Di fantascienza non ne ha mai scritta nemmeno una riga, eppure è considerato, più o meno unanimemente, uno degli ispiratori ufficiali del cyberpunk e di tutta la fantascienza che è arrivata dopo. Parliamo di Thomas Pynchon, classe 1937, newyorchese, uno dei maggiori autori del postmoderno americano, secondo alcuni; scrittore sopravvalutato, secondo altri. Personaggio schivo, che non presenta i propri libri, non va a incontri, non rilascia interviste, e di cui non si sa nemmeno bene che faccia abbia (l'ultima sua immagine pubblica è vecchia di decenni). Sicuramente uno che preferisce il silenzio, come stile di vita e creativo, rispetto al rumore, talvolta sguaiato, del mondo moderno. E che con il suo ultimo romanzo Bleeding Edge, uscito sul mercato americano lo scorso settembre, si è forse avvicinato a quel genere che inconsapevolmente ha contribuito a influenzare.

Protagonista del romanzo è Maxine, detective privata un po' spostata, madre separata di due bambini, che indaga su frodi finanziarie nella New York del 2001, a cavallo dell'11 settembre. È il momento in cui la tecnologia informatica è ancora nella fase 1.0, la Silicon Alley (zona di Manhattan in cui si concentrano le aziende legate a Internet) è ancora in fase di rodaggio, e il mondo non è ancora preda di app e tablet. In tutto questo Maxine si trova a indagare su una web company le cui fonti di finanziamento sembrano sospette, e ben presto viene travolta da una vicenda in cui tutto si fonde, da complotti della CIA e dell'NSA ad attività informatiche nascoste che si materializzano in DeppArcher, una sorta di web profondo, segreto e criptato che nasconde una vera e propria realtà virtuale, in cui tutti i dati e le attività di ciascuno in rete costituiscono un suo doppio, un avatar attraverso cui l'utente è in grado di muoversi in mondi paralleli e distorsioni temporali, e senza nemmeno utilizzare interfacce hardware.

Tra miliardari geek, spacciatori di droga su motoscafi art deco, detective olfattivi ossessionati dal dopobarba di Hitler, manager neoliberisti con problemi di calzature, mafiosi russi, hacker, blogger, cracker, spogliarelliste, Maxine sperimenta le molteplici realtà di DeppArcher: motel ottocenteschi, superstrade fantasma, lande desolate e città di torri frattali. E dopo il crollo delle Torri Gemelle e l'exploit definitivo della realtà virtuale, Maxine e tutti gli utenti di DeepArcher entrano in una sorta di allucinazione collettiva, in cui la virtualità creata al computer irrompe - sanguina, secondo il linguaggio di Pynchon - nel reale, rendendo tutto impossibile da controllare. O forse no.

Come in quasi ogni romanzo di Pynchon, anche in Bleeding Edge la trama sembra più che altro un modo per giustificare l'intreccio di relazioni, personaggi e avvenimenti che costituiscono un affresco globale. Ma è interessante questo volo nel Deep Web, quello che nella nostra "realtà" è accessibile tramite network criptati come Tor. E soprattutto sembra interessante quest'approccio alla realtà virtuale, che ricorda buona parte dell'immaginario descritto dal cyberpunk, a partire da William Gibson per arrivare a Matrix e Akira. Quasi come se Pynchon avesse voluto rendere omaggio al genere che involontariamente ha ispirato, pur fornendone una propria versione allucinata, e come sempre molto, molto incasinata.