– Bene – fu l’unico commento di Leah.
Non appena ci fummo imbarcati, la nave si lanciò in orbita di trasferimento rapido per Venere. Leah trovò la più piccola delle cabine private e vi si chiuse dentro.
Leah Hamakawa era stata con l’Istituto delle Pleiadi per vent’anni. Vi era entrata da giovane, quando era ancora un’adolescente, molto tempo prima che la incontrassi. Sapevo poco della sua vita prima di allora, se si esclude il fatto che era orfana. L’istituto era l’unica famiglia che avesse mai avuto.
A volte mi pareva che ci fossero due Leah. La prima era timida e infantile, desiderosa di essere amata. L’altra era fredda e professionale, sopportava a malapena di essere toccata e odiava, o forse disprezzava, la gente.
Qualche volta mi chiedevo se non avesse molto sofferto da bambina. Non parlava mai della sua infanzia né dei suoi genitori. Glielo avevo domandato, una volta, e l’unica risposta era stata che faceva tutto parte del passato, lontano nel tempo e nello spazio.
Non ho mai compreso cosa fossi per lei. Qualche volta ho quasi pensato che mi amasse ma che non riuscisse a dirmelo. In altre occasioni era così assente da farmi credere che non vedesse in me nient’altro che un assistente, indistinguibile dagli altri tecnici. A volte mi chiedevo perché si prendesse persino il disturbo di avermi attorno.
Io mi maledivo in silenzio per essere troppo vigliacco da domandarglielo.
Mentre Leah se ne stava rinchiusa, esplorai la nave. Ogni cabina era sferica, con un unico punto di osservazione di forma ottagonale, a doppio spessore, nella parete esterna. Le cabine possedevano ogni lusso immaginabile, addirittura attrezzature igieniche situate in sfere adiacenti più piccole, con docce che spruzzavano vera acqua sul corpo.
Dieci ore dopo la partenza Leah non era ancora uscita. Mi trovai un’altra cabina e andai a dormire.
Dopo due giorni ero in preda alla noia. Avevo smontato tutto quello che poteva essere smontato, studiato come funzionava e poi rimesso a posto come prima. Ogni cosa era in perfette condizioni. Non c’era nulla che dovessi aggiustare.
Sebbene non avessi portato molte cose con me, avevo un ufficio mobile. Contattai un agente librario e ordinai una lezione di storia.
Al principio dell’espansione umana verso la zona esterna, il trasporto spaziale si era rivelato troppo dispendioso e solo governi o corporazioni ricche in maniera oscena potevano permettersi di commerciare nel Sistema Solare. Quando i governi rinunciarono, un manipolo di ricchi ne rilevò le attività. La maggior parte le rivendettero o fecero bancarotta. Alcuni no. Qualcuno rimase in gioco per pura e semplice testardaggine, altri per il fervore di una convinzione ideologica nell’espansione umana e altri ancora per il calcolo utilitaristico che un’incalcolabile ricchezza fosse disponibile nello spazio, se solo si fosse riuscito a sfruttarla. Quando si raggiunse il livello tecnologico necessario, le venti famiglie possedevano tutto.
La frontiera avanzò poco alla volta, e poté così cominciare l’esodo. Al principio per migliaia di persone: seguaci della fede Baha’i, che fuggivano le persecuzioni religiose; dittatori in disgrazia e i loro sicofanti, che cercavano di scappare portandosi dietro i tesori accumulati; signori della droga e i loro gregari, che volevano mettere i loro profitti al sicuro dai governi o dai rivali. Poi l’esodo diventò di milioni: una variopinta umanità che lasciava la Terra per iniziare una nuova vita nello spazio. Scissionisti della Chiesa di Giovanni il Vendicatore, che abbandonavano la rigida congregazione originaria in cerca del proprio destino; dissidenti della Repubblica Popolare del Malawi in cerca di libertà; comunità vegetariane dell’Alaska alla ricerca di una nuova frontiera; Maya in cerca della ricostituzione di una patria; libertari in cerca del paradiso del libero mercato; comunisti alla ricerca di un posto al di fuori della storia dove forgiare l’uomo nuovo predetto dal comunismo. Alcuni morirono subito, altri poco a poco, ma ne arrivarono sempre di più, una fiumana senza fine di dissidenti, scontenti e ribelli, gente che avrebbe sottoscritto di tutto pur di cominciare una nuova vita. Pochi sopravvissero. Pochi prosperarono. Pochi progredirono.
E ognuno di loro aveva ipotecato con le venti famiglie persino le palle per fare la traversata.
Neppure una colonia su cento riuscì a ripagare il debito, ma gli eredi dei venti diventarono più ricchi di intere nazioni, più ricchi degli imperi.
La leggendaria guerra tra l’impero industriale Nordwald e la famiglia Gruenbaum per le risorse del sistema solare ebbe termine quando Patricia Gruenbaum liquidò la sua quota maggioritaria del capitale azionario di famiglia. Udo Nordwald, tiranno e patriarca dell’impero industriale, diventato adesso Nordwald-Gruenbaum, non aveva in progetto di cedere o anche solo di assottigliare le sue sudate ricchezze. Continuò a consolidare il proprio potere col matrimonio del suo unico figlio, un ragazzo non ancora maggiorenne, con la scaltra e calcolatrice erede dei la Jolla. Svaniti gli avversari più pericolosi, Udo si ritirò dalla periferia del sistema solare, lasciando che altri si occupassero dell’espansione verso l’esterno.
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