Domenica 4 Febbraio, nella Cappella Farnese del Palazzo Comunale di Piazza Maggiore, a Bologna, si è tenuta la prima edizione degli Stati generali del genere. La giornata di confronto, nata da un’idea di Massimo Carlotto e Patrick Fogli, sviluppa le tematiche dei precedenti Stati generali dell’immaginazione, tenutisi lo scorso anno nella stessa location. Le relatrici e i relatori ad avvicendarsi sul podio per i loro dodici minuti di esposizione sono stati Marco Bettini, Valerio Calzolaio, Massimo Carlotto, Andrea Cotti, Patrick Fogli, Otto Gabos, Cecilia Lavopa, Carlo Lucarelli, Paolo Panzacchi, Antonio Paolacci e Paola Ronco, Sara Vallefuoco, Valerio Varesi, Alessandro Vietti, con un intervento scritto di Antonella Cilento. L’incontro nasce dal desiderio di creare un confronto vero e aperto fra chi ama le storie e vuole capire il momento che viviamo, il ruolo nella nostra società, il rapporto con i lettori. Inoltre, viene sottolineato nel post di Facebook che lancia l’iniziativa: genere vuol dire tutto quello che è genere, non stiamo parlando solo di noir. Vogliamo che sia chiaro: non stiamo parlando solo di noir.

Nonostante le premesse, però, forse per le modalità di diffusione che permeano i social (le famose bolle che restringono il nostro campo di azione, limitano la portata delle nostre comunicazioni, fanno sì che certe iniziative non riescano a sfondare il muro delle persone che già fanno parte delle nostre conoscenze – analogiche o digitali), la partecipazione di persone e personalità affini al fantastico – le cui candidature sono comunque state presentate in numero superiore a uno – è stata molto limitata e dei quindici interventi previsti, solo quello dello scrittore genovese Alessandro Vietti ha affrontato il tema della fantascienza come strumento di analisi della realtà, auspicando una fuga dal recinto delle etichette e dalla ghetizzazione autoimposta di cui spesso soffrono le persone che leggono e che scrivono letteratura speculativa. Di ghetto si parla anche nel crime, domandandosi se e quanto le etichette permettano al genere di sopravvivere e quanto, invece, ne soffochino il futuro; e se a più riprese si è parlato di tornare a raccontare gli ultimi, quegli ultimi diventano – in un’oziosa domenica di sole, all’ultimo piano di un palazzo storico – oggetto e non soggetto della discussione, così come condannata in absentia sembra essere la categoria delle lettrici e dei lettori, con l’accusa di non leggere i libri giusti, i generi giusti. Critica faziosa: come ha fatto notare con un intervento dal pubblico l’autore Vargas, mai come in questo periodo la fruizione di testi scritti è così pervasiva nella nostra vita e se le persone che leggono si allontanano da certi generi e certi autori, le motivazioni andrebbero forse ricercate in quelle forme e in quelle storie, piuttosto che provare ad addossare la colpa alla lettrice o al lettore che – frase ripetuta nel corso della giornata – deve essere educato a fruire letteratura e non, per esempio, romance (genere citato più volte, sempre senza cognizione di causa, mostrando tutta l’ignoranza e il classismo di chi ancora trova efficace screditare un genere per elevare il proprio). Grande assente dal dialogo, inoltre, è stata la presa di coscienza delle dinamiche che ruotano intorno alle nuove generazioni: scrivere libri oggi e non tenere in considerazione il lavoro di promozione legato a Instagram, TikTok – scrivere crime e ignorare (o fingere di) che una fetta consistente della Gen Z consuma true crime in modo vorace – è una base ottima per portare avanti considerazioni polverose mentre il mondo, fuori dalla sala, fuori da Facebook, fuori dal recinto, continua a leggere quello che vuole.