Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi.

GIOVANNI FALCONE

Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.

PAOLO BORSELLINO

Prologo

Capaci, 23 maggio 1992

Tremolanti pezzi di metallo ricaddero al suolo raggomitolandosi su se stessi, mentre la polvere aleggiava densa e calda, turbinando impazzita in un sali e scendi senza senso. La luce tersa del cielo si lasciava intravedere tra i rottami di lamiera contorta che Giovanni Falcone fissava, sordo e frastornato, dal rumore che lo aveva colto all’improvviso. Allungò la mano cercando quella della moglie, e la trovò dopo vari tentativi. Era fredda e inerme, quella mano, ma rispose al suo tocco come la poca vitalità residua le permetteva.

Le orecchie mute e sanguinanti non percepivano rumore. Il mondo era come ovattato, danneggiato, strappato. E loro erano lì, senza poter muovere un muscolo se non per soffrire. E mentre erano lì, inermi e feriti, una mano li afferrò, li tirò fuori, li gettò, sì li gettò, come si getta un rifiuto, una cosa inutile, dentro un fosso, che ben presto divenne un tunnel. Si sentirono strappati alla realtà, e mano a mano che procedevano, strisciando, trascinati, strattonati, il suono iniziò a ritornare intatto al cervello. Un suono di sirene, elicotteri, grida e lacrime, un suono che si allontanava da loro, mentre loro erano portati via.

Giovanni respirava a fatica, quasi sbuffava; mentre Francesca, dietro di lui, gemeva. Quelle strane persone incappucciate che li strattonavano, erano uomini robusti, molto alti, tanto alti che, dentro a quel tunnel, dovevano chinare la testa. Poi, quando il percorso sotterraneo finì, e riapparve la luce del sole, l’odore acre dell’esplosivo colpì i loro sensi. Caddero per terra. Gli uomini mascherati porsero loro dell’acqua da delle borracce, poi li strattonarono ancora per invitarli a proseguire.

Falcone diede uno sguardo intorno a sé. E lo vide. Un marchingegno che aveva tutta l’aria di essere un comando a distanza. Lo vide e, come di sua consuetudine, lo fotografò con gli occhi. Sapeva cos’era, lo aveva visto dal vivo parecchie volte, e altre volte in fotografia. Con quello avevano fatto saltare l’autostrada. Con quello avevano scoppiato lui e la sua scorta. Con quello avevano ucciso.

Avevano ucciso tutti, ma a quanto pare lui e sua moglie non li volevano morti. Stavano trascinandoli pesantemente lungo il crinale di una collina. Alla sommità di questa era ferma una macchina scura e si intravedevano altri uomini incappucciati. Scalando quella terra friabile e secca, Giovanni ebbe la sensazione di inerpicarsi su una montagna di merda. Fu allora che cercò di divincolarsi dalla presa ferma e decisa di uno dei suoi rapitori, ma questi resistette e poi mostrò le canne di una pistola che puntò in direzione di Francesca Morvillo. Non disse neanche una parola, ma tanto bastò.

Giunti all’automobile furono caricati nel sedile posteriore. A un paio di chilometri più in là, una folla di mezzi delle forze dell’ordine stavano giungendo sul luogo della strage. Giovanni guardò a lungo prima che i suoi occhi si chiudessero esausti; sentì le sue gote bagnarsi e non comprese se si trattasse di lacrime o di sangue, o di entrambi. Poi, uno svenimento lo colse mentre stringeva ancora la mano di sua moglie.

1.

CTE di Pisa – 24 settembre 2077

Quando l'addetto alle pulizie del Centro Tecnologico Europeo di Pisa diede energia all'ala est dell'immenso edificio, gli schemi mentali di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, contenuti nei circuiti quantici del computer A.L.H. 1900, ebbero immediatamente coscienza di sé. Erano passati 47 anni, otto mesi e 12 giorni da quando l'esperimento aveva avuto inizio. E 47 anni 7 mesi e 5 giorni da quando era stato abbandonato.

La prima cosa che vide Giovanni fu una luce lampeggiante innanzi a sé. La guardò per un istante che parve eterno, poi la riconobbe subito.

Paolo sei tu? – chiese con quella che sembrava una voce, ma che al suo interlocutore parve come una serie infinita di puntini luminosi.

Si, sono io… Dove ci troviamo?

