Dialoghi controculturali

Antieroismo e individualismo in Philip K. Dick

Attraverso un'analisi diacronica, il saggio prende in considerazione l'opera di Philip K. Dick come intertesto, nella sua rete di relazione con i discorsi, le mitologie e i presupposti della controcultura degli anni Sessanta, interpretando il suo portato narrativo, in termini bachtiniani, come meditazione dialogica su di essa. Il radicamento di Dick nella corrente dei movimenti oppositivi statunitensi del suo tempo si costruisce attraverso una science fiction "anti-essenzialista" in cui l'etica ha il primato su ogni metafisica e il misticismo è uno strumento tra gli altri per interpretare l'umano. Dick, comunque, presenta le tracce di quel mondo ideologico a partire da una diversa "struttura del sentire", un punto di vista presentato anche in termini di classe che ne rifiuta alcuni degli aspetti dominanti, legati a concetti di individualismo radicale.

di Salvatore Proietti

Salvatore Proietti insegna Letterature anglo-americane all'Università della Calabria, ed è direttore di Anarres. Fra i suoi lavori più recenti, la cura di Henry David Thoreau, Dizionario portatile di ecologia (Donzelli 2017), e saggi su Samuel R. Delany (Leviathan, A Journal of Melville Studies, 2013) e sui conflitti razziali in Philip K. Dick (in Umanesimo e rivolta in Blade Runner, a cura di Luigi Cimmino et al., Rubbettino 2015), e una panoramica storica della SF italiana (in Science Fiction Studies, 2015), oltre alla riedizione della traduzione di Paul Di Filippo, La trilogia steampunk (Mondadori 2018). 

 And above the sky a moon
or an astronaut smiles on television
(Jack Spicer) 
The poem says the bombs of America went off […]
The poem says you only think you’re alive […]
The poem says JUNK IS KING
(Philip Lamantia)

Contro-dialoghi

Philip K. Dick, molto prima di Fredric Jameson, conosceva benissimo le difficoltà di periodizzare gli anni Sessanta. Scrittura e autobiografia si fondono in un frammento dell’Esegesi, datato “circa 1978”:1

The spirit in us prevented first Nixon & then Ford from aiding S. Vietnam. So (if my reasoning is correct) we of the counterculture prevented WWIII. We hamstrung the U.S. military machine. This counterculture did not arise ex nihilo […]. What were its origins? Consider the 1950s. The concept of “unamerican” held power. I was involved in fighting that; the spirit (counterculture) of the 60s evolved successfully out of the (basically) losing efforts by us “progressives” of the 1950s—we who signed the Stockholm Peace Proposal, & the “Save the Rosenbergs” etc.—losing, desperate efforts. Very unpopular & very unsupported. Berkeley was one of our few centers; this takes me back to eye in the sky etc. […]
I was a vocal & active part of the 60s’ counterculture (cf. “Faith of…” to tears). What I am saying is that because of being with Nancy I, who was by physical age part of the 50s entered the youth culture of the 60s & even into the 70s. (Pursuit 174)
Radicando la sua adesione alla controcultura nei movimenti pacifisti e antimilitaristi degli anni Cinquanta (come avrebbe ribadito in Radio Free Albemuth), Dick sottolinea e privilegia l’aspetto politico delle opposizioni degli anni Sessanta, piuttosto che quello esistenziale-hippie.2 La sua storia personale come figlio di migranti della Depressione, unita alla sua profonda consapevolezza dei conflitti di classe, rende agevole ipotizzare che nelle sue opere si sia espressa quella che con Raymond Williams (128 ff.) si potrebbe chiamare la “struttura del sentire” di una parte della società statunitense, allo stesso tempo interna ed esterna a quei movimenti.

Pur non mirando a una lettura primariamente politica, ci si concentrerà sull’opera di Dick come conversazione scettica con i discorsi, le mitologie e i presupposti della controcultura degli anni Sessanta: un dialogo fra due intertesti.

Che la scrittura di Dick sia interpretabile al meglio come rete intertestuale è riconosciuto nella pratica seguita dalla maggioranza dei critici, a partire da Darko Suvin (Artifice) e da molti partecipanti al numero speciale di Science-Fiction Studies nel 1975, fino a Jameson (Archaeologies 363-84) e agli studi complessivi di (fra gli altri) Robinson, Butler, Palmer, Rossi. A parte le valutazioni di singole opere, si concorda che in tutte le sue narrazioni coesiste, in proporzioni differenti, una molteplicità di ricorrenti icone, tropi, personaggi-tipo, temi e sottotemi, luoghi reali e immaginari. Questo è, fra l’altro, uno degli aspetti che rendono Dick uno degli innovatori formali nella fantascienza del suo tempo: laddove, nella tradizione wellsiana, il mainstream fantascientifico sceglieva di costruire narrazioni intorno a un singolo elemento straniante o novum (dal gadget tecnologico al sistema sociale alieno o umano), i novum di Dick e della SF d’oggi sono multipli (Csicsery-Ronay 70-72), intrinsecamente complessi e irriducibili a interpretazioni allegoriche uno-a-uno. Ma per quanto vasta sia l’articolazione, è possibile rintracciare le connessioni fra mondi reali e possibili, è possibile e doveroso storicizzare la satira, il misticismo, l’alienità.

Vorrei mostrare come molti di questi elementi possano essere ri-storicizzati con riferimento al milieu controculturale di cui Dick era “una parte”. Seguendo il suggerimento di Freedman (38 sgg.), leggerei il suo intertesto narrativo, in termini bachtiniani, come meditazione dialogica sulla controcultura. La pluralità delle voci narrative che plasma i suoi romanzi è stata spesso sottolineata come la sua massima firma stilistica, insieme al vertiginoso proliferare dei neologismi. Aggiungerei che molti di questi topoi intertestuali danno voce a frammenti del discorso sociale del suo tempo, talvolta permettendo lo scontro tra interpretazioni conflittuali all’interno dello stesso topos (compreso, in VALIS, quello metanarrativo dell’autore stesso).

In Bachtin, la polifonia è una strategia che, di norma, si esprime nelle voci dei singoli personaggi che operano come “coscienze indipendenti e disgiunte” non coincidenti con “la voce dell’autore” (Dostoevskij 13). A complicare il modello, a renderlo diverso da un principio d’ordine (sia pur “democraticamente” plurimo), è il fatto che a sua volta raramente ciascun discorso è monologico, ma è potenzialmente investito della pluralità di discorsi che storicamente si esprime attraverso la lingua del romanziere. Le voci romanzesche, dunque, sono in proporzione alla loro ricchezza voci non individuali, sempre anche veicoli di “enunciazion[i] altrui” (241). In questo atteggiamento estetico non è quasi mai possibile la semplificazione dell’identificazione tra un personaggio e la voce autoriale; al contrario, fra di loro si frappongono diverse “gradazioni” di “distanza”, per cui in un personaggio possono emergere “varie forme di discorso altrui, nascosto, seminascosto, diffuso” (Bachtin, L’autore e l’eroe 311).

È questo aspetto a essere particolarmente pertinente all’opera di Dick, le cui polifonie – che lo dimostrano attento lettore dei classici modernisti – sono tutt’altro che armoniose. Così, la mia lettura non vorrà essere esaustiva della loro portata, perché disarmonie e contraddizioni sono, nel caso di Dick, indici di complessità e di fascino letterario. Davanti alla sua deliberata scarsa sistematicità, piuttosto, affermerei che la ricerca di questi frammenti eteroglotti, dialogizzati, possa offrire una chiave per comprendere il suo scetticismo “aperto”.

Per dirla in una formula, i romanzi di Dick combinano un doppio rifiuto: il rifiuto dei modelli della società Usa del secondo dopoguerra, e il rifiuto delle opzioni privilegiate dal discorso oppositivo di quei decenni, ovvero il lamento intellettuale per la perduta inner-direction proto-capitalista e il ritorno a un primitivismo “naturale” di tipo precapitalistico, a un’idealizzata condizione di innocenza incontaminata dalla società e dalla tecnologia. Il saggio cercherà di passare in rassegna – in ordine grosso modo cronologico – i segnali ideologici e retorici dei movimenti oppositivi statunitensi, così come vengono riutilizzati, ricontestualizzati e dialogizzati nei suoi romanzi.

