Passo da una tegola all’altra, scavalco un colmo e ridiscendo sulle natiche dall’altra parte, fino alla grondaia.

Sotto: dieci piani, colpi di clacson, il traffico dell’ora di punta.

Milano dai tetti, a quest’ora, è una poesia di luce. Il sole, un tuorlo d’uovo quasi perfetto; le parabole degli impianti satellitari, una distesa di cucchiaini pronti a mangiarselo.

Fumo sfilacciato all’orizzonte.

Odore di gas combusto che sale dalle strade.

Sono sempre puntuale a salire, per non perdermi lo spettacolo della città che apparecchia per la sera: le falde dei tetti qui intorno, i Navigli, la torre Velasca, la Madonnina dorata del Duomo…

E per lui.

È sempre lì, dietro alla finestra di un anonimo sesto piano. Chino sulla tastiera di un portatile. Una tazza che presumo vuota gli fa compagnia da ore sotto l’abatjour. È uno scrittore il mio uomo, vive per me. Mi coccola e mi riempie di doni.

D’un tratto mi compare tra le mani un coltellaccio da cucina. Lo giro e lo rigiro, lo soppeso nel palmo, la lama una scheggia di luce. Saranno almeno dieci/dodici centimetri, freddi come acqua del rubinetto.

Ho un luogo segreto dove ripongo tutti i suoi regali un attimo dopo che mi compaiono tra le dita: un pertugio tra due tegole, un anfratto nascosto appena sotto la linea di colmo del tetto. Mi giro con circospezione e gattono lungo i coppi fino quasi in cima. È lì che tengo la mia piccola armeria. Un revolver, un tirapugni, uno Zippo, una manciata di cartucce calibro .22, due appiccicosi rotoli di banconote.

È lo scrittore a darmeli e presumo che debba tenerli da conto: per me hanno un grande valore. Ma non so che farmene.

Non sono un delinquente io. Né un ladro o un assassino.

Sono l’uomo dei tetti e del tuorlo d’uovo. Delle parabole come cucchiaini.

Il tizio non guarda mai fuori della finestra. Forse dovrebbe, mi ritrovo a pensare sempre. Capirebbe meglio di me, del personaggio che non sono.

Faccio rotolare di sotto il cadavere di un piccione e mi volto verso est. È uscito anche Michel, seduto a cavalcioni di un lucernario. Ci siamo parlati una sola volta e abbiamo scambiato un paio di oggetti; mi ha detto che è un cuoco. O almeno è questo che vorrebbe essere… se non ricevesse dallo scrittore altro che insulsi seghetti, tronchesini e arnesi da scasso.

Forse un coltello da cucina gli farebbe comodo.

Più indietro, appollaiato su un cornicione, c’è Severian. Toelettatore di cani. Ora riciclato a gatti e piccioni. È un tipo schivo, non ha mai voluto dividere con gli altri il segreto dei suoi doni.

Scuoto la testa. Il sole sta per tramontare.

Il pessimo scrittore porta la tazza alle labbra, trangugia un sorso, poi abbassa il monitor del portatile e, come ogni sera all’ora di cena, accende la tivù. Un attimo dopo è alla finestra per abbassare la tapparella.

Non uno sguardo fuori, niente.

Sto ancora qualche minuto accovacciato sul tetto, i talloni puntellati sulle tegole, le braccia intorno alle ginocchia. Presto sarà troppo buio per arrischiare la via del ritorno. Michel mi saluta con un cenno della mano.

“Un coltello. E tu?” gli rispondo.

Alza in silenzio l’ennesimo mazzo di passepartout.

Dietro di lui guardo Severian rientrare con le mani a coppa che stringono un piccione.

“Domani!” butto lì, “…domani avrai il miglior cappello da chef che si può trovare in città”.

Ma lo so, stanotte, fino all’alba, gli toccherà ripulire appartamenti…