Qual è l’ultima cosa che ricordi?

Ricordo di essere morto. Dopo di te.

Dopo di me? Io non ricordo di essere morto, come sono morto? Scoppiato?

La mafia non è stata, sei morto per un ictus, sei stato sei mesi in coma, ecco perché non ricordi.

Ma qui dove siamo?

Siamo in un computer, Giovanni. Lo proposero a tuo figlio, prima che il tuo cervello si degradasse, di copiare gli schemi mentali. Io ci dissi che tu schemi non ne avevi, insistente sono stato… Ma nulla.

E tu?

E io feci la tua stessa sorte. Mi copiarono anche a me, dopo quindici giorni, che per un infarto me ne andai. Mia moglie prima che morissi mi convinse… A me stare qui dentro sotto forma di luce di Natale non mi piace proprio.

Ma quanto tempo è passato? – chiese Giovanni affievolendo la sua luce.

E a me lo chiedi? Forse un paio di mesi, o forse un paio di anni… O forse pochi minuti.

Cominciasti a fare il filosofo?

Se non fossi stato filosofo tirato indietro mi sarei, con tutto quello che è successo… Mi pare di ricordare una strada, delle sirene… No, allarmi erano, che suonavano. Suonavano. Vero, è stato?

Non so cosa dirti, tutto è cambiato dopo il nostro viaggio a New York, ricordi?

Ricordo Rudy Giuliani, ricordo… Ricordo l’FBI, la DEA. E quell’uomo, come si chiamava?

Quale uomo?

La luce si affievolì, rimase priva di spessore.

Quindi si spense.

2.

Palermo, luogo imprecisato – 19 luglio 1992

La corsa procedeva spedita.

Un ronzio fastidioso tediava le orecchie, introducendosi fin dentro il cervello, quasi a toccare i pensieri.

Quegli uomini che lo sorreggevano, chi erano?

Se lo domandava mentre correva.

Ma non aveva una risposta. Sapeva che qualcosa di terribile era accaduto, che lo avevano preso prima che accadesse, che si era salvato, che la sua vita era rimasta intatta.

No, non intatta, ma viva. Tutto il resto era andato in frantumi, sotto casa di sua madre, quando quel sibilo strozzato aveva iniziato a perforare la sua mente.

Poi quella corsa a rotta di collo, trascinato da tre, forse quattro, o meglio cinque uomini, vestiti come sulla Luna, già, come astronauti o palombari, che dir si voglia. Quegli uomini lo avevano portato via, prima…

Prima di cosa?

Inciampò su un erba di vento cresciuta ai bordi di un marciapiede. Cadde pesantemente.

Lo ripresero, lo sollevarono, e lo introdussero in un furgone che partì velocemente lasciando sull’asfalto parte dei suoi pneumatici.

Dondolava. I suoi occhi stentarono a mettere a fuoco la realtà. Ma quando lo fecero capì che stava lasciando la città.

Dietro i vetri oscurati, vide l’ombra accecante del sole di luglio stagliarsi dietro le colline del golfo di Palermo.

Qualcuno era morto scoppiato al posto suo. E ciò lo faceva incazzare. Ma qualcuno lo aveva rapito, e ciò lo rese irrequieto.

Quella solita irrequietudine che lo prendeva sempre, quando stava iniziando un’indagine.

3.

CTE di Pisa – ottobre 2077

– Le dico che ho captato un impulso quantico sul 1900!

– Senta Matteo, è impossibile. Quei computer sono spenti da quasi cinquant’anni, sono stati dismessi e accatastati nell’ala est. E sono frutto degli esperimenti degli anni Trenta.

– I 1900 servono ancora mezzo mondo, solo in Italia sono sorpassati.

– E si è domandato mai, perché?

– Perché siamo la quinta potenza tecnologica mondiale e solo la Cina, la Corea, l’Unione Americana e la Russia ci sono superiori…

– E quindi, non abbiamo a che fare più nulla con i 1900.

– Sono comunque le macchine che hanno permesso all’Italia di vincere la corsa allo spazio e di sbarcare nuovamente sulla luna insieme agli americani. – Rivendicò Matteo, con passione e orgoglio patriottico.

– Visconti, io capisco che lei debba difendere i computer alla cui costruzione ha così ben contribuito suo padre, ma c’è un limite a tutto.