Fantascienze della teoria

Con alcuni testi controculturali, le assonanze sono sorprendenti. Verso l’inizio di Revolution for the Hell of It (1968), il leader Yippie Abbie Hoffman descrive una fantasia su Eichmann, uomo trasformatosi in un essere “machine-like”, che “lives by the rules”. Come un automa, Eichmann ripete a se stesso i dettami del suo ruolo di burocrate: “My God was a pink memo, he stutters” (5). Piuttosto chiaramente, Hoffman legge in lui il prototipo dell’organization-man, disumanizzato e disumanizzante, banalità del male nazista che incarna l’America corporate contro cui rivolge la sua maschera di rivoluzionario.

Due pagine prima, Hoffman aveva scritto che “[o]nce one has experienced LSD, existential revolution” e l’impulso alla “action” sovvertono “the intellectual game-playing of the individual in society”. Come risultato, “[o]ne learns reality is a subjective experience. It exists in my head. I am the Revolution” (3). Hoffman conclude il suo appello all’azione esistenziale con la famosa litania “Do your thing” (3-4). Da un lato, il parallelo fra società Usa e regime nazista; dall’altro, la scelta del liberatorio, emersoniano idios kosmos (come altro chiamarlo?) dell’individuo autosufficiente come punto fermo per l’opposizione alla performance nel gioco (un termine dispregiativo anche per Timothy Leary: cfr. Experience 13) della vita quotidiana socializzata.

Questa divertente ricerca di echi, risonanze e dissonanze con gli universi narrativi di Dick potrebbe proseguire, e così sarà. Quanto al libro di Hoffman: Dick è presente, eppure no. Dalla Svastica sul sole abbiamo imparato a rilevare tracce di nazismo nel profondo dell’America contemporanea, e ovviamente il color-code dei messaggi inviati da Dio (o da intelligenze artificiali divino-equivalenti) è il rosa. Però, in VALIS Zebra dirige i suoi segnali verso Horselover Fat e Phil Dick, tutt’altro che analoghi di Eichmann. Ancora più cruciale, in Hoffman non esiste alcuna etica della responsabilità: “Revolution for the hell of it? Why not? It’s all a bunch of phony words anyway” (3). No, assolutamente no. Parole, segnali e messaggi avevano la massima importanza per Philip K. Dick, così come – nonostante il potere dei mondi soggettivi – l’aveva la realtà, “that which, when you stop believing in it, does not go away” (Shifting 261).

Lo scenario di Hoffman è parte di ciò che Doug Rossinow ha chiamato “politica dell’autenticità”, che secondo i casi poteva mettere in evidenza l’individualismo oppure il separatismo comunitario. Nel libro-manifesto di Theodore Roszak The Making of a Counterculture (1968) il nemico principale è il potere “invisibile” (111) della “tecnocrazia”, in cui sia l’alienazione dell’operaio sia quella dell’impiegato appaiono complete e irreversibili. A essere gioiosamente venduta non è soltanto la forza lavoro (che non riguarda più il lavoro non specializzato della catena di montaggio, ma una forma di sapere tecnico e pianificato che appare corresponsabile con il management) ma anche, attraverso il consumo, l’intera personalità. Però adesso sta emergendo “a radical rejection of science and technological values” (ripetutamente associati con la cultura nazista) “close to the center of our society”, nel nome dei “non-intellective powers” (51). L’antipsichiatria di Laing, le esperienze psichedeliche, il misticismo, sono tutte sfaccettature liberatorie della ricerca di una “underlying vision of reality” (81) che va recuperata, in una spinta sciamanica mirata a risacralizzare e rimitologizzare un mondo solo temporaneamente assoggettato dal pernicioso homo faber.

L’approccio di Roszak estremizza le analisi sull’alienazione contenute nell’Uomo a una dimensione di Marcuse, e ricapitola tutte quelle opere chiave delle scienze sociali che (da Mechanization Takes Command di Siegfried Giedion e La tecnica di Jacques Ellul, passando per I persuasori occulti di Vance Packard fino a The Greening of America di Charles Reich) ritraggono la condizione contemporanea per mezzo di scenari distopici di controllo e disciplina in chiave huxleyano-orwelliana. A riprova di un immaginario fantascientifico ben radicato nel cuore della teoria socio-politica sia accademica sia popolare, una sorta di proto-cyborg (l’uomo con un giroscopio nel cervello) è il protagonista della contemporanea condizione umana other-directed nella Folla solitaria di Riesman.

D’altra parte molti intellettuali (allora non meno di ora) sentono il bisogno di esorcizzare le fonti di quel repertorio. Dwight Macdonald, il massimo arbitro del gusto nell’ambito del nuovo consenso liberal-progressista della Guerra Fredda, articola le sue influenti analisi della letteratura di massa in termini di contaminazione e infezione (Ross 43 sgg.), e il suo contributo a una famosa antologia critica sulla Mass Culture – in cui pochi sollevano dubbi sulla possibilità che la cultura popolare potesse essere altro che uno strumento di manipolazione – è a dir poco schietto: “There are theoretical reasons why Mass Culture is not and can never be any good”, per la sua capacità di trasformare individuo e comunità in una collettività “nonumana” (Macdonald 69).

Pochi anni dopo, negli intertesti controculturali le vie di uscita potevano essere sia l’individualismo radicale sia il misticismo comunitario – e palesavano continuità non inferiori alle rotture. Così, la “Consciousness III” di Charles Reich è un anelito e un appello a una condizione in cui “the individual self is the only true reality” che “returns to the earlier America”, e in cui “The first commandment is: thou shalt not do violence to thyself. […] It is a crime to be alienated from oneself, to be a divided or schizophrenic being, to defer meaning to the future” (242). Specularmente, i Merry Pranksters di Kesey, descritti in The Electric Kool-Aid Acid Test di Tom Wolfe, postulavano una fusione scatenata dal contatto con un livello ontologico superiore. La fusione, soprattutto, è un evento che scavalca completamente il principio di volizione: “Suddenly! – All-in-one! – flowing together, I into It, and It into Me, and in that flow I perceive a power, so near and so clear, that the whole world is blind to” (114). Nel “flusso” immersivo viene condiviso un potere destinato a pochi, che nella sua spontaneità esclude i rischi di un’adesione conscia.

La soluzione individualista l’opzione principale nelle satire distopiche delle “nuove mappe dell’inferno” degli anni Cinquanta (dal finale “di frontiera” in The Space Merchants di Pohl & Kornbluth al ripiego sulle autorità letterarie highbrow in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury), e raggiunge il dissenso dei decenni seguenti in distopie cinematografiche quali THX1138 e Zardoz. Fuori dalla SF, si potrebbe tracciare una corrispondente filiazione a partire da Kerouac e dai Beat3 fino a One Flew over the Cuckoo’s Nest dello stesso Kesey e a Easy Rider di Dennis Hopper. Quella comunitaria è la soluzione più tipicamente “hippie”. Per alcuni, i figli della classe media (bianca) sono nulla meno di una nuova specie, un nuovo balzo evolutivo, e il misticismo si unisce a inquietanti fantasie darwiniane, in cui romanzi della SF anni Cinquanta acquisiscono nuova popolarità, come Childhood’s End di Clarke e The Chrysalids di John Wyndham. Si tratta di una varietà di testi che va da Stranger in a Strange Land di Heinlein a The Politics of Ecstasy di Timothy Leary, passando per dischi come Crown of Creation and Blows Against the Empire dei Jefferson Airplane/Starship, e plasmando molta New Wave. Di fronte all’istituzione totale, ogni lotta è un’illusione: non si può essere “contro”, ma solo farsi da parte, drop out e identificarsi nei modelli dell’“innocenza”: paradossalmente, diventare innocenti. Le parole chiave dunque sono: l’infanzia, l’irrazionale, le droghe, il primitivismo. La società tecnologica ha allontanato l’umanità dalla grande armonia cosmica; se solo riuscissimo a tornare indietro finchè siamo ancora in tempo, potremmo sperare in una metamorfosi spirituale in grado di riportarci in contatto con il grande flusso della natura e di tutte le essenze irriducibili alla volontà di manipolazione della ragione umana. Dal rifiuto di una società disumanizzata dall’egemonia della ragione alla ricerca di un’innocenza intrinsecamente portatrice di valori alternativi: la natura, le società “primitive”, il viaggio, l’inconscio. La società non capitalista e non tecnologica, in realtà, è una communitas precapitalista e pretecnologica: nella perfetta formulazione di Leo Marx (291-314), una “pastorale della Nuova Sinistra”.

