso, mi pare di rivedere ogni singolo dettaglio, nella sua giusta posizione, appresso al precedente e prima del successivo. Devo essere andato davvero vicino alla morte, quel giorno.

Prima di tutto c’è il grido. Acuto, straziante, maschile. Come di qualcuno a cui avessero strappato un dito, anzi un braccio. Viene da est, in direzione del nostro campo. Subito dopo almeno tre riflettori dei crucchi che si accendono accompagnati da ordini in tedesco che tagliano l’aria. Lo stupore nel chiedersi a che serve la luce in pieno giorno, che pian piano cede il passo all’intuizione che si tratta di un sistema per individuare tracce di calore. Uno dei primi che fossero mai stati sviluppati. La luce, di color rosso mattone, che inizia a spazzolar la valle, il ponte, i sassi del fiume, l’orlo del canneto, i miei ricci e il cranio glabro del francese. Il libro di Marcel Proust (oggi so chi sia) che gli cade di mano e finisce in terra; l’aria sulle nostre teste, che pare rovente. L’estremità di una canna che si annerisce e il timore che quella luce sia prodotta da un’arma. L’ennesima, segreta, dei tedeschi. Poi le grida, i nemici che sono ormai in pieno allarme e iniziano a sparare. Le raffiche sono dirette al piano strada e verso est, dove tutto è iniziato, con quell'urlo. Ancora non hanno capito che sotto al pilone ci siamo noi due. Ancora non ci hanno visto. La nostra Breda, dalla melodia inconfondibile, che inizia a sparare a sua volta. Le grida dei nostri compagni. Il Bonzo, il romano, Ninetto. Il genovese, Geppo, Marietta e tutti gli altri. E noi qua sotto, bloccati. – Non c’è più scampo, siamo morti comunque – sentenzia Antoine mentre mi fa cenno di passargli il rotolo del cavo di detonazione. Ha ragione. Tanto vale andare fino in fondo, fare quello per cui siamo venuti qui. Antoine impugna la spola. Mi guarda. Gli basta un mio cenno con il mento, un battito di ciglia o uno sputo nel terreno. Poi il suolo trema. I panzer stanno scendendo a valle. Hanno mangiato la foglia, dunque davvero non c’è tempo da perdere. – Un carro armato non fa questo rumore – dice invece Antoine, scuotendo il capo e allentando la presa sulla spola. All’unisono guardiamo tutti e due nella direzione da cui proviene il rimbombo: sono colpi sferrati al suolo, colpi di una forza inimmaginabile, cadenzati, sempre più vicini. Finché l’origine di quel rumore si staglia davanti ai nostri occhi, palesandosi nella sagoma di uno straniero in tutto e per tutto simile ad Al, ma completamente vestito di nero, con tre svastiche sul braccio e il simbolo “SS” sul collo e sui polsi e, in apparente perfetta continuità con uno degli arti superiori, una mitragliatrice a tripla canna rotante protetta da baionette multiple, anch’esse rotanti, da far impallidire la nostra amata Breda. La superficie del suo corpo sembra traslucida, a tratti riflettente, nel manto nero che sembra tappezzarla si creano lampi di luce bianca che evidenziano le pieghe di un corpo ancora più massiccio e mastodontico, se possibile, di quello di Al. Bastano pochi istanti per capire che quello che abbiamo appena visto, ancora rannicchiati, è solo il primo di una serie di tre stranieri armati fino ai denti, scesi nel letto del fiume dal lato opposto al nostro. A questa presa di coscienza fa seguito un dolore tremendo alle tempie: Antoine e io ci portiamo i palmi delle mani alla testa, e premiamo con forza le arterie che pulsano ai lati degli occhi, come per arginare il collasso del cervello, l’espansione delle nostre meningi che premono per uscire dal teschio. Balziamo in piedi dal dolore, gridando, mentre un ronzio assordante sembra dare forma sonora a ogni onda, lampo, chiodo che ci trafigge il cranio. Finché tutto finisce all’improvviso e noi due, là, in piedi, a guardarci in faccia esterrefatti, e poi a voltarci, forse veloci, forse lenti, verso la triade di demoni neri arrivati dall’inferno all’altro capo della galassia, perché è lì che si nasconde l’inferno, quello vero, non quello della Bibbia o della Torah, se questi esseri vengono da lì, e poco importa se qualche folle fra loro ha deciso di schierarsi con noi, perché se l’inferno non è nelle viscere della terra ma nel profondo del cielo, allora il paradiso è un’invenzione per gli stolti. E nessun angelo scenderà a salvarci.

