Paolo Bertetti e Carlos Scolari, a cura di. Lo sguardo degli angeli: Intorno e oltre Blade Runner

Paolo Bertetti e Carlos Scolari, a cura di. Lo sguardo degli angeli: Intorno e oltre Blade Runner. Torino: Testo & Immagine, 2002. pp. 283, Euro 16,00

di Igina Tattoni

Igina Tattoni è docente di Letterature angloamericane all'Università di Roma  "La Sapienza". Fra le sue numerose pubblicazioni, si è interessata all'ambito fantastico come autrice di saggi su Barthelme, Brockden Brown, Pynchon, Vonnegut e altri, e traduttrice di Washington Irving e Nathaniel Hawthorne.

In questi giorni qualcuno si chiede se la fantascienza abbia ancora ragione di esistere, ora che i deserti rossi di Marte stanno diventando immagini familiari nei nostri teleschermi. Lo sguardo degli angeli, a cura di Paolo Bertetti e Carlos Scolari, sembra confermare, al contrario, che la fantascienza, anche quando si riferisce a testi ormai “vecchi” di qualche decennio, è non solo di grande attualità ma contiene riflessioni fondamentali per la nostra vita — per la nostra sopravvivenza di uomini del nuovo millennio.

Intanto l’idea di un volume che ruota tutto intorno a un testo — che poi sono tre — ed è diviso in tre parti — che poi sono riconducibili ad un unico criterio — è di grande efficacia. A lettura ultimata si ha l’impressione di avere navigato a sufficienza nelle acque di un mare dove si incontrano più o meno armoniosamente i flutti della filmologia, della narratologia e della fantascienza sempre con un occhio rivolto al porto di una riflessione filosofica e/o escatologica, come suggeriscono, forse con qualche ironia, le citazioni bibliche poste all’inizio di ognuna delle tre sezioni in cui è diviso il volume.

La prima sezione, Il Vangelo secondo Deckard: Il film e i film è appunto dedicata all’analisi di quello che Alan J.-J. Cohen definisce un mito della nostra cultura postmoderna: Blade Runner (1982) di Ridley Scott e della sua seconda versione, Blade Runner, the Director’s Cut, del 1992, liberamente tratti dal romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968). Il dibattito su Moderno e Postmoderno la fa da padrone nelle critiche erudite che la compongono. La lettura dei film è intesa come analisi di un mondo interiore che tenta di superare le proprie contraddizioni, dove tutti i personaggi sono sulla soglia di un universo fatto di immagini, copie di immagini e simulacri. Il saggio esaustivo di Cohen insiste su questioni di estetica, struttura narrativa, iconografia da un lato e di alterità radicale e psicoanalisi dall’altro con citazioni che vanno da Lyotard  a Génette a Edipo,  Antonioni, Milton, Blake e Michelangelo per non citare che i più orecchiabili. Silvio Aloisio concentra invece la sua analisi sull’immagine dell’occhio in due testi cruciali, ambedue del 1982, Blade Runner e The Thing di John Carpenter per concludere con un paradosso: se The Thing fa del corpo oscenamente esposto la sua sostanza visiva, attiva però “un’egemonia teorica della coscienza e della non visibilità dello sguardo a scapito della corporeità” (46), mentre in Blade Runner la corporeità della visione è una dimensione centrale ma il lavoro sul corpo è marginale rispetto al primato della scena. Lo sguardo, e non l’occhio, stabilisce in Blade Runner un rapporto più profondo e positivo con l’alterità. Roy Menarini, invece, in La catastrofe come luogo di fantasia: Visibilità, tecnologia e rappresentazione storica fra Blade Runner e Titanic, ci sorprende due volte, prima mettendo a confronto due testi apparentemente tanto distanti tra loro e poi quando — rovesciando le nostre aspettative — considera Blade Runner “come esperienza della modernità” (46) e Titanic “come evento del futuro” (51). Più marcatamente filosofico il saggio di Fabrizio Denunzio, Una vita indignata: Meditazioni sulla rivolta dei replicanti di Blade Runner, che approfondisce il rapporto di amore-odio tra il replicante Roy Batty e il suo demiurgo dottor Tyrell.  Alla luce di Freud e di Hegel  la rivolta di Roy viene spiegata secondo una dinamica Servo-Padrone ma i maggiori interrogativi sono posti sulla base di una “strana e misteriosa affermazione” (60) in cui Dick si dichiara seguace delle idee di Spinoza sulla democrazia. La macchina narrativa di Blade Runner: Dal romanzo al Director’s Cut di Gianni Sibilla e Fenomenologia della visione: Blade Runner e il cinema di Ridley Scott di Marco Bertolino chiudono questa prima parte in chiave squisitamente narratologica, il primo attraverso il confronto  delle due versioni del film, il secondo attraverso uno studio delle dinamiche dello sguardo in alcuni personaggi chiave.