L’insoddisfazione con lo stato di cose presenti conduce i protagonisti di Dick a interrogarsi su quanto sia al di sotto o al di sopra del mondo fenomenico. Difficile dire che la sua narrativa non sia affascinata dalla psichedelia4 (cfr. Rouiller 124-50, e il completo elenco delle sostanze in Butler) e dal misticismo: però l’esito di tutti i tentativi di trovare il senso dei rapporti umani nell’“assoluto” (comunque definito)  è, ripetutamente, la frustrazione. Ovunque in Dick, le leggi naturali e fisiche sono estranee all’etica, e l’evoluzione e la biologia rivelano soltanto la ridotta distanza che separa l’umano dalla giungla, mentre il vuoto cosmico dell’entropia  incombe al fondo di ogni metafisica. E nella SF anti-essenzialista di Dick, all’etica non si rinuncia mai.

 L’etica dell’antieroe

Il rifiuto della consolazione passatista è affermato con nettezza in The Android and the Human: la società primitiva tendeva “to animate its environment” e la visione scientifica del mondo può aver reificato la natura e le persone; ma il mondo contemporaneo ha ormai superato quello stadio. In questo preannuncio di postumanità, non c’è posto per le mitologie dell’autentico:

our environment, and I mean our man-made world of machines, artificial constructs, computers, electronic systems, interlinking homeostatic components--all of this is in fact beginning more and more to posses what the earnest psychologists fear the primitive feels in his environment: animation. In a very real sense our environment is becoming alive, or at least quasi-alive, and in a way specifically and fundamentally analogous to ourselves. (Shifting 184)

Negli anni Trenta, in uno dei classici letterari del dissenso di sinistra, The Grapes of Wrath di Steinbeck, la superiorità morale del contadino sul lavoratore industriale veniva interpretata in termini biologici. Il secondo, incarnato nel trattorista divenuto tutt’uno con la macchina che guida, era definito un “robot” (anche se ora noi l’avremmo chiamato cyborg), divenuto così intimamente complice con il potere da autorizzare l’autore a negargli qualunque potenziale oppositivo: “The man sitting in the iron seat did not look like a man; gloved, goggled, rubber dust mask over nose and mouth, he was a part of the monster, a robot in the seat” (37).

Ma l’ideale di Dick è diverso, e la posta in gioco è etica. Nello stesso saggio, l’opposizione tra umanità e inumanità non equivale a quella tra naturalità biologica e costruzione artificiale: il discrimine è il “sentimento”, e in questo senso “there is a certain parallel between what I call the ‘android personality’ and the schizoid. Both have a mechanical, reflex quality” (Shifting 201).

L’alienazione della società tecnologica può essere ed è disumanizzante, ma non perchè questa ha irrimediabilmente perduto il contatto con l’autentico. Piuttosto lo è perché, nella misura in cui depriva del libero arbitrio, tende a far regredire il soggetto a una condizione “naturale” in cui nessuna scelta etica è concepibile: ogni visione dell’innocenza come essenza incorrotta dell’umano è una mistificazione. Come scrive Dick in Man, Android, and Machine del 1975 (e come aveva scritto, vent’anni prima, in Human Is, uno dei migliori apologhi sul razzismo di tutta la SF), fra umano e inumano “there’s no difference in essence, but a difference in behavior” (211). Costrutti artificiali come il Lincoln di We Can Build You, o i carretti nel finale di Now Wait for Last Year, sono incommensurabilmente più umani di persone come Rachael in Do Androids Dream, Pris in Build, o di entità almeno parzialmente umane come Hoppy in Bloodmoney o lo stesso Palmer Eldritch (in seguito il saggio aggiunge all’elenco Ubik e il personaggio di Jory, 226):

A human being without the proper empathy or feeling is the same as an android built so as to lack it, either by design or mistake. We mean, basically, someone who does not care about the fate that his fellow living creature fall victim to; he stands detached, a spectator, acting out by his indifference John Donne’s dictum that “No man is an island,” but giving the theorem a twist. That which is a mental or moral island is not a man. (211-12)

La distinzione, aggiunge Dick, è uno strumento cruciale nel “nostro mondo reale” in cui “[o]ne day we will have millions of hybrid entities that have a foot in both worlds at once” (212). Per noi, come per gli “half-lifers” di Ubik, il contatto con la “absolute reality” è necessario allo scopo di articolare quella distinzione, nel senso che “our basic matrix through which we encounter the universe, must break down and then utterly collapse” (218). Dick fa riferimento alla “Overmind di Arthur Clarke” (219), ma in Childhood’s End si tratta di un’esperienza che permette ai potenziali superumani di sintonizzarsi con la legge universale e abbandonare la Terra al suo destino vestigiale: rileggendo (dialogizzando) come passaggio distruttivo questo momento narrativo che tanto fascino aveva esercitato su diversi portavoce controculturali, Dick segue un’agenda molto diversa. Laddove individualismo radicale e separatismo pastorale condividono un atteggiamento distintamente anti-sociale, Dick concede al personaggio un ruolo affermativo nella misura in cui si muove – o meglio, di norma, brancola – verso la socialità e l’integrazione, per quanto alto sia il costo da pagare.

I protagonisti di Dick non possono e non devono sfuggire al destino dei loro simili, per poterne diventare rappresentanti in morality play che pongono al centro questioni di potere e sentimento. L’inversione ideologica dell’individualismo hippie di Reich è totale nello sterminato repertorio di antieroi. Come dice Do Androids Dream of Electric Sheep?, il destino del personaggio positivo di Dick è tutt’altro che predicato sulla sua capacità di elevarsi al di sopra degli altri:

There is no salvation. You will be required to do wrong no matter where you go. It is the basic condition of life, to be required to violate your own identity. At some time, every living creature must do so. It is the ultimate shadow, the defeat of creation; this is the curse at work, the curse that feeds on all life. Everywhere in the universe. (135)

Quasi tutti (o forse tutti) i protagonisti di Dick sono contrassegnati dall’inadeguatezza,  l’opposto di eroi autosufficienti. Nel caso di Ubik, l’infinita lotta del personaggio, dal nome rivelatore di Joe Chip, contro una società comicamente e grottescamente oppressiva, che letteralizza l’alienazione nella subordinazione agli oggetti del quotidiano (“I have never been sued by a door. But I guess I  can live through it”; 25), permette a Dick una strategia per reimmaginare una critica politico-economica e addirittura un impulso di rivolta, in una situazione di totale impotenza:

One of these days, [… p]eople like me will rise up and overthrow you, and the end of tyranny by the homeostatic machine will have arrived. The day of human values and compassion and simple warmth will return, and when that happens someone like myself who has gone through an ordeal and who genuinely needs hot coffee to pick him up and keep him functioning when he has to function will get the hot coffee whether he happens to have a poscred available or not. (75)

Con il loro atteggiamento assurdo, al limite del ridicolo, gli antieroi di Dick affrontano un modello socio-politico che è riuscito a espandersi su ogni aspetto del reale (compreso l’“umano”). Gli umani sono tali precisamente nella misura in cui un detentore del potere li ritiene degni di manipolazione, e può fidarsi della loro disponibilità a manipolare altri.

È per questo che – ripetutamente – è importante la capacità di scegliere, legata alla scoperta che ogni illusione ( “dominante” o “alternativa”) è una mistificazione: l’unico ordine che il mondo può sperare di raggiungere.

Gli anni Cinquanta

Già nei romanzi degli anni Cinquanta5 l’uscita dal mondo non è un’opzione. In Solar Lottery (1955), è lo stesso “M-Game” – la lotteria che governa il mondo, la sovrastruttura (o forse sarebbe meglio dire, in un Dick proto-althusserianamente attento alle questioni della produzione del consenso, l’apparato) che sostiene un sistema che unisce megacorporation e servitù medievale – a descrivere e a giustificare se stesso in termini di fuoriuscita dalla rat race: “The theory […] was a kind of stoic withdrawal, a non-participation in the aimless swirl in which people struggled” (20). L’opzione drop-out, il mito della frontiera spaziale dei “Prestoniti”, si rivela priva di significato. Al contrario, distintamente solidale verso i ceti operai (22), il leader del gruppo di opposizione le cui discussioni mostrano chiare eco del Thoreau della disobbedienza civile (147-8) è precisamente un organization man dell’industria tecnologica, “electronics repairman and human being with a conscience” (20). Questo vale ancora di più per il protagonista Ted Benteley, biochimico da poco licenziato. Per Benteley, però, l’obiettivo non è il potere ma l’autodeterminazione (“I have the power of life and death over myself”, 179). Pochi anni dopo, nel più autoriflessivo e cinico The Gameplayers of Titan, nella partita truccata si può solo mirare a essere bari migliori.

