"Esattamente all'inizio degli anni '50, per breve tempo, la capitale morale della science fiction mondiale si spostò dalle grandi città americane, come Los Angeles e New York, fin sulle rive della Senna. Per una breve stagione Parigi diventò il centro più vivace e innovativo di quella che ancora veniva considerata una nuova forma letteraria". Esordisce così Malaguti nella sua nota introduttiva a questo singolare romanzo, che ebbe una prima versione in Italia su Urania nel lontano 1956, e già allora destò interesse per la sua "diversità". Ma quale fu il rapporto fra Parigi e la science fiction made in Usa? Il fatto è che una parte più effervescente del mondo culturale francese dell'epoca scoprì improvvisamente la fantascienza: questa divenne pertanto di gran moda nei cenacoli culturali - d'altronde in Francia era sempre viva l'eredità di Jules Verne - e molti letterati, giornalisti, uomini di cultura, vollero cimentarsi nel genere, guardando ad esso senza false accondiscendenze. Basti pensare a un paio di nomi: il poliedrico e talentuoso Boris Vian, ed il notevolissimo Jacques Sternberg... Ma i nomi sono tanti.

Inoltre una situazione del genere stimolò un folto numero di autori ad avvicinarsi alla fantascienza seguendo la tradizione più popolare del pulp: ne nacque una vera e propria scuola nazionale che ormai, dopo mezzo secolo, vanta una lunga storia e numerosi nomi di rilevo. In Francia, insomma, non si frapposero gli intoppi, i cavilli e i preconcetti ("siamo un popolo di poeti, di navigatori e di santi ma non, enfaticamente non, di scrittori di fantascienza") che in Italia invece condizionarono il libero sviluppo di una science fiction di casa nostra: con conseguenze che si scontano ancora oggi; e nonostante che ad essa si fossero accostati anche grossi calibri quali Primo Levi, Libero Bigiaretti, Inìsero Cremaschi, Gilda Musa, lo stesso Calvino, Buzzati, Luce d'Eramo, Sergio Solmi, e vari altri.

Fra coloro che negli anni Cinquanta, in Francia, furono tentati dalla sf c'era uno scrittore e saggista, Claude Yelnick: il suo romanzo L'uomo, questa malattia resta un po' un unicum - per atmosfera e tematica - nel genere (oltre a rappresentare la sola opera narrativa lunga dell'autore).

Come giustamente rileva Malaguti, con Yelnick siamo in una fantascienza reinventata (un po' come accade per tutta la sf francese), che nel caso specifico "è a metà strada tra la classica storia del soprannaturale alla Guy de Maupassant, la moderna speculazione sulle dimensioni e sui vari piani di esistenza, e la pièce teatrale" (il soprannaturale è richiamato non tanto dagli eventi, quanto da certe atmosfere). Di cosa tratta il libro, è facilmente detto. Esso si presenta in forma di diario, vergato da Bonneville, guardiano di un faro al largo delle coste francesi. In quella torre piantata in mezzo al mare, egli sta per trascorrere - in compagnia del collega Jérôme - i quindici giorni del turno dal 16 al 31 dicembre. Si scatena una tempesta, il faro resta totalmente isolato. Nelle lunghe, interminabili attese scandite dalle manovre per alimentare la lanterna del faro (galleggiante su uno strato di mercurio per poter ruotare adeguatamente), i due parlano, o tacciono. Sono di estrazione culturale diversa, Bonneville è di buona famiglia e i casi della vita lo hanno portato lì, Jérôme invece ha l'anima rude ma schietta del contadino. Jèrôme trascorre le sue quindicine, essenzialmente costruendo velieri in bottiglia.