– Mio padre non c’entra nulla, professor Di Martino, mi creda. Le voglio solo mostrare questi schemi. Poi deciderà lei cosa fare.

Matteo Visconti allungò la mano sinistra, sfiorò il suo polso e subito apparve un piccolo ologramma tridimensionale che volteggiò sulle dita come una minuscola nuvola. Di Martino si fermò sbuffando, odiava i dottorandi che cercavano di mettersi in mostra, soprattutto quando erano saccenti e insistenti come Matteo. Ma sapeva bene che se non avesse dato un minimo di attenzione al suo studente, questi non si sarebbe staccato da lui.

Guardò gli schemi. E, in effetti, vide qualcosa che attirò la sua attenzione.

– Quale sarebbe la sua ipotesi? – chiese, non senza un pizzico di scetticismo.

– Dovrei controllare di che tipo di file si tratti, ma credo che dopo aver connesso l’intera rete al nuovo sistema operativo, questi, non so come e non so perché, pare abbia rimesso in moto vecchie informazioni dormienti.

– In sostanza, cosa vuole da me?

– Che mi dia l’autorizzazione a lavorare su questa ipotesi.

Di Martino lo guardò e capì subito che era una buona occasione per levarselo dai piedi in un batter d’occhio.

– Va bene Matteo, faccia pure.

– Le farò sapere – disse Visconti visibilmente soddisfatto.

– Solo quando sarà completamente certo delle sue ipotesi. Mi raccomando –, aggiunse Di Martino per guadagnare ancora più tempo.

– Ovviamente – rispose Matteo.

Matteo Visconti era stato uno studente modello, uno dei giovani geni del suo tempo. Diplomato a sedici anni, vincitore del Premio Olivetti a diciassette, laureato in Fisica delle Particelle a venti, primo dottorato a ventitré, sullo studio dei Sistemi Informatici basati sui Neutrini di Majorana, secondo dottorato in corso, sullo studio delle Inferenze Quantiche nei processi di Memorizzazione Sistemica. I suoi insegnanti lo odiavano perché lui era più intelligente di loro. I suoi colleghi lo odiavano perché lui era più intelligente di loro. Lui si odiava in quanto non capiva il perché la natura lo avesse dotato di una intelligenza maggiore di altri.

Di fatto era l’unico figlio del grande Andrea Visconti, luminare cattedratico e pioniere dei sistemi informatici quantistici; ma era anche un genio. Quello che la maggior parte dei suoi colleghi aveva difficoltà ad accettare. Per tutti sarebbe stato molto più comodo ricondurre i suoi successi accademici fino al suo ingombrante genitore, molto più arduo ammettere che Matteo Visconti era quello che era per meriti propri.

Per questo era solo.

Per questo faceva una vita monotona.

Viveva con un coinquilino tedesco che, come molti altri tedeschi, odiava gli italiani, allorquando, a metà del Ventunesimo secolo, il Bel Paese era divenuto il Paese Hi-Tech, rubando il primato a Germania, Giappone e Taiwan. Ma alla fine, Marco Strauss, era un buon diavolo di tedesco, e la sua ostilità si concretizzava solo nell’odiare la sfrontata intelligenza di Matteo, non il suo essere italiano.

Socialmente era un recluso.

Non aveva una ragazza. In effetti, era così perdutamente innamorato dei sistemi informatici che molti suoi parenti, iniziando dalla madre, pensavano che se ne sarebbe costruita una su misura tutta per lui. E questo sarebbe stato un bene per la robotica, in quanto avrebbe fatto fare a questa scienza un salto in avanti di almeno mezzo secolo. Ma Matteo non era interessato ad antropomorfizzare i computer, che ormai, già di per sé, erano macchine senzienti e parlanti. Semmai, avrebbe dovuto essere più incline ad antropomorfizzare se stesso, che della macchina stava assumendo i contorni e i percorsi di pensiero.

Ma non gli interessava.

Ora il progetto di capire le macchine aveva la precedenza su tutto, e se questo avesse significato il suo totale e assoluto mimetismo con la genesi del pensiero quantistico, ecco… Lo avrebbe fatto.

E lo fece.

Si gettò a capofitto nel sistema A.L.H. 1900, alla ricerca di quei punti di luce, quei nei offuscati che risplendevano sulla superficie della memoria del sistema informatico ed iniziò a sollecitarli. Lo fece con scrupolo e dedizione per quasi un mese di fila. Fin quando quei punti luminosi iniziarono a rispondere.