In The Man Who Japed (1956), l’isola giapponese in cui un gruppo separatista di intellettuali commercia libri “unMorec” (Joyce, Hemingway), equiparati alla pornografia, sembra una cupa risposta a Fahrenheit 451. Quei “real books” saranno senz’altro “about something” (64), ma il gruppo è virtualmente impotente fin quando il protagonista Allen Purcell convince i due eremiti a portare le loro conoscenze davanti agli schermi tv. E il potere distopico della “Moral Reclamation” ha istituito un luogo, la “Mental Health Resort”, ufficialmente deputato a garantire ai dissenzienti una valvola di sicurezza (“like the frontier”, 53), in cui agli insoddisfatti è concesso di godere un poco di quella “old Protestant frugality” (54) che evidentemente bramano. Sempre già cooptati, umanesimo classico e immersione nella natura sono incapaci di offrire alternative. Ancora una volta, il protagonista proviene dall’interno della “[r]at race” (è Dick a usare il termine, 27). Nel finale, la sua swiftiana “japery” non è seguita dalla fuga individuale: insieme alla moglie, Purcell si arrende alle autorità in una pubblica assunzione di responsabilità.

Al centro di Eye in the Sky (1957), troviamo una delle prime critiche del mito della telepatia: l’idea che esperire in maniera diretta e non mediata il punto di vista degli altri possa cancellare i conflitti, fino a un addio all’identità individuale.6 Un idios kosmos dopo l’altro, hanno la forza di emergere solo i punti di vista di quattro persone che hanno interiorizzato il sistema di potere, nella versione che Richard Hofstadter chiamava “stile paranoico”. Il disoccupato, la donna, il nero e il bambino non hanno diritto a un “fantasy-world” tutto per loro. L’eteroglossia di Dick parla anche attraverso i silenzi. L’unica soluzione affermativa, la classica soluzione “pratica” di Dick (Fitting), apparterrà a un’alleanza che li coinvolge nella costruzione della piccola azienda hi-fi di Jack Hamilton – una soluzione tutt’altro che antitecnologica o precapitalistica. Anche tra gli alieni (da Time-Slip a Clans e Galactic Pot-Healer) si trovano varianti del proverbiale piccolo “riparatore” indipendente. È lecito chiedersi se il finale di Eye non stia aprendo un ennesimo mondo di fantasia (Nati): però il romanzo non mette mai in dubbio la sua maggiore desiderabilità rispetto agli altri, e al koinos kosmos a cui danno voce i quattro mondi. Inoltre, il titolo riecheggia la canzone IWW di Joe Hill “Pie in the Sky”,7 e potrebbe autorizzare una lettura da roman-à-clef in termini di rapporti di potere. Qui come altrove in Dick, quando si tratta di scelte etiche la mancanza di un fondamento “naturale” non è il parametro decisivo.

Nell’ultimo romanzo del decennio, il protagonista di Time Out of Joint (1959), non potrebbe essere sin dall’inizio più chiaro. Ragle Gumm non può permettersi di chiamarsi fuori: “If I drop out […] I’d lose everything I’ve won” (10). Per quanto metanarrativa figura d’artista coinvolta nel tragico gioco di potere della simulazione e della guerra, a muovere Gumm sono i legami con i vicini, che lo portano a non sentirsi mai superiore a coloro che, come Bill Black, cercano “to appear regimented, part of some colossal machine” (13).

 

Nel flusso, controcorrente

Nel 1962, The Man in the High Castle riconosceva il sorgere, nell’America di Dick, di una nuova generazione di dissenzienti: i coniugi Kasoura sono “new young people, […] the hope of the world” (10). E la SF amata (nel romanzo come negli Usa “reali”) da quella generazione è una minaccia per le autorità, che porta il gerarca nazista Reiss a rimuginare: “Amazing the power of fiction, even cheap popular fiction, to evoke” (95), approvandone la messa al bando. Presentando la fantascienza come un pericolo per il potere, invece che un suo strumento, Dick va contro il senso comune degli arbitri del gusto che avevano lanciato l’anatema contro la mass culture. Ma la sua agenda metanarrativa (o meta-fantascientifica, come Carlo Pagetti sosteneva già all’inizio degli anni Settanta) non si ferma qui. Il finale porta Juliana Frink a scoprire che Hawthorne Abendsen, il cui romanzo SF The Grasshopper Lies Heavy è diventato un’icona dell’opposizione, e vive una vita comune in una comune casa dei sobborghi: “So you gave up the High Castle and moved back into town” (186). Nella nuova America di Dick, l’intellettuale all’opposizione non ha più bisogno di alti castelli o torri d’avorio, e non ha la necessità di elevarsi al di sopra della letteratura “popolare” e della vita quotidiana.

D’altra parte, il richiamo a un livello superiore è il marchio dei nazisti. Sono loro che con più forza bramano l’“autenticità” (Evans), a partire dalla loro infinita fascinazione per il modernariato americano. Come, nel cap. 3, dice l’agente tedesco Baynes nel suo monologo interiore, la loro “visione” è “cosmica” e “astratta”: “They see through the here, the now, into the vast black deep beyond, the unchanging. […] And they – these madmen – respond to the granite, the dust, the longing of the inanimate. They want to aid Natur” (34). Quel richiamo non può offrire alcun intrinseco fondamento morale: “il male”, dice fra sé la sua controparte giapponese Tagomi, è “an ingredient in us. In the world” (74). L’epifania di Tagomi riguarda l’impossibilità di un mondo “ideale” in cui “morality is easy because cognition is easy. Where one can do right with no effort because he can detect the obvious” (181). Riscrivendo la parabola di Huck Finn, l’azione antischiavista nel nome del sentimento e della sympathy, entrambi faranno la cosa giusta contribuendo a salvare l’operaio ebreo Frink, forse a caro prezzo, scegliendo lo sforzo cognitivo e morale, in direzione contraria al flusso sovrapersonale.

Dal romanzo-nel-romanzo di High Castle in poi, Dick è coerente nella presentazione di una cultura globale dominata dal capitalismo Usa e dalle sue retoriche. Martian Time-Slip (1964) ruota intorno alla metafora della (nelle parole del riparatore di congegni elettronici Jack Bohlen) “authentic frontier which the habitable parts of Mars were patently not” (21), e comprende una sparatoria nel deserto, a cui assistono “indiani” con archi e frecce. Il suo antagonista Arnie Kott interpreta lo scenario marziano come una lotta darwiniana nella “the frugal, puritanical atmosphere of People’s China” (20), in un “luogo” che “weeds out the fit from the unfit” (63), e in cui “people”, dice Leo, “have to be more inner-directed than back home” (121). Anche secondo l’ambiguo Zitte, Marte è il luogo dove è possibile “live the American way of life, instead of just talking about it” (96). Nessuna salvezza può invece giungere dai marziani Bleekmen, metafore allo stesso tempo di nativi (a “waning race,” 36) e neri (schiavi nella dimensione domestica e nelle miniere, chiamati “niggers” da Kott). La loro presenza non suscita alcuna speranza rousseauiana su una dimensione precedente l’homo faber: i marziani si stanno estinguendo perchè hanno perduto l’abilità tecnica che li aveva messi in grado di costruire i canali (37), e i poteri psichici non li aiutano molto. Il futuro risiede nella capacità dell’insider di costruire un’alleanza con il bambino autistico Manfred e i Bleekmen contro Arnie. Questi, a sua volta, è l’unico a idealizzare la vita mentale di Manfred, ritenendo che sia “like fairyland … all beautiful and pure and innocent” (127). È proprio Jack a comprendere: “And people talk about mental illness as an escape! He shuddered. It was no escape; it was a narrowing, a contracting of life into, at last, a mouldering, dark tomb, a place where nothing came and went; a place of total death” (138). Le proiezioni di Manfred sono visioni di morte e entropia, finestre che si affacciano sulla dimensione onnipervasiva che chiama “gubble” e “gubbish” (141, 149, 157).