Ci hanno visto. Il dolore era un’esca per farci uscire allo scoperto. I tre stranieri nazisti si voltano verso di noi o per meglio dire sono le loro teste a girarsi, in modo perfettamente sincronizzato, come se fossero automi che hanno puntato il loro bersaglio. Il primo, lontano da me non più di una ventina di metri, allunga il braccio-cannone e con calma prende la mira. Mi volto verso Antoine, la mia bocca si apre, ma nell’istante in cui sta per uscirne un suono sento il rumore rassicurante dei proiettili da settantacinque della nostra fidata Breda, che a raffiche raggiungono l’arto armato del primo straniero nazista, che si spezza come lo stelo di un arbusto; l’estremità terminante con la bocca di fuoco e le baionette cade sul terreno chiazzato d’acqua, con il suo sangue nero di diavolo che bagna la carne e le lame; lo straniero lancia un latrato multitonale di dolore che si accompagna a una nuova emissione di quelle onde che ci torturano le meningi, ma per fortuna è solo per qualche istante. Dalla nostra posizione non riesco a vederlo, ma per tutto questo c’è solo una spiegazione, e prima di averne conferma Antoine e io usciamo del tutto allo scoperto e iniziamo a correre in direzione del campo, allontanandoci dall’argine e scatenando la reazione dei crucchi che iniziano a sparare dal Bardàn. Quando siamo a distanza di sicurezza, fra la boscaglia, gli spari cessano, e abbiamo la conferma visiva che Al è intervenuto per tirarci fuori dai guai. Ne valeva davvero la pena? Lui è molto più prezioso di cento di noi messi assieme. I tre stranieri nazisti, uno ferito, salgono sul ponte uno alla volta, aiutandosi l’un l’altro come bravi camerati, mentre Al continua a sparare, ma inutilmente: dopo che il primo di loro è stato colpito sembra che i proiettili della Breda vengano respinti da un misterioso campo invisibile di forza, che li deflette e li dissemina in tutte le direzioni, tanto che un paio di bolidi fischiano a qualche metro da noi, che d’istinto ci gettiamo in terra per trovare riparo.

Non dimenticherò mai ciò che vedemmo in seguito. Al gettò la Breda ormai inutile alle proprie spalle, forse sperando che la squadra potesse recuperarla in seguito, e a quel punto il campo di forza cessò; come se seguissero un codice di combattimento tutto loro, gli stranieri avevano deciso di rinunciare all’uso delle armi dei rispettivi eserciti e fronteggiarsi in un corpo a corpo che sarebbe stato lo spettacolo di lotta più orrendo a cui avessimo mai assistito. Mi sentii gli occhi gonfi di lacrime. Antoine fissava lo spettacolo a bocca aperta. Inizialmente solo uno dei tre ingaggiò lo scontro con Al, ma quando capirono che avrebbe avuto la peggio intervennero anche gli altri due. Anche per esseri distanti milioni di anni da noi, la vigliaccheria nazifascista era la stessa.

Dopo una decina di minuti, dei quattro restava in piedi solo lo straniero ferito all'inizio. Al e gli altri due formavano un solo mucchio di carne, metallo e sangue nero. Dal Bardàn arrivava l’eco della concitazione: i crucchi stavano scendendo con i carri armati e i primi colpi di mortaio esplosero sul letto del fiume.

