Uno

L’arcipelago delle Positree, su Amalf IV, contava 14.860 isole, tutte schedate e misurate dall’Ufficio per la Planiformazione. Di quell’immenso gregge di scogli affioranti dall’acqua, soltanto due erano abitati: Saline e la minuscola Picasso.

La prima, con un diametro di otto chilometri e un’altezza dall’acqua di 864 metri, ospitava le baracche con gli uffici degli ingegneri planiformanti, gli alloggi dei tecnici e degli spe­cialisti di prima categoria, oltre alla grande sala mensa che era a disposi­zione di tutto il personale inviato sul pianeta, compresi gli operai addetti alla bonifica dell’isola.

Picasso, con un diametro di appena settecento metri, era la più pic­cola dell’arcipelago, ma possedeva una particolarità che la di­stingueva dalle altre: era nel centro esatto della figura va­gamente ottagonale dell’arcipelago delle Positree che si poteva scorgere con una ricognizione ad alta quota. Inoltre, la sua cima più elevata era un tronco di cono di roccia lavica che raggiungeva quasi i duemila metri.

Lassù, su una specie di piattaforma naturale scavata dal vento e dalle intemperie, erano stati installati il laboratorio mobile di Ender Dubigan e la sottile antenna che gli permetteva di mantenere i contatti con le astronavi di raccordo posizionate in orbita.

Le altre isole che componevano il vastissimo arcipelago (nonché unica conformazione di terre emergenti dalle acque di Amalf IV) erano oggetto di studio da parte degli ingegneri planiformanti e degli esperti in opere xeno­morfe.

Nessuno, infatti, se la sarebbe sentita di giurare sulle origini natu­rali dell’arcipelago.

Scendendo dagli strati più alti dell’atmosfera, le isole appaiono tutte pressappoco ellissoidali e disposte a intervalli regolari, formando uno schema molto simile a una stella a otto punte attraversata da complessi crittogrammi.

Naturalmente poteva trattarsi di una coinci­denza, per quanto incredibile, dovuta all’anomalia planimetrica di Amalf IV, ma gli esploratori che per primi avevano preso contatto con il pianeta non avevano trascurato di far notare come fosse il primo caso di quel genere dopo quasi cento anni di esplorazione in quel settore della galassia.

Per questo motivo, oltre alle squadre di operai e di ingegneri plani­formanti, sull’isola di Picasso, nel centro di quello schema mi­sterioso, Ender Dubigan aveva fatto installare il suo laboratorio da campo. Da molto tempo la razza umana si augurava di trovare tracce di vita in­telligente nello spazio, ed Ender era l’uomo più indicato per studiare l’attendibilità di quell’apparente anomalia.

Soprattutto da quando lo stesso Ender aveva raccolto il segnale empatico che dall’arcipelago delle Positree si diffondeva per alcuni parsec come una leggera ma persistente radiazione di fondo, che gli empatici come lui percepivano con un forte senso di disagio.

Due

Il piccolo Jetcraft non poteva trasportare più di quattro persone, ol­tre alle attrezzature di Ender Dubigan e al serbatoio supplementare per il carburante. Naturalmente, nessuno poteva essere così folle da decidere di spostarsi nell’arcipelago scivolando con il jet sul pelo dell’acqua: la sua estensione era tale che ci sarebbero voluti mesi, prima di riuscire a circumnavigarlo tutto.

Ma Ender Dubigan era un uomo dotato di facoltà eccezionali e poco propenso a fornire una spiegazione alle sue improvvise decisioni.

— Anche con il serbatoio supplementare non potremo visitare più di settanta o ottanta isole — aveva cercato di protestare Kay-Won, lo specialista pi­lota del jetcraft.

Ender si era limitato a guardarlo fisso negli occhi mentre con il dito picchiettava su un punto della carta nautica.

— Tu limitati a portarmi qui — aveva affermato. — Al resto pense­remo dopo.

Kay-Won, lo specialista medico Silvia Waas e Tanitha Bekaram, l’as­sistente personale di Dubigan, si erano chinati sulla carta. Ender aveva indicato una piccola isola a una cinquantina di chilometri da Picasso. Un minuscolo puntino di roccia che non sembrava avere nessuna ri­levanza.

— Merda — si era limitato a mormorare Kay-Won, che come tutti sapeva che era inutile chiedere spiegazioni a Ender Dubigan.

Tre

Il jetcraft sfrecciava sulle acque immobili dello stermi­nato oceano di Amalf IV tenendosi in equilibrio sulle pinne anteriori, che affondavano per non più di venti centimetri nella spuma. A quella velocità avrebbero raggiunto l’isola indicata da Ender in meno di quaranta minuti, anche se avrebbero dovuto compiere un lungo slalom tra al­tre formazioni rocciose, prima di riuscire ad averla dritta di prua.

Lo scenario che si presentava ai loro occhi era indescrivibile, di una bellezza selvaggia e travolgente. Le isole si ergevano dal mare con tratti di scogliere bianche ed erose dal vento, e il lento movimento ondoso vi aveva scavato anfratti e calette in cui l’acqua assorbiva i raggi del sole spandendo riflessi ambrati.