Così come, negli stessi anni, Dick teorizzava l’idios kosmos come una sorta di fase pre-edipica, e l’incapacità di fare i conti con il koinos kosmos e il reale come centro della schizofrenia (Shifting 175-76), Jack percepisce il mondo di fantasia di Manfred come rifugio dalla realtà, ricerca di una protezione assoluta. Il flusso sovrafenomenico e l’io onnipotente sono la medesima illusione:

Now I can see what psychosis is: the utter alienation of perception from the objects of the outside world, especially the objects that matter: the warmhearted people there. And what takes their place? A dreadful preoccupation with – the ebb and flow of one’s own self. […] It is the stopping of time. The end of experience, of anything now. Once the person becomes psychotic, nothing ever happens to him again. […]
A coagulated self, fixed and immense, which […] occupies the entire field. […] The ultimate stage of the schizophrenic process. (Martian 159-60)

Anche in The Simulacra8 (1964; in cui, a proposito di libri formativi, qualcuno legge C. Wright Mills [40], evocato anche in The Unteleported Man) non esiste nulla fuori dal capitalismo, e la satira è abrasiva. Leggendo della scoperta di “unicellular fossils on Ganymede,” Chic Strikerock riflette fra sé:

The next layer down will be comic books, contraceptives, empty Coke bottles. But they – the authorities – won’t tell us. Who wants to find out that the entire solar system has been exposed to Coca Cola over a period of two million years? It was, for him, to imagine a civilization – of any kind of life form – that had not contrived Coke. Otherwise, how could it authentically be called a “civilization”? (Simulacra 43)

Non è poca l’ironia bachtinianamente intertestuale nel fatto che qui, in uno dei sistemi di potere più cupi e monolitici in tutto Dick, l’unica via d’uscita sembri quella wellsiana dei Morlocks: la devoluzione dei chuppers.

In The Three Stigmata of Palmer Eldritch (1965), il personaggio positivo è Barney Meyerson, diretto dipendente della société du spectacle in un mondo in cui simulazioni, allucinazioni e fusioni mentali sono gli strumenti del potere, e in cui nulla resta estraneo alla mercificazione. Fra droghe e case di bambole, la presunta normalità della vita di frontiera su Marte è letteralmente una costruzione ideologica, falsa coscienza per un forzoso ciclo del consumo. Nell’eucaristica “translation”, la droga Can-D assunta dai coloni produce una sua metafisica, nel nome della purezza attraverso la perdita della corporeità (40-45). E sul mercato esiste un’altra fonte di consolazione: nella Eichenwald Clinic (un sinistro nome che fonde Eichmann e Buchenwald), il nazisteggiante Dr. Denkmal vende la sua “E Therapy” come protezione dal disastro ambientale e come “an acceleration of the natural evolutionary process”; la retorica della naturalità conduce alla devoluzione, e i coniugi Hnatt potrebbero ritrovarsi fra i “bubbleheads” con la loro “chitinous-like skin” (61). All’inizio della terapia, Richard Hnatt immagina una cosmogonia che, ancora più che una fantasia dantesca, è la tragica presa d’atto di un’esperienza di vita totalmente precaria, con “the middle level of the human” infinitamente oscillante fra un minaccioso “tomb world” e “the ethereal world above” (65): se il primo è una realtà tangibile, il secondo è un’illusione potenzialmente altrettanto distruttiva.

A unificare tutti questi filoni retorici è Palmer Eldritch, l’arcimalvagio che – nonostante le pose robinsoniane del suo viaggio solitario fino al Centauro – incarna un capitalismo finanziario in grado di sostenersi senza bisogno di mercati per i suoi prodotti (vende “beni di consumo” a colonie disabitate). Commerciando in allucinazioni, Eldritch desidera superare ogni limite: “god promises eternal life. we can deliver it” (134). Cannibalizzando ogni “chooser” in suo doppio, la sua Chew-Z trasforma tutti in cyborg, con braccio destro, denti e occhi artificiali – una trasformazione senza possibilità di ritorno, che conduce  “in one direction only, and change is real” (155). Analogamente a William Burroughs (Suvin, Artifice 122), gli effetti delle droghe di Dick – qui come in Now Wait for Last Year e Flow My Tears, the Policeman Said – non si limitano all’esperienza allucinatoria, ma traboccano nel “reale”. Le ontologie sono il correlativo dell’ascesa di un capitalismo che non lascia spazio per la salvezza nella sfera premoderna, e permette l’introduzione di un personaggio che, osserva Suvin nello stesso saggio, “subverts the whole notion of monadic, individualistic characters” (123). Come Bukatman ha detto di The Simulacra, in Eldritch e in tutte le opere di Dick “characters interact in a futile quest to fix reality, and therefore themselves, in place” (53). Nel mondo di Eldritch tutti condividono qualcosa di profondo con i detentori del potere (186-94), ma qualcuno lo fa senza rinunciare alla dignità, anche quando uno sciacallo telepatico marziano – che Palmer (143) lega al coyote bilingue di Carlos Castaneda in The Teachings of Don Juan (1968) – chiama Barney “an unclean thing” (196). Forse è esattamente questo a rendere la sua decisione di andare a vivere tra i coloni, smettendo di assumere le due droghe (186) – in quanto persona che, dopo esserne stata toccata, non pretende di essere portatore di alcuna innocenza – genuinamente utopica.

Le stigmate dell’empatia

Ricapitoliamo. In Dick sono presenti tutti gli ingredienti dello Zeitgeist controculturale: le visioni, le droghe, l’irrazionale, il surreale, la speranza nei giovani, insieme alla politica dell’antirazzismo e del pacifismo. Ma gli ingredienti sono mescolati in modo differente: piuttosto che l’essenza, l’etica; piuttosto che l’innocenza naturale, una dolorosa capacità di sopportazione; piuttosto che l’autosufficienza, un irreprimibile desiderio di socialità; piuttosto che la speranza nelle vestigia premoderne, la consapevolezza di un capitalismo ormai globale; piuttosto che la ricerca di rifugi da un mondo senza cuore, un tuffo a capofitto nel cuore del sistema. E gli unici efficaci agenti di cambiamento, piuttosto che onnipotenti isolati, sono esseri estremamente fallibili, al limite dell’impotenza, che provengono dall’interno.

Anche senza dettagliate analisi di ciascun libro, il modello permane. Nel mondo di The Penultimate Truth (1964), devastato da una guerra nucleare globale, il co-protagonista Adams trova privo di senso il richiamo di Rousseau all’originaria libertà umana (64), e poi aggiunge: “We are […] a cursed race. Genesis is right; there is a stigma on us, a mark. Because only a cursed, marked, flawed species would use its discoveries as we are using them” (96). Questo Dick sembra molto simile al tardo Mark Twain, quello degli scritti sulla “dannata razza umana” o di The Mysterious Stranger. E la natura funziona solo per gli happy few che se la possono permettere (nelle “demesnes”, classici scenari di piantagione, in superficie).

In Clans of the Alphane Moon (1964) è lo “slime mold” alieno Lord Running Clam a teorizzare il sentimento interpersonale; nelle parole di Joan Trieste: “Ganymedeans possess what St. Paul called caritas… and remember, Paul said caritas was the greatest of all the virtues. […] The modern word for it would be empathy, I guess” (41). Nella tradizione filosofica anglofona la parola in questione è sympathy, ma Dick qui ha in mente il contemporaneo lessico psichiatrico,9 e in Lord Running Clam, durante il suo incontro con il protagonista Chuck, Dick fa le prove generali delle sue successive teorie: “No Terran is an island” (24). La comica società del mondo-manicomio sta forse preparando un sistema di classi organizzate secondo una divisione del lavoro della follia (79 ff.), fondendo sincreticamente Giappone, India e Usa (“leadership in this society here would naturally fall on the paranoids”, dice Mary, 79). Nonostante il suo acume, Mary Rittersdorf è probabilmente la più negativa figura in tutta l’opera di Dick, e letteralmente stupra Baines (142-44). Insisterei che in Dick la follia, come l’ontologia, è una metafora letteraria, e il risultato appare in parziale disaccordo con le letture laingiane. È vero che “Dick praised the schizophrenic as able to shake off the consensus of reality” (Luckhurst 162) – anche se perfino Manfred Steiner non va oltre la tragica visione di un horror vacui – ma il messaggio anti-psichiatrico di Clans (forse in una ripresa di The System of Doctor Tarr and Professor Fether, il racconto del 1845 di Poe) è anche che la follia è una versione della normalità, talvolta altrettanto negativa della normalità.