La storia si dipana senza scosse, con lentezza, penetrando nei pensieri e nei desideri dei due... ma è evidente che è solo un'attesa: qualcosa cova, la calma è apparente. E, senza preavviso, iniziano strane vibrazioni. Vibra tutto il faro, vibrano gli oggetti, con un suono cupo. La vibrazione sale: entra in risonanza con i suoni gravi dell'armonica di Jérôme, che emette una lunga, interminabile nota. I due non sanno cosa stia accadendo. Il mare là fuori è sconvolto, le comunicazioni con la terraferma sono sospese. Una nave norvegese finisce con naufragare sugli scogli nei pressi del faro. Muoiono una quindicina di marinai, nonostante che i due si prodighino a rischio della loro stessa vita; uno solo, stremato, riesce ad essere tratto in salvo. Si chiama Olav, parla inglese, Bonneville è in grado di capirlo. Olav ha alcune intuizioni sullo sviluppo della vibrazione: essa ha mostrato di salire, dice Olav, e probabilmente salirà ancora. Infatti vengono gradualmente interessati tutti i suoi dell'armonica, fino ai più acuti: poi, il silenzio. Ma poco dopo, i tre si trovano immersi in un calore che li fa sudare; è iniziata la radiazione infrarossa. E cosi' via...

A poco a poco, un'idea si fa strada in Olav e in Bonneville. Qualcuno sta tentando di comunicare con loro, ma finora non si è trovata una via di intesa. Olav ha un'idea: con mezzi di fortuna, usando il suo orologio fosforescente e fondendo i soldatini di piombo del reticente Jérôme, costruisce un rudimentale strumento capace di interferire in modo "intelligente" con le vibrazioni-radiazioni in arrivo... E qualcosa succede. Una risposta, una presenza: sfere iridescenti di pura energia si materalizzano in risposta agli impulsi lanciati da Olav. Finché dopo tentativi si riuscirà a trovare un modo per comunicare, e la verità verrà lentamente fuori.

Le vibrazioni non sono che le naturali manifestazioni degli Altri. Sulla Terra - apprendono i tre uomini - l'umanità condivide il mondo con gli Altri: "La Creazione è doppia: ciò che pesa e ciò che vibra. Voi pesate. Noi vibriamo. In principio era l'Energia. L'Energia fu, è, sarà divisa in due: ciò che pesa e voi, ciò che vibra e noi. Entità diverse ma parallele." Ma cosa cercano dai noi gli Altri? Semplice: anche l'uomo (ciò che pesa) da alcuni anni produce e intensifica radiazioni, e questo è un male per gli Altri, un intralcio, una vera malattia per coloro che vibrano. Occorre - è questo il messaggio-ultimatum lanciato dalle entità d'energia - che l'uomo smetta di contrastare il mondo degli Altri.

Come si risolverà la questione, non è il caso di anticipare. Intanto gli eventi riaprono con forza in Bonneville la memoria di un suo passato doloroso e rimosso anni prima, concernente una ragazza scomparsa e - forse - un primo contatto proprio con gli Altri. Vissuto personale e catastrofe incombente si fondono in un'atmosfera che continua a dipanarsi drammatica ma ovattata, quasi in uno stato di sogno consapevole. Il finale si presterà a una interpretazione che - benché solo abbozzata - oggi suona attualissima nella sua ambiguità: noi, malattia della natura, spargiamo tecnologie inconsapevoli dei loro effetti; per altro verso la tecnologia medesima può prospettare a noi stessi una sopravvivenza in nuovi modi, forse in forme impensabili.

Un'opera indubbiamente fuori degli schemi canonici correnti, originale nelle sue trovate (le creature di energia non sono mai state particolarmente numerose e riuscite, in sf); dotata d'un fascinoso gusto (per noi rètro) circa le realizzazioni tecnologiche di Olav costruite in casa con elementi di fortuna; con grandi speculazioni fisiche e metafisiche; con sentimenti personali; e soprattutto con la sua narrazione pacata, ricca d'atmosfera e poi di tensione verso la rivelazione finale... Insomma una storia di fantascienza diversa e d'altri tempi valida ancora oggi: non è poco.

Conclude il volume una documentata carrellata di Mario Tucci sulla sf francese finora tradotta in Italia.