È un vecchio detto: a volte la realtà supera la fantasia. Si potrebbe inoltre dire che la realtà può prendere spunto dalla fantasia per affrontare i problemi anche più gravi in modo piuttosto fantasioso. Come nei due casi presentati, che hanno come comune denominatore Avatar, entrato ormai a far parte dell'immaginario dell'intera popolazione terrestre.

Partiamo dall'India. I distretti occidentali del paese sono la terra natale dei Dongria Kondh, un gruppo tribale di circa ottomila persone dedito all'allevamento e alla coltivazione di parecchi tipi di frutta. Il loro habitat naturale si trova principalmente nella regione montuosa del Nyamgiri, nel distretto di Orissa, la loro organizzazione sociale è sostanzialmente di tipo matriarcale, e il loro culto religioso è di stampo animista e molto legato alla natura. Ora, si da il caso che le montagne su cui vivono siano ricche di bauxite e che le autorità abbiano dato in concessione alla compagnia mineraria Vedanta il diritto di sfruttamento dei giacimenti, mediante una serie di miniere a cielo aperto. Il grosso delle miniere sorgerà proprio sulla cima montuosa che i Dongria usano come epicentro per le cerimonie religiose; questo chiaramente crea un grosso problema. Cos'hanno deciso di fare i Dongria, dopo aver inutilmente protestato? Semplice: chiedere aiuto a James Cameron in persona, uno che di tribù in difficoltà se ne intende.

Sembrerebbe una storia costruita a tavolino per fare pubblicità al film, se non fosse che il film non ne ha assolutamente bisogno. Il primo a riportare la notizia è stato il quotidiano inglese The Guardian, poi ripresa da quasi tutti i magazine. I rappresentanti della tribù hanno così inviato un messaggio al regista, riportato come virgolettato anche da Variety: "Ci appelliamo a James Cameron. Avatar è fantasia... E realtà. la tribù indiana Dongria Konhd sta lottando contro un'infernale compagnia mineraria intenzionata a distruggere la loro montagna sacra. Vi preghiamo, aiutate i Dongria". Portavoce della tribù è Stephen Corry, responsabile delle organizzazioni attiviste che si occupano di assistere le popolazioni indigene: "Proprio come per i Na'vi, per i quali la natura è tutto, per i Dongria la connessione tra la vita e la montagna è molto profonda. Il dramma narrato in Avatar, esclusi il colore blu, i cavalli e le macchine da guerra, si sta svolgendo realmente qui a Nyamgiri. Come i Na'vi, anche i Dongria dipendono dalla foresta per sopravvivere; se la Vedanta aprirà davvero la miniera, e pare che non abbia alcuna intenzione di ripensarci, la tribù e tutte le altre specie viventi della zona saranno fortemente a rischio". In effetti la prima preoccupazione degli associazioni di assistenza e degli ambientalisti è proprio evitare la distruzione dell'ecosistema di una delle zone ancora incontaminate della regione. Non si sa se Cameron abbia risposto all'appello, e se effettivamente possa usare in qualche modo la sua influenza sulla vicenda.

Facciamo un lungo volo e spostiamoci in una zona della Terra completamente diversa. Ci troviamo ora in Palestina, per la precisione nella tristemente famosa striscia di Gaza controllata dalle milizie di Hamas; più precisamente nel villaggio di Bil'in che sorge a ridosso della famigerata barriera costruita da Israele per isolare la zona e la cui presenza, va ricordato, è stata condannata dalla Corte Internazionale di Giustizia. La popolazione civile del villaggio, tirata in mezzo involontariamente come sempre accade in questi casi, subisce lo stato di isolamento e cerca di sopravvivere, e anche di far sentire la propria voce. Proprio per protestare contro il permanere della barriera, un gruppo di abitanti del villaggio, accompagnati da alcuni pacifisti israeliani, hanno inscenato una particolare forma di protesta: hanno marciato fino alla barriera vestiti da indigeni Na'vi, con tanto di tute azzurre, volti dipinti, parrucche lunghe e orecchie a punta.

La singolare protesta ha fatto il giro delle agenzie di mezzo mondo, corroborata da diverse fotografie e da due video postati su Youtube, e che proponiamo qui in basso. Spiega Mohammed Kathib, uno degli organizzatori della protesta: "Quando la gente di tutto il mondo che ha visto il film vedrà anche le nostre condizioni, forse si accorgerà che le due situazioni sono identiche". Kathib ha poi raccontato che l'idea dei Na'vi è venuta alla documentarista palestinese Liana Badr la quale, vedendo il film in Europa e commuovendosi pensando alla similitudine con le condizioni di vita della popolazione di Bil'in, gliene ha parlato. Purtroppo nel villaggio non esiste un cinema e quello più vicino è oltre la barriera, quindi irraggiungibile; così Kathib ha recuperato una copia pirata del film e lo ha visto insieme agli altri abitanti. Da lì hanno poi scoperto il successo mondiale della pellicola e hanno avuto l'idea della marcia che si è svolta alcuni giorni dopo. In modo piuttosto movimentato come testimoniano i video, tra spari in aria e lancio di lacrimogeni da parte dei soldati israeliani a guardia della barriera. "Ci siamo sentiti come se fossimo all'interno del film - ha continuato Kathib - ma era tutto vero e accadeva nel nostro paese. Siamo comunque soddisfatti per il successo dell'iniziativa e per aver attirato l'attenzione sulla nostra causa." In effetti non è la prima manifestazione "fantasiosa" che gli attivisti palestinesi si inventano: questa però deve aver ricevuto una risonanza più ampia se, come sembra, le autorità di zona israeliane starebbero considerando la possibilità di alleggerire la pressione sulla barriera.

È evidente che in entrambe le situazioni c'è stata la volontà di sfruttare il fenomeno mediatico di un film per veicolare altri messaggi, e non è nemmeno la prima volta che succede. Si potrebbero fare diverse considerazioni, ad esempio quella sulla responsabilità degli artisti rispetto alle opere che producono. Certamente Cameron non pensava a un utilizzo così disinvolto per la sua creatura, ma nel momento in cui si è dato l'obiettivo di raccontare una storia universale ha automaticamente posto le premesse per far stabilire un forte meccanismo di immedesimazione. Forse il punto è proprio questo: il grande impatto emotivo che il film ha avuto, e che non può essere imputabile all'uso del 3D, ha permesso la condivisione di meccanismi emotivi che, essendo appunto universali, sono comuni a chiunque sulla faccia del pianeta. Così tribù indiane e cittadini palestinesi, lontanissimi fra loro sotto qualunque altro aspetto, si sono trovati uniti da un sentiero invisibile fatto di un sentimento, quello per la salvezza della propria terra e della libertà di viverci, che difficilmente si può contestare in un'epoca di libertà sempre più apparenti e sempre meno reali. La critica generale rivolta al film, quella di un'eccessiva banalizzazione della vicenda, resta valida ma perde di importanza di fronte alla capacità di penetrazione che Avatar ha dimostrato di avere presso terre e culture diversissime, accomunandole e ponendosi per tutti come un punto di riferimento per battaglie estremamente importanti.

C'è ancora qualcuno che ha il coraggio di dire che è "solo" fantascienza?