Sulle intuizioni dell’“assoluto”, un saggio dello scrittore britannico David Wingrove riassunse bene una delle strategie di Dick: la visione di “a formless void of perfect silence, perfect whiteness, awaiting the divine intrusion” (28). In Dr. Bloodmoney (1965), ne è un esempio lo sguardo che il villain Hoppy ritiene di aver gettato sull’“aldilà”, mentre fluttua privo di corpo ricavando un senso di onnipotenza (36). Se l’opposizione base del romanzo è (Jameson Archeologies 349-62) tra un mondo di beni materiali e un mondo di messaggi immateriali, i personaggi si schierano, in vari modi, secondo uno scontro tra Hoppy, essere prostetico che basa le sue abilità sui poteri mentali, e Bill Keller che promuove un diretto contatto tecnologico con le cose (come Stuart McConchie nell’inizio pre-Bomba). E Bill vince su Hoppy impossessandosi del suo corpo cyborg, non ritornando a una condizione di “integrità”. Dal DJ in orbita all’emergere di animali mutanti, sta sorgendo una comunità che cattura la simpatia, forse quanto di più prossimo a un’utopia in Dick, accattivante non per i suoi valori intrinseci, ma per un tratto notato da Jonathan Lethem: la sua fragilità (43). O forse per quel desiderio di socialità che né lo scienziato pazzo Bluthgeld né Hoppy avrebbero mai preso in considerazione.

E potremmo continuare. Tornando alla materia del parallelo fra Germania nazista e Usa, The Unteleported Man (1966) sembra cercare di immaginare un modo per riconciliare “americanità” e politica di opposizione. La scena chiave è un dialogo tra Horst Bertold, Segretario Generale delle Nazioni Unite in un futuro in cui il controllo del teletrasporto sta realizzando la germanizzazione dell’universo, e l’ebreo Rachmael ben Applebaum che diffida di quella tecnologia e vede molto di neonazista nell’utopia coloniale progettata intorno a essa da potentati sia americani sia tedeschi. Dopo aver evocato le Brigate Internazionali nella Guerra di Spagna, Bertold dichiara la sua scelta di campo in un’autodifesa che, nel richiamo alla responsabilità individuale, riesce a non essere un’autoassoluzione collettiva né, peggio, una negazione dell’unicità della Shoah: “We fought the Nazis too, we ‘good’ Germans. […] But there are ‘good’ Americans. Despite the A-bomb dropped on those Japanese women and children and elderly” (101).10

Specularmente, Dick incarna l’ideologia nazionalista in Pris Frauenzimmer, uno dei suoi personaggi più spregevoli, in We Can Build You (1962-1972). Secondo il simulacro Stanton, Pris personifica l’individualismo americano: “Her stock is of the highest, although immigrant; for it has imbibed of the American vision, which is: that a person is only limited by his abilities and may rise to whatever station in life is best-suited to those abilities” (65). La stessa Pris va fiera della sua inumanità, che fraintende per superumanità (128). A definire la malvagità di molti villain di Dick è il bisogno di “naturalizzare” la loro predatorietà; così anche Pris, prima del finale, dopo aver venduto corpo e anima ai potentati finanziari, riemerge a Seattle con il nome di “Pristine Womankind”, femminilità primigenia e incorrotta (157).

Che l’“America” (in Dick, sinonimo del sistema socioeconomico contemporaneo) sia una condizione globale, che abbraccia anche la cultura e l’intimità e da cui non si può/deve tornare indietro, è fra i punti di partenza anche di Now Wait for Last Year (1967; uno dei suoi romanzi più politici: cfr. Robinson 78-81): nonostante il suo aspetto ridicolo, Gino Molinari non è solo dittatore mondiale, ma anche “leader of Terra’s unified planetary culture” (31). È l’indomabile bisbetica Kathy Sweetscent, mentre assume per la prima volta la droga JJ-80, a sentire il bisogno di una legittimazione “superiore”: “Everything’s the same, when you break through to absolute reality. It’s all one vast blur” (40). D’altro canto, il suo marito-vittima Eric accetta di ritornare al matrimonio e alla responsabilità interpersonale. Qui, come in We Can Build You e Galactic Pot-Healer (e nel giovanile Cosmic Puppets), al rapporto di coppia continua a spettare un ruolo salvifico che prescinde dalla solidità della relazione.11 Antieroe sempre inadeguato, Eric ha una dignità in perfetta, comica sintonia con quella dei carretti del finale: le mini-IA che un operaio di fabbrica estrae da un sistema d’arma, concedendo loro una nuova possibilità di vita (posthumana?).

E i mondi di fantasia, piuttosto che l’eroismo, rivelano la pura falsificazione alla fine del cap. 2 di The Zap Gun (1967), prima che Lars Powderdry (altro artista, altro complice parziale della simulazione della pseudo-Guerra Fredda che sorregge la geopolitica globale) si lanci nel

trance-state in which he lost contact with the given, shared universe, the koinos kosmos, and involvement in that other, mystifying realm, apparently an idios kosmos, a purely private world, began. But a purely private world in which an aisthesis koine, a common Something, dwelt. What a way to earn a living (19)

Anche per Lars, la posta in gioco è l’abilità di mantenere un certo grado di “caritas”, come la compagna/avversaria Lilo gli chiede nel finale (172).

Al di là della controversa, sensazionalistica introduzione editoriale, il racconto che mette direttamente in primo piano il tema psichedelico è Faith of Our Fathers (1967), scritto per la celebre antologia Dangerous Visions, curata da Harlan Ellison. L’ambientazione è una Hanoi sede del nuovo potere post-Guerra fredda, in una revisione della distopia del controllo onnipervasivo di Nineteen Eighty-Four. Ma lo scenario non è certo quello di un reazionario, a partire dall’accennato parallelo fra il gruppo dissidente e “the treasonable college students of the United States during the Vietnam War” (199). L’esperienza del funzionario Tung Chien, ansioso operatore del consenso addetto a valutare l’ortodossia degli studenti, ha al centro le droghe e la fusione con un’ontologia superiore. L’allucinatoria visione dell’Assoluto Benefattore del Popolo lo conduce a due scoperte. La droga da lui assunta era un “anti-allucinogeno”, che pare averlo messo in contatto con una realtà celata dal consenso; però gli altri che hanno voluto provarla si sono imbattuti visioni diverse – in tutto, dodici tipi. È l’autentico a essere instabile:
a variety of authentic experiences; that makes no sense, rationally. It’s the hallucination which should differ from person to person, and the reality which should be ubiquitous; it’s all turned around. […] Twelve mutually exclusive hallucinations – that would be easily understood. But not one hallucination and twelve realities. (198)

Nel gran finale dell’incontro con il Leader, Chien ha una visione della “realtà ultima”, che (con, fra molte allusioni bibliche, più di un’eco di Stranger in a Strange Land) saluta pensando: “You are God” (208). Quando lui pensa a suicidarsi, il Leader si presenta come dio nascosto e personificazione dell’entropia, e lo rassicura: “you don’t need to speed the process up” (210). Nell’affastellamento di frammenti sociali apparentemente incompatibili, emerge la separazione fra assoluto metafisico (per quanto “autentico”) e limitatezza umana; irriducibilmente appartenente alla seconda, il protagonista – pur letteralmente marchiato da stigmate indelebili (213) – si ritrova pronto a proseguire la sua vita, ancora pieno di dubbi, ancora disposto all’amore: l’unico livello “boundless” (214; “like an ocean”, aggiunge Chien con una probabile strizzata d’occhio freudiana) a cui è giusto aspirare.

Da questo punto di vista, Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) e Ubik (1969) hanno molto in comune. Per quanto sia incongruo il lavoro dei due protagonisti, in forma diversa due poliziotti, Rick Deckard e Joe Chip sono portatori della stessa capacità di sentimento. In Androids, si sfumano tutti i confini “naturali” fra umani, macchine e animali: i rifiuti (il “kipple”) acquisiscono un’autonomia quasi soprannaturale, gli umani dimostrano la loro umanità mostrando “empatia” verso gli animali artificiali, e gli androidi dimostrano la loro inumanità torturando animali vivi, mentre esiste un chiaro parallelo fra gli “andys” e, allo stesso tempo, operai e schiavi afroamericani (qui è devastante la critica del mito della frontiera). E quando si dimostra che “empathy-box” di Wilbur Mercer è un falso, non ne viene falsificato il richiamo alla “sincerità” (162); le radici del Mercerismo nella manipolazione dello showbiz non invalidano il bisogno sociale sfruttato dal culto pseudo-religioso. Quando Deckard si salva, scopre di essere divenuto “an unnatural self” (172): nella sua “innaturalità” sta la sua moralità profonda.