La seconda sezione, Pecore elettriche, agnelli di Dio: Fra Dick e Ridley Scott,  si occupa del confronto tra il testo narrativo e quello filmico. Gian Paolo Caprettini in Il sequestro delle emozioni: Da Philip K. Dick a Blade Runner analizza, partendo da una suggestiva espressione di H. P. Lovecraft, il “carattere prodigioso della anormalità” in qualche modo definito in base a una valutazione della sfera emotiva: “sono dunque le emozioni che consentono la distinzione” tra l’umano e l’androide. Nel lungo esaustivo saggio di Salvatore Proietti, Philip K. Dick, le barriere di BladeRunner e i superuomini che non sanno volare si esamina invece la “dimensione socioculturale del postmoderno” (101), in un’analisi che, passando da W.E.B. Du Bois, Mary Shelley, Isaac Asimov e molti altri, accosta la rivolta degli androidi alla rivolta degli schiavi e vede nell’eterogeneità il carattere dominante di un’opera che narra allo stesso tempo anche i “tentativi diegetici e ideologici” di ricondurre ogni diversità a un’unità rassicurante. Marisa Merlos in Sogni d’immortalità: il mito dell’automa, da Ma gli androidi sognano pecore elettriche? a Blade Runner, partendo da Heidegger (“l’uomo è un essere per la morte”) individua nel mito dell’automa il tema eterno — è proprio il caso di dire - del desiderio di immortalità. Questa sezione si chiude con una nota inedita e a sorpresa che, con sensibilità tutta postmoderna, introduce l’autore — lo stesso Philip K. Dick — nell’opera critica che lo riguarda. Si tratta di uno scambio di lettere tra lo scrittore americano e una quindicenne, Kristin Kummel, che nel gennaio del 1982 aveva scritto alla rivista di cinema Starlog “preoccupata che la visione di Blade Runner potesse essere vietata ai minori”. Inaspettatamente lo scrittore risponde e tra i due inizia uno scambio epistolare che verrà interrotto solo dalla prematura morte di Dick. Questo intermezzo giustamente si intitola “Tempi di magia” e riporta il volume sul terreno più proprio della fantasia—quasi una fiaba del “Gigante e la bambina”.

