Quelle sole tre parole gli ferirono la gola. La sorella si affrettò ad una caraffa, gli versò un bicchiere d’acqua, gli inumidì le labbra secche e crepate e insistette che inghiottisse a brevi sorsi:- È sera. Il medico ha detto che starai meglio, dopodomani, e i capi ti aspettano al varco per quel casino alla mensa. -- Quei tre della Teva -, Talib incupì, - che cosa volevano? -

- Niente: una tirata d’orecchi. C’eravamo imboscati nel loro perimetro di sicurezza. -

- Menti: il palmeto non era compreso entro l’aera di atterraggio, è stato il vento a trascinare l’Ophanim. Gli altri atleti in gara, i veicoli di supporto, sono accorsi nell’oasi sorpresi quanto noi. Inoltre vi ho sentito. -

- Chi? -, Samia s’irrigidì.

- Tu, Kantigi, il vecchio e i tirapiedi: sconosciuti importanti, sfanculano Menefer, si spostano in elicottero, dettano legge nella nostra centrale. E vi hanno intimorito circa qualcosa cui nessuno potrebbe credere. -

- Sei ancora sotto choc, Talib. -

Lui le strinse i polsi furioso:

- Tremi. Che cosa è successo la notte scorsa? -

Samia si dimenò, si alzò di scatto da seduta sulla brandina. Talib la afferrò per il caftano e lo scialle: gli restarono fra le dita, con il velo gualcito, ciocche ingrigite dei capelli di lei; le vide inebetito la testa quasi calva.

La sorella scoppiò in un pianto isterico, si rannicchiò ginocchia al petto faccia al muro in un angolo, svenne. Un infermiere irruppe nella stanza, chiamò dal corridoio un collega e trascinarono Samia verso le camere delle donne.

Talib si sollevò sul cuscino:

- Cos’ha? Che le fate? È mia sorella! -, gridò, ricadde privo di forze fra le lenzuola sudate.

L’infermiere più robusto ritornò nella stanza, scappucciò una siringa e una fiala di sedativo, gli infilzò la cefalica. Lui rabbrividì, si sentì stomacare, un liquido brontolio gli colò nelle orecchie. Il viso dell’infermiere gli apparve sfocato:

- Buono tu, rompicoglioni -, gli tolse dal braccio la siringa svuotata.

Talib, indebolito, scivolò nel dormiveglia.

L’orologio digitale incastonato nel comodino brillò nell’oscurità della stanza silenziosa: le 04.00.

Talib era sveglio già da un’ora, inspirò, si sciolse i muscoli indolenziti e riuscì, finalmente, ad alzarsi dalla brandina. Arrancò nelle tenebre fra la tendina, le flebo, gli sgabelli scendiletto e gli armadietti dei farmaci; ogni passo era una fitta alla schiena. Si spogliò del pigiama, sudicio di sudore, e trovò su una seggiola i suoi abiti da lavoro, allacciò gli scarponi.

Cauto aprì la porta, sbirciò nel corridoio: deserto. Si azzardò spalle al muro, discosto le vetriate, a lasciare il reparto maschile ed esplorare le camerate delle donne. Un’infermiera russava su una poltrona di vimini, il tablet con il ruzzle abbandonato sulle ginocchia. Lui la aggirò in punta di piedi, strisciò contro gli stipiti delle stanze: finché, unico su una targhetta di una camera da sei letti, al lumino sull’architrave lesse il nome di Samia.

Entrò. Richiuse la porta e abbassò le tapparelle; si tolse la t-shirt, la ammucchio sotto l’uscio, perché la luce non filtrasse nel corridoio.

Al raggio bianco, spietato del neon, vide la sorella, disidrata, senza capelli, con gli occhi spalancati distesa su una lettiga.

Lui le cadde accanto in ginocchio: Samia era morta. Tratti di pelle, sotto il grembiule di carta, erano secchi come neri di fiamma; le mancavano i denti.

Talib ululò disperato. Subito sentì i passi nel corridoio, i rimproveri scandalizzati e l’armeggiare alla serratura: l’infermiera addormentata ed il medico di turno, scacciacani alla mano, irruppero nella stanza e lo affogarono d’improperi.

Lui si alzò di scatto, si tuffò braccia tese, costrinse a terra il medico e gli tolse la pistola:

- Com’è morta a mia sorella?! -, schiumò, - Che cosa ci nascondete?! -, premette la scacciacani sulla fronte del prigioniero.

L’infermiera si arrese spalle al muro, il dottore sbiancò, balbettò spiegazioni:

- Giuro: non ne ho idea. È un processo degenerativo come indotto da radiazioni; ma si tratta di emissioni sconosciute e un’impossibile alterazione. -

- Spiegati, testa d’uovo: io sono operaio. -

- La morte di sua sorella -, pispigliò l’assistente, - non risponde alle leggi della fisica. -

- Ho voglia di scherzare, stronza, secondo te?! -

Il medico e l’infermiera lo guardarono tetri. L’uomo, si accorse Talib, ripreso il colorito aveva smesso di tremare; l’arma alla testa non sembrava preoccuparlo, una luce più sinistra gli brillava nelle pupille:

- Possiamo solo sperare che non si tratti di epidemia, che restino casi isolati e si smetta di parlarne. -

- Casi isolati? -, lui rabbrividì.

L’infermiera scostò un paravento: dietro la tela, riverso su una barella, Talib riconobbe Kantigi dai monili tribali sulle braccia e attorno al collo; lo trovò carbonizzato con la bocca sdentata, il cranio scarnificato e le rasta sul pavimento.