In Androids, Dick si comporta pienamente da bricoleur bachtiniano. Nel linguaggio, è istruttiva la genesi del termine “kipple” (cfr. Langford): dal titolo di una rivistina amatoriale (pubblicata per quasi 25 anni a Baltimore) ripreso da un vecchio gioco di parole sul nome dello scrittore Kipling, passando per un perfido paragone con i rifiuti (a sua volta gravido di citazioni) dell’editor Terry Carr: nell’omaggio-riciclaggio di Dick, sia lettore di Kipple sia amico di Carr, c’è l’omaggio creativo a tutta una subcultura che della metanarratività stava da sempre facendo una poetica. Procedendo dalla parola alla struttura diegetica, ritroviamo nel sistema dei personaggi il gioco polifonico della concentrazione di contraddizioni, e la chiave interpretativa è quella di non isolare una lettura privilegiandola sulle altre. Un recente intervento in rete della scrittrice Alessandra Daniele si concentra sulle frequenti dichiarazioni di superiorità da parte degli androidi per  concludere che il protagonista è “un cacciatore di nazisti”. Vero, ma allo stesso tempo Deckard è un cacciatore di operai in rivolta, e un cacciatore di taglie di schiavi fuggiaschi. Tutte queste cose insieme, contemporaneamente, sono lui e i suoi antagonisti: anche in questa complessità, solo in superficie contraddittoria, sta la diversità e la ricchezza di Dick. Aggiungiamo, come protagonista Dick sceglie una figura di piccolo-borghese che non potrebbe essere più lontana dalle aspettative “eroiche” della Vecchia come della Nuova Sinistra, ed è il suo istintivo bisogno d’ordine (sociale e familiare) a portare il bounty-hunter dalla parte giusta, contro le pretese di superiorità di umani, androidi e mega-finanzieri. Se vogliamo fare di Dick una risorsa politica, proviamo a prendere sul serio la sua antieroica complessità.

In Ubik ovviamente anche la divinità è una merce fra le altre; sia contro la squallida società in cui vive sia contro il predatore Jory, il little guy Joe Chip, solitamente presentato sotto forma di preda esposta al ridicolo (cioè, di lavoratore sottopagato), si affida alla sua capacità di sopportare e durare. Per quanto ambiguo sia il finale (suggerendo, come ho argomentato altrove, che tutti i personaggi sono ormai sullo stesso livello ontologico, crioconservati nella half-life), il subalterno Chip sfugge alla seduzione dell’informe e dell’entropia, e della maligna entità (umana) che incombe al di là, grazie alla sua capacità di “take charge” (183) e leggere “[v]aluable notes” (189) e messaggi. Si ritrova così non al di fuori ma esattamente al centro dell’allegoria: nel denaro. In questo modo, si riafferma una visione laica: contro il male, il capitale e l’entropia, l’universo rimane aperto, e la “battle goes on” (183). “This was just the beginning” (191), come dicono le ultime parole. In entrambi i romanzi, ricorre l’immagine di Sisifo: contro il kipple e le inversioni temporali, il miglior strumento di salvezza è un’antieroica, faulkneriana endurance.

E se (come ogni fan sa benissimo) il “papapot” di Ubik è una delle droghe più buffe della letteratura statunitense, le allucinazioni non puramente ricreative sono molto meno rassicuranti. In Galactic Pot-Healer, Joe Fernwright decide di rinunciare alla fusione mentale nel Glimmung per l’attività di vasaio (ma, appunto, la parola inglese pot-making può essere una strizzata d’occhio verso le più diffuse droghe ricreative) e un certo grado di autonomia individuale (189), mentre in A Maze of Death l’allucinazione virtuale è una trappola in cui i personaggi hanno scelto di rifugiarsi (“the name of the game is death,” diceva il titolo del manoscritto), e la perdita di sé è una minaccia ricorrente in Zap Gun e in Flow My Tears.

Soggetti dialogici

Mentre si apre la sua fase finale, ciò che rende diverso Dick è sempre più chiaro: la ricerca di soggetti che sono allo stesso tempo dissenzienti e (sia inevitabilmente sia per scelta) legati al sistema sociale che li ha prodotti: due tratti che la cultura di opposizione della sua epoca avrebbe considerato incompatibili. Non dovrebbe sorprenderne, quindi, la letteralizzazione in varie versioni del doppio autobiografico: la dialogizzazione dei Sixties è ormai al centro.

In Radio Free Albemuth, dopo una strizzata d’occhio alla Berkeley dei “Beatniks” (34), presto la storia si trasforma in un’ucronia in cui lo scettico, pragmatico scrittore SF Phil Dick incontra la sua controparte visionaria Nicholas Brady. La storia alternativa sfiora la “nostra” controcultura solo nei riferimenti a due opere di Phil che parlano di droghe, Palmer Eldritch e Faith of Our Fathers (68). La notizia seguente è l’apertura di “detention facilities” in Nebraska dove saranno probabilmente internati i militanti anti-guerra (70). Nondimeno, il governo che è giunto a dominare gli Usa viene descritto in termini che sembrano esprimere un giudizio sul definitivo consolidamento di un sistema sociopolitico durante l’era Nixon: “Ferris Fremont hasn’t just taken over the country. […] He has taken over human minds. And debased them” (81). Dopo un accenno al complotto che ha portato all’uccisione di King, i Kennedy, Malcolm X e altri (114), Nicholas ha le sue visioni sull’Impero Romano, che lui interpreta come contatti con “primordial faculties and abilities” (162). Ma quando Nick sente di aver ricevuto dall’entità aliena VALIS, oltre ad alcuni istanti di “sapienza”, anche una parte del suo “potere”, ciò che percepisce è un universo ridotto a “Cancer… the process of creation gone wild” (165). È all’interno di questo sistema che sia loro sia il rock elettrico dei “ragazzi” potrebbero incarnare un principio di speranza: di certo più che wishful thinking, forse un lampo di utopia.

Invece, A Scanner Darkly (1977), romanzo che si concentra su un gruppo di drop-out dominati dalle droghe, presenta uno scenario di impotenza quasi totale:

Life in Anaheim, California, was a commercial for itself, endlessly replayed. Nothing changed; it just spread farther and farther in the form of neon ooze. What there was always more of had been congealed into permanence long ago, as if the automatic factory that cranked out these objects had jammed in the on position. (31)

Gli equivalenti “reali” dei protagonisti, dice la conclusiva Nota dell’Autore, erano “come bambini” (253), e non vanno condannati per la loro incapacità di agire: il loro errore era l’errore di una generazione. Come ha sostenuto Fitting, il loro errore risiede nell’aver interpretato il conflitto sociale in termini di “life-styles (freak/straight)” (229). L’unico a conquistare una certa comprensione è, dolorosamente, parte di entrambi i mondi, l’agente della Narcotici che va sotto copertura fra i freak e finisce schizofrenico, “nark” e “doper” allo stesso tempo. In una messa in dubbio, tecnologica e psicologica, di ogni percezione, la trappola di Bob Arctor è forse quella in cui si è trovata la politica oppositiva dello stesso Dick (il cognome del personaggio suggerisce tracce di Künstlerroman) e dei dopers: “I understand but am helpless to help myself” (198). Nelle parole del suo grande amico Barris, a rendere Bob sempre unico è “his total relatedness to life” (43). Questa caratteristica permetterà alla sua maschera finale Bruce, nel campo di riabilitazione, di “comprendere” la verità sulla mortale Sostanza D. Vincitore o vittima (o entrambe), Bob/Fred/Bruce “is the opposite of Rousseau”, il contrario dell’ideale di “one who is largely self-sufficient, who knows how to live in accordance to his own innate needs” (Bertrand 79).