La loro fu una risposta microscopica e inverosimile.

Fu una risposta senziente.

Mi pare di aver sentito qualcosa picchiarmi in testa, Giovanni.

Anche a me pare.

Come una visione, mi disse che siamo nel futuro, quasi quarant’anni passarono.

Anche a me sta dicendo questa cosa… Aspetta, tante altre cose, mi sta dicendo.

La mafia non c’è più!

La mafia non c’è mai stata, ricordi cosa dissero un secolo fa?

Il peggior scherzo della mafia è farti credere che non esiste.

Ricevo altre informazioni, l’Italia un paese ricco è, ma ricco assai. Siamo stati su Marte, Paolo!

Minchia! Su Marte, e sembra tutto vero.

Sembra sì. Ma non ci credo.

Alla fine della Mafia?

A un’Italia ricca, a un’Italia ricca non credo.

I soldi, i soldi non ci sono più… Tutto è virtuale… Tutto è…

Senza spessore.

Non si tocca… Ogni cosa è inconsistente… Se chiedo a me stesso chi sono, mi rispondo cose che non capisco. File mnemonico processato quantisticamente su chip isolineare con nanoprocessore integrato su sistema operativo ALH 1900.

Io so chi sono, sono…

Sei?

Giovanni Falcone, sono.

4.

New York, luogo imprecisato – 8 agosto 1992

Viveva da quasi un mese in quella cella. Loro la chiamavano casa, ma per lui era una cella. Fredda, angusta, priva di ogni elementare comfort, se non qualche libro e un computer. Ma cosa poteva farci lui, con un computer. Lui che stilava i documenti legali con la vecchia Olivetti regalo di sua moglie. Eppure, in qualche recondito pertugio della sua mente, sapeva bene che tutto doveva avere un senso.

Si era fatto convinto che era sfuggito a un attentato. Qualcuno lo aveva prelevato sul posto prima che un potente ordigno potesse detonare. Rivedeva ancora la sua scorta. Quei giovani volti di poliziotti. Ognuno di loro aveva una famiglia, ognuno una vita e una storia. Perché a lui avevano concesso di vivere?

Ricordava i volti sorridenti di quei ragazzi, e le loro voci che gli parlavano di famiglia, di passioni e incertezze, di paure e speranze. Vite spente e spremute che non avevano avuto modo di crescere e, magari, soffrire, ma di una sofferenza dolce, di quella sofferenza che ti regala la vita mentre la gusti. Perché a lui era stata data la possibilità di vivere? Di fuggire da quella morte che, in fondo, si aspettava? Cosa lo aveva salvato?

Quindi tornava indietro, di appena qualche mese, e rivedeva l’autostrada. L’immenso cratere. Come sulla Luna, come l’impatto di un meteorite. Là era morto il suo amico.

Per un attimo si erano sentiti invincibili.

Dei duri invincibili siciliani che sputavano in faccia alla corruzione e alla politica.

Per un lungo interminabile attimo che si era concluso con uno scoppio.

Come il Big Bang, quella pazza teoria che voleva l’universo nato da un’immensa esplosione.

Vide a quel punto una luce. La porta si apriva. Parlottavano in inglese, lui era da qualche parte in un territorio in cui si parlava inglese. Aveva volato per ore, ma non sapeva bene dove lo avevano condotto.

Qualcuno si avvicinò e lo chiamò per nome.

– Paolo, sei tu?

Lui si toccò i baffi, come chi riconosce qualcuno o qualcosa, ma che non riesce a definire.

– Paolo, sono io.

Il volto, seppur controluce, gli risultava familiare. Ma non del tutto.

– Mi cambiarono la faccia. Ma sempre io sono.

– Madonna benedetta. – borbottò.

– Sono il tuo amico Giovanni.

5.

CTE di Pisa – 5 novembre 2077

– Si tratta di tracciati neurali, non ci sono dubbi. Il computer che li contiene ha un livello di codifica 8 punto 97. Io non arrivo neanche al 6. Ho bisogno di accedere.

– Mi ripete esattamente chi è lei?

Il volto esterrefatto di Michele Sarri guardò Matteo Visconti con una sorpresa tale che il sistema olografico di comunicazione faticò a riprodurlo.

