Il nostro cervello potrebbe essere prossimo al raggiungimento dei suoi limiti naturali. Se da un lato lo straordinario accumularsi di conoscenze sulla natura, l’universo, la meccanica, la società in cui viviamo danno l’impressione di un aumento impressionante della quantità di cose che sappiamo o che potremmo sapere, dall’altra l’essere umano medio non necessariamente riesce a stare al passo con queste conoscenze. E sempre più abbiamo il sospetto, anche solo uscendo per strada, che dopotutto i nostri simili non stiano diventando affatto più intelligenti. Anzi. Un sospetto che condivide anche la comunità scientifica, che sta cercando di capire se l’umanità è destinata a diventare più intelligente o più stupida nel corso dei prossimi secoli e (auspicabilmente) millenni.

Dall’inizio del secolo scorso a oggi, il quoziente intellettivo medio della popolazione umana è aumentato a un ritmo costante di 3 punti al decennio ossia 0,3 punti l’anno. La scoperta fu opera di un ricercatore americano, James R. Flynn, negli anni Settanta, e fu confermata dalle analisi statistiche dei decenni successivi. Il cosiddetto “effetto Flynn” sembra dunque essere la dimostrazione di un aumento delle nostre capacità intellettive con l’andare degli anni. In media, i bambini di oggi hanno un QI di 10 punti più elevato dei loro genitori. La cosa che però ha sorpreso gli scienziati è che questa crescita di 0,3 punti l’anno è costante e non mostra né rallentamenti né accelerazioni.

Tanta regolarità appare sospetta. Per capire il perché, basta comprendere come funziona un test di misurazione del QI. Tutti ne abbiamo svolti alcuni e sappiamo che riguardano sequenze numeriche, ricerca di sinonimi di vocaboli poco comuni e analogie tra concetti astratti. Ebbene, mentre nelle prime due categorie i risultati dei test non sono migliorati nel tempo, nell’ultimo caso sì.

Sembra che gli esseri umani di oggi siano più bravi a ragionare per concetti astrattii. La nostra società è diventata meno legata a realtà concrete: non dobbiamo cacciare animali per mangiarceli, li andiamo a comprare già pronti al supermarket. Eppure sappiamo che la carne che mangiamo non cresce nei supermarket: questa conoscenza dipende dalla nostra capacità di ragione per astrazioni. Se non possedessimo queste capacità, sostengono oggi i ricercatori, non saremmo in grado di gestire il mondo moderno. A partire dalla rivoluzione industriale, la nostra vita ha avuto a che fare con concetti sempre meno concreti: la finanza, l’informatica, l’elettromagnetismo, la teoria della relatività, ma anche cose come sfiorare un pulsante su uno schermo touchscreen.

Analogamente, sta aumentando la nostra velocità di risposta alle domande di un test QI. Il nostro cervello sta diventando più veloce perché siamo costantemente bombardati da stimoli che necessitano di risposte rapidissime. Basti pensare a quando guidiamo in una città trafficata dove magari gli autisti non sono troppo disciplinati: una distrazione di meno di un secondo potrebbe farci andare a sbattere contro un altro veicolo. All’aumentare della velocità dei computer aumenta la rapidità della nostra risposta di reazione, e allo stesso tempo migliora il nostro multitasking, che ci consente di portare avanti diverse attività contestualmente. Una persona di sessant’anni oggi avrebbe serie difficoltà a giocare a videogiochi molto complessi come quelli attuali, che invece un ragazzino di tredici anni affronta senza troppe difficoltà. I videogames hanno un ruolo molto importante nello stimolare la capacità di astrazione e la velocità di reazione delle giovani generazioni, sia perché si ambientano in scenari slegati dalla realtà concreta dove magari esistono regole diverse, che quindi impongono all’utente l’uso di categorie analogiche, sia perché richiedono azioni molto veloci (per esempio una partita di calcio su un simulatore).