Dopo questo incantevole intervallo siamo pronti ad affrontare il rush finale: Il Verbo e la Rete: Intertesti in cui il gioco critico si fa ancora più serrato: Come lacrime nella pioggia acida: Transtestualità, semiosi e post modernismo nella Los Angeles del 2019 di Carlos Scolari individua in Blade Runner un “testo-nodo” fondamentale nella cultura degli ultimi anni del secolo scorso e ne analizza i  possibili rimandi testuali e metatestuali, con particolare riferimento alla modernità e alla postmodernità. Paolo Bertetti si concentra invece sulla città in Da Los Angeles a Everytown e ritorno: Figurazioni della città futura. La Los Angeles del 2019 in cui è ambientato Blade Runner racconta la dimensione apocalittica della società futura in cui, come notano anche in altri contributi del volume, ben s’innesta a livello narrativo un intreccio tra science fiction e detective story o noir. I richiami a Hong Kong e all’estremo Oriente sono numerosi e lo stesso slang, il city speak è una commistione di diverse lingue Orientali e Occidentali. Molti gli spunti interessanti nell’analisi di una Los Angeles newyorkizzata che diventa anche simbolo della fine di Los Angeles come città dei sogni—la fine dei sogni e della frontiera mentre “una nuova frontiera si apre sulle colonie extra-mondo”. A partire dalla New York del  citatissimo Metropolis di Fritz Lang, si passano in rassegna le città cinematografiche  più rappresentative degli ultimi anni in una dialettica di luci/ombre, verticalità/orizzontalità che porta ad intravedere “l’inferno nella città degli angeli” del futuro. Domenico Gallo in Avvampando gli angeli caddero: Blade Runner, la fantascienza di Philip K. Dick e il cyberpunk parte dall’assunto che tutta la narrativa fantascientifica di Dick è coerente nell’idea della presenza di un male occulto costituito da esseri artificiali che, disseminandosi nel mondo, lo stanno snaturando, deviandolo dalla retta via. Per lui il postmoderno è la realizzazione più piena di una modernità negativa in cui l’umano ha abbandonato il proprio progetto. Anche se con il postmoderno non è più possibile fare riferimento ad un’ortodossia rimane urgente stabilire un nuovo rapporto con il divino. Paragonando Dick a T.S. Eliot, Gallo propone una riscoperta della religione come immaginario. Carlos Peres Rasetti  in Epistemologia per sbirri sottolinea la presenza, già citata da altri, di una commistione tra fantascienza e detective story in Blade Runner  ed elabora il concetto che, secondo Benjamin, sta all’origine della letteratura poliziesca, che, cioè, l’anonimato delle grandi città protegga il criminale dai suoi persecutori. In un mondo in cui la natura è stata rimpiazzata da prodotti progettati, il compito dello sbirro è di vedere, come accade nei racconti di Poe, ciò che gli altri non riescono a vedere: i segni della condizione artificiale sono presenti negli indizi marginali delle immagini offerte da una percezione superficiale. Daniele Barbieri, infine, in Androidi e detective su carta analizza il rapporto con il fumetto: la nuova età degli eroi del fumetto americano è un’età di replicanti alla ricerca della propria umanità.

Un libro denso, colto, intelligente, compatto che ricorda in parte un esercizio narratologico molto in voga nelle classi dei nostri seminari strutturalisti nell’università della fine degli anni Settanta, dove ogni studente era invitato a ri-raccontare a suo modo gli avvenimenti di un determinato testo. I risultati erano interessanti, a volte ripetitivi. Anche Lo sguardo degli angeli, con i suoi numerosi rimandi a diversi criteri e  piani di lettura sembra ripercorrere la stessa dinamica dei replicanti dei tre testi che prende in esame: ogni livello è, in qualche modo, una replica dell’altro. Dopo aver letto anche l’ottima appendice che ci fornisce, oltre alla bibliografia, una panoramica delle migliori critiche su questa fantastica triade il lettore si trova davvero immerso in una sorta di labirinto di segni e interrogativi che possono essere riassunti—come molti interventi suggeriscono—in una fondamentale coppia di domande: Che cos’è reale?, Che cosa significa essere umani? Ma a mio avviso, volendo rinunciare ad una possibilità positiva (lo happy ending di Blade Runner è stato considerato quasi in tutti gli interventi appiccicaticcio e poco convincente), si rimane intrappolati in un’immaginazione negativa che, in ultima analisi, risulta in una mancanza d’immaginazione. In un mondo di replicanti si rischia davvero di essere sopraffatti e di perdere la capacità di essere autentici—qualunque cosa questa parola voglia dire. Forse, per una volta sarebbe interessante parlare di questo invece che di replicanti. Certo si può sempre dire che essere autentici significa non essere replicanti  Già Henry James nel 1890 aveva posto in “The Real Thing”, con altri termini ma altrettanta incisività, un’analoga domanda, Che significa essere veri artisti? e aveva fornito la stessa risposta indiretta, Essere artisti significa non essere dei modelli di professione. Apparenza/realtà questo è un tema che ha attraversato la letteratura americana sin dai suoi esordi con le lettere di John Smith su Pocahontas, e la sta accompagnando “oltre i confini della realtà” sulle spiagge di Marte. 

 

Igina Tattoni (Università di Roma ‘La Sapienza’)