Uno dei più interessanti film presentati alla 62esima Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia è stato The Wild Blue Yonder del registra Werner Herzog, per la prima volta alle prese con un soggetto di ispirazione fantascientifica.

L’interesse principale della pellicola, oltre che la meravigliosa poeticità delle immagini e della colona sonora, consiste nel presentare sotto forma di documentario (ossia una forma cinematografica normalmente deputata a “documentare” la realtà) quella che invece è un’opera di pura invenzione, un po’ come fece il grande Orson Welles con F for Fake.

Il film, si presenta come una sorta di pamphlet sullo stato attuale del pianeta e sulle sue possibili evoluzioni. In questo periodo di magra per la produzione puramente “science fiction” (aldilà dei film baracconi sui supereroi) questo film va certamente citato e promosso al grande pubblico.

Werner Herzog (pseudonimo di W.H. Stipetic) è nato a Monaco di Baviera il 5 settembre 1942, ha all’attivo numerosi film di generi diversi tra cui Aguirre, furore di Dio (1972), Nosferatu (1978), Fitzcarraldo (1982), Apocalisse nel deserto (1992), Il piccolo Dieter vuole volare (1997) e Kinski, il mio nemico più caro (1999).

Questo suo ultimo lavoro è una sapiente e ironica denuncia sul destino del nostro pianeta, sulle condizioni ambientali e sul futuro che ci attende, visti dagli occhi di un alieno disincantato che ha cercato per anni di integrarsi (è necessario dire inutilmente?) con la razza umana.

Un alieno (un Brad Dourif in grande spolvero, a livelli della sua interpretazione di Qualcuno volò sul il nido del cuculo) proveniente da un pianeta sommerso dall’acqua - The Wild Blue Yonder - è reduce dalla missione fallimentare di integrare la propria comunità con i terrestri (i centri commerciali made in Alien Nation non hanno avuto grande successo…).

L’alieno racconta di un gruppo di astronauti in orbita attorno alla Terra impossibilitati a farvi ritorno poiché il nostro pianeta è stato reso inabitabile da una serie di cataclismi apocalittici: una guerra mondiale, la diffusione di un virus sconosciuto (Sars? Influenza aviaria?…), le radiazioni dovute alla scomparsa dello strato di ozono nell’atmosfera e molte altre.

Alla ricerca di un luogo dove fare rotta, l’equipaggio manda in esplorazione la sonda Galileo, nella speranza di scovare là fuori un nuovo eden dal quale ricominciare ma i dati che questa riporta sono definitivi come un colpo di mannaia: non esiste un pianeta abitabile, non esiste il nuovo eden, non vi è più speranza.

La loro missione non può che trasformarsi in una missione suicida.

Una vicenda tragica ma raccontata con ironia e disincanto, frutto di quel fenomeno dello “straniamento” che si crea nell’osservare le proprie cose attraverso gli occhi di un estraneo.

Dopo l'ironia, però, rimane la sensazione della drammaticità del tutto che ci circonda. Werner Herzog fa centro ancora una volta, sintetizzando, in un'opera che diverte nonostante mantenga i ritmi del documentario, la preoccupazione per i nostri destini e la speranza.

La speranza che prima o poi potremo imparare ad ascoltare le parole di chi, come Herzog, è in grado di vedere il futuro.