Nell’ultimo romanzo, il realista e semiautobiografico The Transmigration of Timothy Archer (1982), sembra invece emergere l’amarezza. L’apostrofe iniziale lascia poco spazio al misticismo: “Bolting your feet down to the floor is the point, the floor we call reality” (50). La storia personale di Tim (basata su quella dell’amico di Dick, il vescovo episcopale Jim Pike)12  è quella di un uomo che aveva “put away [his] pectoral cross on the duration of the Vietnam War” (51), mostrando genuina curiosità verso i movimenti giovanili, facendo domande sulla scena rock (54-55) e ricevendo informazioni anche su Kiss e Patti Smith (182). Alla fine, ha in programma un incontro con Buckminster Fuller dopo il ritorno da un viaggio nel Mar Morto (202). Ma il motivo del viaggio è la ricerca di indizi sul modo di contattare il fantasma del figlio morto. Per la protagonista Angel Archer, una delle sue amiche più intime, si è superato un limite:

Fine. Do it. Wreck your goddamn life. Cast charts of the stars, cast horoscopes while the most destructive war in modern times is raging. It will earn you a place in the history books – as a dunce. You get to sit on the tall stool in the corner; you get to wear the conical cap; you get to undo all the social activist shit ou ever engineered in concert with some of the finest minds of the century. For this, Dr Martin Luther King, Jr, died. For this you marched at Selma. (110-11)

Nella cornice iniziale e conclusiva del romanzo, una figura parallela a Tim Archer è il predicatore simil-New Age Edgar Barefoot. Smentendo almeno in parte il suo stesso messaggio, questa nuova versione di Buster Friendly, la mente del Mercerismo di Android, Barefoot offre ad Angel una parabola sui limiti di ogni credo: “I fish for fish. Not for souls. I do not know of ‘souls.’ A fisherman fishes for fish; if he thinks he fishes for anything else, he is a fool; he deludes himself and those he fishes for” (213). È emotivamente affamata, dice l’ambiguo predicatore, e il suo consiglio è: “Take the sandwich and eat; forget about the words”(216). Il misticismo può essere necessario, ma solo fino a un certo punto.

Ad accompagnare tutto questo periodo di scritti con base autobiografica è la lunga composizione di VALIS (1981), in cui l’io dell’autore si scinde in due maschere: il razionale Phil già presente in Albemuth, e il freak Horselover Fat che crede di ricevere messaggi lanciati verso di lui attraverso raggi di luce rosa da una semidivina entità aliena – messaggi che parlano di storia mondiale, teologia e cosmogonia. Per tutto il romanzo, i due “personaggi” (circondati da una comunità di amici, alcuni dei quali girano un film dalle evidenti somiglianze  con le visioni di Fat) continuano a discutere, in accordo o in disaccordo, praticamente di tutto, incontrando altre persone e forse qualcosa di più, fondendosi e separandosi, interpretando i presunti messaggi (il libro è cosparso di estratti dalla sua “Esegesi” – sua e, naturalmente, dell’autore) e reinterpretando le interpretazioni dell’altro. VALIS è un romanzo sulla comprensione di messaggi culturali, sull’impossibilità di stabilire distinzioni nette fra segnale e rumore (Suvin Goodbye), e sull’impossibilità di determinare un soggetto intrinsecamente dotato dell’abilità di decodificare quei messaggi. Più profonde si fanno le analisi di Phil e Fat, più pressanti diventano le domande sulla loro stessa soggettività: “Isn’t it an oxymoron to say, I am not myself? Isn’t this a contradiction, a statement semantically meaningless?” (133); e poi: “[Zebra]’s yourself. Don’t you recognize your own self?” (245). L’ultima parola spetta a Phil, che riflette retrospettivamente su una storia che sarà presto scartata e dimenticata, “as if it were an empty beer can in the gutter”. In qualità di scrittore SF, però, ha imparato che “the symbols of the divine shows up in our world initially at the trash stratum” (256). Ora che Fat sembra svanito per sempre, Phil ne rimpiange la scomparsa, e decide di aspettarne il ritorno davanti al televisore: “My search kept me at home; I sat before the TV set in my living room. I sat; I waited; I watched; I kept myself awake. As we had been told, originally, long ago, to do; I kept my commission” (ibid.).

Pochi anni dopo, al massimo vertice del canone letterario, in Vineland (1990), l’omaggio di Thomas Pynchon agli anni controculturali poteva permettersi di schernire i “tubal freaks” che acriticamente accettano i segnali del potere. Al livello dei rifiuti della cultura, Dick ha meno certezze sul ruolo dell’intellettuale, e sui messaggi che lo circondano. Fino alla fine, nessun alto castello.

Attraverso la polifonica voce di Dick, parlava un’America subalterna che non poteva che sentirsi socioeconomicamente estranea al sogno del dropping out, ma che stava immaginando il rispetto di sé identificandosi in quelle culture di opposizione. Riconoscendo e condividendo (con Horselover Fat e Tim Archer) il bisogno generazionale di una comprensione più profonda, Philip K. Dick (con Barney Meyerson, Rick Deckard, Joe Chip… e Phil Dick) sarebbe stato molto più volentieri cyborg che dio.

 

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Note dell'Autore

1 Questo saggio è parte di un più ampio progetto su Dick, al quale lavoro da molti anni: rimando alla bibliografia per letture di singole opere, e per un volume sugli Usa degli anni Sessanta. Per avermi dato l’occasione di presentarne una versione in inglese, ringrazio Stefan Schlensag, Alexander Dunst e Walter Grünzweig, organizzatori del convegno “Worlds Out of Joint: Re-Imagining Philip K. Dick”, Università di Dortmund, novembre 2012. Per una parte della ricerca, ringrazio Andy Sawyer e la Science Fiction Collection della University of Liverpool Library. Per letture e commenti, ringrazio Alessandro Fambrini e Darko Suvin.
2 Per tutti i riferimenti biografici, il testo base è Sutin, Divine Invasions.
3 Qui sia lecito un grado di approssimazione: la retorica dell’individualismo radicale è dominante in Kerouac, e in gran parte degli articoli-manifesto. Ma si perseguivano anche altre strade, a partire dalla forma dialogica delle Routines di Ferlinghetti.  E pensiamo al trittico di poeti con cui Dick, nella Berkeley di fine anni 40, condivise un appartamento: Robert Duncan con il suo utopismo morrisiano privo di nostalgie per il passato, Jack Spicer e Philip Lamantia con i loro mondi sospesi fra speculazione metafisica e devastazione terrena e psichica (con tanto humor il primo, con salde radici in Poe e Lovecraft il secondo). Per Spicer e Lamantia, che le epigrafi siano un inizio di esplorazione delle intersezioni tra il loro immaginario e quello di Dick.
4

Alcune voci della controcultura, nel frattempo, stavano ricambiando il favore. Secondo Paul Williams (19), già nel 1969 Timothy Leary era un lettore di Philip K. Dick.

5

Per una lettura politica di Dick che pone l’accento sul ruolo formativo degli anni Cinquanta, cfr. Gallo.

6 Partendo da Childhood’s End, questa tradizione raggiunge un trionfo ideologico con Dune di Herbert, lasciando tracce nel mondo-Gaia di Foundation’s Edge di Asimov e riemergendo nella “mente-alveare” di Sterling. La critica più radicale resta il disincantato Dying Inside di Silverberg.
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Partendo da Childhood’s End, questa tradizione raggiunge un trionfo ideologico con Dune di Herbert, lasciando tracce nel mondo-Gaia di Foundation’s Edge di Asimov e riemergendo nella “mente-alveare” di Sterling. La critica più radicale resta il disincantato Dying Inside di Silverberg.

8

Per una lettura di questa complicatissima trama, rimando a Rossi (118-29).

9

Nel convegno di Dortmund, l’intervento di Roger Luckhurst (“Influencing Machines: Dick and the History of Schizophrenia”) puntava precisamente a una storicizzazione del vocabolario della psicopatologia in Dick.

10

Le ripetute riscritture del romanzo, in cui Dick in seguito cercò di innestare il tema lisergico-allucinogeno su quello distopico, sono dettagliate in Butler LSD. Per un’incisiva rassegna sul nazismo in Dick, cfr. Santomassimo 223-28.

11

Comunque, in una poco nota lettera inviata alla fanzine Niekas nel 1964, Dick e il suo amico Jack Newkom annunciavano pittorescamente di aver fondato un gruppo il cui obiettivo principale era “to destroy the institution of marriage whenever it can be unEarthed” [sic] (49). Se la lettera fosse motivata da un momento di amarezza personale, da machismo, o da convinzione personale, è qui irrilevante; il punto è l’uso della metafora letteraria della fedeltà al vincolo coniugale.

12 Va notato che una prima apparizione di Pike nel corpus dickiano avviene in Counter-Clock World (1967), in cui l’Anarca Peak – figura di leader afroamericano, purtroppo poco sviluppata, a metà fra King e Malcolm X – giovane britannico appena giunto negli Stati Uniti si guadagna inizialmente da vivere come musicista, riceve l’apprezzamento di Herb Caen (il giornalista che aveva coniato le parole “beatnik” e “hippie”) e partecipa alle “jazz masses” promosse da Pike (42). Entrambe figure di mediazione fra impegno politico e mondo giovanile di San Francisco, la loro affinità va oltre l’assonanza tra i nomi: è senz’altro lecito rilevare in Peak frammenti di Pike.