E che cosa amerò se non ciò che non conosco? -- Giorgio de Chirico
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. -- William Shakespeare
Il sole era un bottone d’argento cucito sul bavero orientale di un cielo sbiancato dall’arsura.Tempo da mal di testa, lo avrebbero definito da quelle parti, ma stava per cambiare. Si sarebbero aggrappati, come meglio potevano, alla speranza di quel cambiamento.

L’inquinamento crescente era riuscito a cambiare il cielo e le persone. Tutto era sbiadito. Gli oggetti e gli esseri viventi avevano perso profondità, come se chi guardasse quel mondo si fosse improvvisamente coperto un occhio con una mano.

La gente vagava per le strade, mezze liquefatte dal caldo opprimente, apparentemente senza meta. Girovagavano a caso per la città, ubriacati dalla solitudine che li consumava dentro come una legione di tarli in un mobile liberty.

Nessuno più voleva restare a casa, l’animale sociale insito in ogni uomo reclamava la sua razione quotidiana di contatti fraterni. Ma queste relazioni non si concretizzavano mai. Ormai ognuno viveva nel suo personale guscio, una bolla sospesa in un oceano di paura.

Le massime aggregazioni fattibili erano di due persone in una stessa abitazione, marito e moglie. In casi rarissimi tre componenti, con l’aggiunta dell’unico figlio consentito dalla legge. Un evento sporadico a causa della radiazione solare e della contaminazione atmosferica: i maschi avevano perso la loro capacità di procreazione. Il governo mondiale non accettava nemmeno la possibilità d’adozioni o di fecondazioni artificiali. Ogni essere vivente in più sarebbe stato un problema per il vecchio globo, già troppo sovraccarico, lanciato verso un processo irreversibile quanto fatale.

Vassily era uno dei tanti rimasti sterili. Nessuna possibilità per lui d’avere bambini. In nessun modo. I medici non erano riusciti a spiegare perché, ma la realtà superava qualsiasi diagnosi puntuale.

Sua moglie, Ranya, gli rinfacciava continuamente la sua invalidità. Lo amava molto, ma se fosse potuta tornare indietro avrebbe sposato ‘uno con i testicoli taurini’, come ripeteva sempre alla madre. E Vassily lo sapeva, e soffriva.

Anche lui desiderava tanto un figlio, e continuava a sperare, come se il solo fatto di desiderarlo potesse guarire la sua malattia silente.

La mattina si recava al lavoro, presso il laboratorio di Bio-cyber ricerche di Minsk, con quel pensiero nella testa, e ritornava la sera a casa, sempre con quella sentenza ricorrente che rimbalzava nella sua scatola cranica come una mosca chiusa in un barattolo di vetro: ‘io non sono un toro e non lo sarò mai!’.

Ma lui fantasticava sempre di poter diventare padre, del resto lavorava in un laboratorio che si occupava di sogni. Sì, avevano progettato e costruito una macchina che interpretasse i sogni degli uomini. In un’era dove la realtà era troppo grigia per accettarla senza opportuni filtri distorcenti, l’essere umano cercava consolazione in un dispositivo materializzatore di utopie. Non funzionò mai, anche se, casualmente, si accorsero che sulle menti dei delfini aveva effetto.

Riuscivano a materializzare le visioni oniriche dei cetacei rinchiusi nella vasca del laboratorio. Se sognavano una palla colorata, nella stanza di incubazione della macchina si formava una palla colorata. Del tutto simile all’oggetto onirico, ma costituito da molecole di tipo particolare. Una specie di fotocopia eseguita su una carta di materiale diverso dall’originale.

Così le loro stanze erano riempite da quegli oggetti bizzarri: birilli, cerchi toroidali, coralli, conchiglie, pesci di tutte le dimensioni e, a volte, di razze inesistenti, barche e delfini. Delfini che avevano la peculiarità di non poter sognare a loro volta. Di norma venivano immessi in una stanza di annichilazione, creata apposta per disfarsi delle ‘fotocopie’ un po’ troppo ingombranti.

Le ricerche andarono avanti, grazie ai finanziamenti governativi, con l’obiettivo di riuscire a leggere e riprodurre i sogni umani. Finché non successe quello che non sarebbe mai dovuto accadere.

Mai.

Vassily era appoggiato con i gomiti sulla balaustra e guardava i delfini giocare nella piscina. Con il camice bianco che si gonfiava per il vento della sera, sembrava una bandiera sulla prua di una nave. Il cielo era striato di nuvole sottili bianche, come se un pittore impressionista avesse solo iniziato a dare qualche pennellata di bianco perla su una tela turchese.

Il cetaceo con la macchia bianca sul musetto si chiamava Fred e l’altro, con la pinna caudale graffiata da profondi solchi, Barney. Lo scienziato si trovava bene con Fred; aveva instaurato con lui una specie di dialogo in cui confessava tutte le sue angosce. Spesso pensava che se Fred avesse intuito che stavano violando la sua intimità più profonda, rubandogli i sogni come dei ladri di opere d’arte in una chiesa, probabilmente in uno dei tanti bagni insieme lo avrebbe ucciso.

Vassily prese un’aringa dal secchio e la porse verso il delfino, che in quel momento lo stava osservando con la testa fuori dal pelo dell’acqua.

- Ciao bello! Come ti va la vita, Fred?

Fred rispose con uno dei tre suoni caratteristici di quegli animali, che sembrava una risatina stridente. Poi, con uno scatto di reni, prese il pesciolino al volo.

- Ah, bene, sono felice per te. Io? Come al solito. Vorrei tanto avere un bambino… ehm, scusa, un cucciolo d’uomo, ma non riesco a farlo, niente da fare. Non ne sono capace. - Gli occhi gli diventarono lucidi.

Il delfino sembrò capire quello che stava dicendo Vassily: lo guardò per alcuni secondi, poi assunse un espressione più seria, serrando la bocca, e infine annuì con il capo.

Lo scienziato percepì qualcosa di straniante in quel dialogo senza parole e si ritirò indietro come preso da vertigini. Sentiva che Fred in quel momento aveva provato empatia verso di lui.

Ma che pensiero cretino, pensò Vassily sorridendo, è vero che questi animali sono molto intelligenti, forse anche più di noi, ma in quanto a capire il nostro linguaggio… certe volte il mio cervello si cortocircuita, il dolore fa pensare delle cose che, in condizioni normali, un uomo razionale giudicherebbe pura fantascienza.

Prima di ritornare in laboratorio Vassily si rigirò verso la vasca. Il delfino Fred lo stava ancora fissando. Distolse lo sguardo e si incamminò, con le mani nelle tasche, verso il viottolo alberato.

Il cuore gli pulsava forte. Qualcosa, nel remoto dei suoi pensieri subcoscienti, gli stava parlando.