E accadde l’impossibile. Mentre lo straniero ferito si trascinava a fatica in direzione del Bardàn, vidi Al tirarsi su, dal mucchio di membra aliene, e mettersi di nuovo in piedi. Contro ogni speranza, era ancora vivo. Non aveva più le braccia, eppure non emetteva un suono. La sua testa si voltava alternativamente verso il nemico in fuga e verso il letto del Borgia. Sembrava indeciso, poi capimmo che stava prendendo le misure; attendeva che il nemico fosse abbastanza lontano da non poter più interferire con le sue intenzioni. Barcollando, mosse una gamba, poi l’altra e dopo altri due o tre passi esitanti, latrando come uno splendido pachiderma moribondo, si accasciò sulla balaustra e la usò come fulcro per farsi cadere in acqua. Si rimise in piedi, un’altra volta, e iniziò ad avanzare verso il detonatore. – Mon dieux! – gridò allora Antoine, prendendomi la mano e poi afferrandomi per il collo per farmi portare giù la testa. Forse pensava che non avessi capito cosa stava per succedere, ma io invece avevo capito perfettamente, eppure non mi importava più di nulla. Resistetti alla pressione della mano del francese e, prima dell’esplosione, feci a tempo a vedere il corpo di Al che cadeva a peso morto sul detonatore, mentre Ninetto gridava e piangeva come un disperato. Poi non vidi più niente, e tutto quel che ricordo prima del buio è che sperai che fosse eterno.

5

La prima volta che riaprii gli occhi, dopo quel giorno, non vidi nulla. Mi ci vollero due mesi per iniziare a vedere qualcosa, solo a sinistra, e fu grazie a un chirurgo di Caliendis che aveva studiato a una scuola di stranieri, prima della guerra. Uno che sapeva il fatto suo. Per tutto quel tempo mi avevano tenuto in sedazione, e avevano proibito ai miei compagni di venire a trovarmi. La prima cosa che vidi fu il cranio traslucido del Bonzo. Gli chiesi subito di Al. Il Bonzo scrollò la testa, abbassò lo sguardo, e un occhio solo mi bastò per vederlo piangere. Le lacrime vennero anche a me. – Son passati due mesi, ma non riesco a dimenticarmelo proprio, ne’ – sibilò. Poi, dopo un istante, come se si fosse scordato tutto, iniziò a ridere. Aveva ancora gli occhi gonfi e lucidi. – Dì, Giova, adesso facciamo una bella coppia, eh? Mezza faccia io, mezzo sguardo te.

Ci mancò poco che lo prendessi a male parole. Invece il Bonzo si chinò su di me e mi abbracciò. Io restai lì, imbambolato, a chiedermi se la guerra andasse avanti ancora come sempre, e se i crucchi erano riusciti a sfondare.

Nei giorni successivi mi dissero che il romano era morto. Si era comportato da vero soldato, scendendo fino al ponte per difendere la posizione con la Breda lasciata lì da Al, per coprire la nostra ritirata. Aveva buttato giù lo straniero superstite e poi era stato spazzato via con tutta la mitragliatrice da un colpo di mortaio piovuto dal Bardàn. Ma per il resto la SAP si era salvata. Il Ponte della Bestia era venuto giù come stabilito, i crucchi avevano lanciato la controffensiva e in molti punti avevano sfondato. Ma non nelle nostre valli. Il basso monsardino, confinante con la Francia libera, era salvo. E lo era grazie ad Al. Sia lui che il romano avevano ricevuto la medaglia d'oro al valor militare. Tutt'e due le medaglie erano state mandate al comando provinciale.

Son passati quasi vent’anni, da allora. Abbiamo fatto grandi progressi. Abbiamo costruito un mondo diverso. Migliore, di certo. Abbiamo ancora i colori e abbiamo ancora il sorriso. Gli stranieri sono meno stranieri di prima, ma la strada da fare insieme è ancora molta. E se oggi son qui, a ripercorrere questa storia in queste pagine, è perché adesso è il tempo di pagare i nostri debiti.

Mi guardo la mano, che stringe la medaglia, la prima mai data a uno straniero. Per me sarà un onore portarla ai familiari di Al.

A casa loro, adesso, sono gli stranieri ad aver bisogno del nostro aiuto.

Partenza lunedì.

La prima edizione di questo racconto è stata pubblicat in “Lo zar non è morto”, Kipple Officina Libraria, 2020.