La prima regola del fight club è che non si parla del fight club.

La seconda regola del fight club è che non si parla del fight club.

Il fight club esiste soltanto nelle ore che vanno da quando il fight club comincia a quando il fight club finisce. È un mondo notturno, dove echeggiano i colpi sferrati dalla carne contro la carne e i crac delle ossa rotte, dove i colori dominanti sono l’ambra delle lampade al sodio e il rosso del sangue che scorre dalle ferite. Perché il fight club è anche e soprattutto questo, è una cicatrice o una costellazione di cicatrici, il segno distintivo di un popolo notturno formato da persone che, in un combattimento rituale, celebrano la morte dei valori del consumo condivisi in quell’altro mondo, quello diurno, non a caso detto “mondo reale”. Il fight club nasce proprio in contrapposizione a quel mondo, come un universo sotterraneo che a esso presto finisce col reclamare spazio e aria.

Il protagonista è un operatore in una grande società assicurativa, costretto a subire quotidianamente l’alienazione delle pratiche d’ufficio che riducono le persone a statistiche. E il mondo fuori dall’ufficio non è migliore: la perfezione di corpi ideali traccia sui cartelloni pubblicitari i nuovi canoni della normalità e induce un’assuefazione che porta a meditare sul fatto che “l’automiglioramento forse non è la risposta”, le marche e i marchi (somiglianza questa con un altro libro della medesima generazione, il No Logo di Naomi Klein ritenuto ispiratore del popolo di Seattle… qualcuno ricorda il 1999?) scandiscono il ritmo dei nostri acquisti, in una società ridotta a puro meccanismo di consumo. Lui vive ai margini della società, soffre d’insonnia e da due anni frequenta gruppi di sostegno per persone affette da mali incurabili (tutti con nomi ridicoli e per questo confortanti: Restare Uomini Insieme per il cancro ai testicoli, Al di Sopra e Oltre per i parassiti del cervello, Fermi Credenti per i leucemici, Liberi e Puliti per i parassiti del sangue) alla ricerca di una dimensione a lui più consona e come antidoto alla solitudine urbana, finché la sua casa non salta in aria.

Dolo, incidente o premeditazione, non ha poi troppa importanza come siano andate le cose. A chiarirle ci penseranno le indagini delle autorità competenti del mondo reale. Quello che importa, invece, è che proprio quella notte il protagonista consuma la sua transustanziazione, creandosi come un demiurgo il suo mondo privato. Questo mondo parallelo è appunto il fight club e lui deve dividerne genesi e dominio con il carismatico Tyler Durden. Tyler Durden è un guerrigliero dei servizi: condisce con urina e sperma i piatti del ristorante in cui lavora, inserisce fotogrammi subliminali di erezioni in tranquilli film per famiglie nel cinema in cui passa le serate, fabbrica sapone con il grasso estratto dalle liposuzioni e lo vende alle stesse ricche signore che quel grasso lo hanno donato. Ma chi è davvero Tyler Durden?

Il narratore lo scoprirà nel corso della storia, mano a mano che il giro dei fight club si estende e da semplice e squallido evento di boxe clandestina assurge al ruolo di autentico fenomeno di costume. Un fenomeno sommerso, però, che finirà per congegnare il Progetto Caos (nell’originale era Mayhem, mutilazione), allestendo un’armata clandestina di “scimmie spaziali” volta a sovvertire l’ordine costituito del mondo reale. Anarchico, nichilista, sospeso tra avanguardia dada e vocazione paramilitare, il Progetto Caos si configura come un attacco non solo alle istituzioni, ma alla stessa forma mentale dei concetti oggi condivisi di cultura e civiltà. Un attacco, questo, ispirato dalla vocazione alla ribellione a qualsiasi forma d’istituzione (anche artistica: “Volevo dar fuoco al Louvre”), dalla necessità di riappropriarsi di una dimensione più umana in un mondo fatto di brand, di statistiche commerciali e di fette di mercato. Un mondo disumanizzato, che necessita di una rivoluzione.

Accanto a lui, trascinata dal turbine della sua follia, c’è anche una donna: Marla Singer è l’unica a conoscere davvero i risvolti della storia, fino al finale. Che, per ammissione dello stesso autore, non è incisivo e crudo come quello dello splendido film trattone nel 1999 da David Fincher (con Edward Norton, Brad Pitt e Melena Bonham Carter, ormai un cult movie), e disperde un po’ del potenziale del libro in uno scioglimento tutto sommato deludente. Ma Fight Club resta comunque un libro da leggere: memorabile nelle ricette per confezionare in casa i propri esplosivi per uso quotidiano, esilarante negli incisi e negli spunti di critica (storica, sociale, narrativa), sarebbe senz’altro piaciuto a William S. Burroughs, della cui visione del mondo si appropria. E se Fernanda Pivano lo accosta nella postfazione alla generazione X, è indiscutibile l’affinità che questo libro ha con il cyberpunk più scanzonato (John Shirley docet) come pure con l’ondata slipstream che si è sprigionata dalla zona di confluenza del cyberpunk nel mainstream.

Comunque lo si voglia considerare, Fight Club rappresenta comunque il più efficace manifesto letterario dopo il Neuromante di William Gibson. E fa una certa impressione rileggerlo ora, dopo i fatti di Seattle. La gente che scese in strada nel ’99 faceva parte di un movimento spontaneo, che pur nelle sue contraddizioni ha avuto il merito di provare a far sentire la propria voce. Che i loro appelli siano finiti inascoltati è stato solo un terribile scherzo del destino: l’11 settembre ha segnato una frattura anche in questo e sommerso di priorità l’agenda dei governi, così il 2001 ha cancellato ogni sana forma di contestazione al sistema economico mondiale.

Anche per questo, forse, i più giovani dovrebbero leggere questo libro, oggi. Sempre che non vogliano rivolgersi direttamente a Burroughs…

“Possa non essere mai completo.

“Possa non essere mai soddisfatto.

“Possa non essere mai perfetto.

“Liberami, Tyler, dall’essere perfetto e completo.”

Amen.