Tutto ciò però potrebbe non tradursi in un reale vantaggio evolutivo. Anzi, come dimostrerebbe una ricerca pubblicata su Trends in Genetics, la specie umana è oggi meno intelligente di quanto fosse decine di migliaia di anni fa, quando i nostri antenati cacciavano, raccoglievano e iniziavano i primi esperimenti di agricoltura. Lo sviluppo dell’intelligenza a livello evolutivo ha permesso all’essere umano di primeggiare sui suoi predatori e pian piano di diffondersi in tutto il mondo: ci ha portati a diventare da scimmie a esseri che parlano, costruiscono e utilizzano strumenti per migliorare la loro vita. Ma da allora non abbiamo acquisito ulteriori vantaggi evolutivi, anzi: la maggior parte degli esseri umani oggi non sopravvivrebbe in un contesto come quello dell’Africa dei Grandi Laghi, dove la nostra specie ha iniziato a evolversi. Secondo Gerald Crabtree, ricercatore alla Stanford University e autore dell’articolo, un cacciatore-raccoglitore che non trovava una giusta soluzione per procacciarsi il cibo e ottenere un riparo probabilmente moriva, insieme alla sua progenie, laddove un moderno funzionario di Wall Street che facesse simili errori riceverebbe un bonus e diventerebbe più attraente come potenziale partner. Certo, chiarisce Crabtree, «la selezione estrema è una cosa del passato», però non sembra che la nostra capacità di giocare a scacchi o scrivere una sinfonia ci abbia resi più abili dei nostri antenatiii.

A fare eco a queste preoccupazioni è la dichiarazione di Dean Keith Simonton, psicologo all’Università della California a Davis, pubblicata sulle pagine della rivista Natureiii. Secondo lo studioso, esperto di intelligenza umana, la genialità scientifica è destinata presto a scomparire. Simonton mette le mani avanti: la scienza è ben lungi dall’essere arrivata al capolinea. Anzi. Stiamo vivendo una fase di straordinario sviluppo della ricerca, ma a ben guardare non riusciamo a trovare geni solitari che con le loro intuizioni improvvise, i loro “eureka”, fanno effettivamente avanzare la scienza. Ho dedicato più di trent’anni allo studio del genio scientifico, il più alto livello della creatività nella scienza, spiega il professor Simonton. «Il genio scientifico offre idee che sono originali, utili e sorprendenti. Questi lampi momentanei non sono mere estensioni di un’esperienza specifica già preesistente: il genio scientifico concepisce un’esperienza nuova»iv. Quando Albert Einstein se venne su con la sua teoria della relatività, non si stava limitando a perfezionare una teoria già definita, ma ne stava creando una ex-novo, completamente diversa da qualsiasi cosa fosse mai stata pensata prima.

Il genio scientifico gioca un ruolo decisivo in due modi diversi, spiega Simonton: può portare a fondare nuove discipline, come Galileo, che con il suo telescopio battezzò l’astronomia moderna; o può rivoluzionare discipline dominanti, come la teoria della selezione naturale di Darwin che trasformò completamente lo studio della biologia, della zoologia, della geologia e di tutte quelle aree della scienza in cui si dava per scontato che nulla fosse cambiato da quando Dio aveva creato l’universo. Dal mio punto di vista, né la creazione di nuove discipline né la rivoluzione di quelle già esistenti è possibile per gli scienziati contemporanei, afferma lo studioso. Gli avanzamenti futuri poggeranno probabilmente su ciò che è già noto piuttosto di alterare le fondamenta stesse della conoscenza. Uno dei più grandi risultati scientifici recenti è stata la scoperta del bosone di Higgs… la cui esistenza era stata predetta decenni fa.

Come mai tutto ciò? La scienza è andata sempre più specializzandosi, cosicché le nuove scoperte sono possibili solo mettendo insieme scienziati che conoscono alcuni dettagli che, insieme, possono produrre un quadro più completo. Non è più pensabile che un giovane impiegato possa, in un paio d’anni, pubblicare da solo quattro articoli scientifici rivoluzionari come fece Albert Einstein. Oggi le pubblicazioni scientifiche riportano anche decine di autori diversi. Questo non vuol dire che i ricercatori di oggi siano meno intelligenti. I ricercatori di oggi, anzi, sono più preparati di quelli della scorsa generazione. «È difficile credere che Laplace o James Maxwell potessero padroneggiare la formidabile matematica della teoria delle superstringhe, per fare un esempio». Tuttavia, quello che manca, sostiene Simonton, non è l’intelligenza, ma il genio, che è una cosa diversa. Un’inquietante conclusione, questa, che getta un’ombra sinistra sugli sforzi straordinari che la scienza sta compiendo in questi anni e pone un serio dilemma: esistono limiti a ciò che l’essere umano può fare?

Note

i Tim Folger, Sempre più intelligenti?, “Le Scienze,” 2 novembre 2012.

ii Tia Ghose, Are Humans Becoming Less Intelligent?, “LiveScience”, 12 novembre 2012.

iii Dean Keith Simonton, After Einstein: Scientific genius is extinct, “Nature”, 31 gennaio 2013.

iv Il genio scientifico si è estinto?, “ANSA”, 31 gennaio 2013.