– Le ripeto, sono un dottorando della Normale di Pisa che si sta occupando di una ricerca su…

– Sì, questo l’ho capito, non ho capito con che criterio lei si rivolge al capo della POLTEC della Toscana per avere un’autorizzazione che non ha neanche un prefetto!

– La scienza, dottor Sarri non ha bisogno di autorizzazioni. La scienza ha fatto grande questo paese e…

– Non mi racconti la solita solfa dei neoprogressisti, perché ne ho piene le tasche di voi scienziati pronti a tutto per l’Italia. Ho visto ammazzare più persone per questo, che ecologisti per il ponte sullo stretto di Messina.

– Le ripeto che si tratta di una questione della massima importanza.

– E io le ripeto che non vedo tutta questa importanza, come la chiama lei!

La comunicazione si interruppe bruscamente lasciando Matteo Visconti interdetto a fissare lo spazio vuoto.

Si toccò il capo in preda alla disperazione. Era a un passo, a un passo soltanto dalla più straordinaria scoperta della sua vita, quando un impiegatuccio, burocrate da quattro soldi lo aveva fermato.

Ma questa non era l’unica cosa che lo tormentava.

Non era strano trovare schemi e tracciati neurali nei computer di nuovissima generazione, molto più difficile in quelli di un decennio prima. Impossibile in un 1900. E poi, perché proteggerli con un livello di codifica così alto?

Era intento a queste riflessioni quando il trillo insistente di una chiamata in arrivo lo riportò alla realtà.

– Visconti, lei è un pazzo criminale! Lo sa in che situazione imbarazzante mi ha messo?

Era il professor Di Martino che parlava dal suo studio. Non era di buon umore. Perché il solerte dottor Sarri della POLTEC ci aveva messo meno di cinque minuti a scoprire in quale ufficio svolgeva il suo lavoro Matteo Visconti.

– Professore, lei mi deve capire io…

– Non la capisco, lei sa che influenza ha la polizia tecnologica qui in Italia, o le sembra di essere in Giappone?

– È vero, ma ho bisogno di quel codice per proseguire i miei studi. Le ho inviato regolarmente tutti i miei progressi, e lei sa bene che ho ragione. Si tratta di schemi neurali. Ed è quantomeno strano che siano protetti da un tale livello di codifica.

– In effetti pare strano anche a me – dovette consentire Di Martino. – Ha una sua idea?

– Credo che questi schemi appartengono a qualcuno di veramente importante, qualcuno che si è prestato a un esperimento agli albori della tecnologia isolineare, quando è stato inventato il 1900.

– Non le prometto niente, ma vedrò cosa posso fare e lei… – disse puntando il dito indice risolutamente verso Matteo. – Lei non prenda nessuna iniziativa!

– Sarà fatto, professore.

6.

USA, luogo imprecisato – 18 aprile 1993

Ciò che Paolo più non sopportava era non poter vedere la moglie e i figli, e la madre. Dire alla madre che quell’immenso scoppio non si era portato via la sua vita. Non sopportava, in sintesi, di essere un sopravvissuto e poi essere un anonimo. Ma era il prezzo che doveva pagare per restare in vita, per far restare in vita tutte le persone che amava.

Invidiava Giovanni che, con lui, aveva avuto la grazia di portare anche sua moglie. Il perché Francesca Morvillo era sopravvissuta insieme al marito era cosa strana. La donna stessa se lo chiedeva. E da mesi, Paolo, Giovanni e Francesca si chiedevano il perché di tutta quella messa in scena.

Vivevano come reclusi in una villa in riva al mare. Il mare era l’oceano Pacifico. Un immenso e piatto serbatoio d’acqua senza fine. Ben diverso dal mare siciliano che conoscevano. In Sicilia, infatti, il mare aveva confini ben precisi, che anche se non si vedevano si intuivano, quasi si odoravano. Ma lì, in America, gli oceani erano come lo spazio, infiniti. Piatti e interminabili, e solo la sera, al tramonto, la linea dell’orizzonte si colorava per mostrare la differenza tra il cielo e il mare.

Avevano pochi contatti con il resto del mondo, tranne per gli uomini che li sorvegliavano ventiquattr’ore su ventiquattro, con un’attenzione spasmodica, quasi maniacale. Ovviamente, da investigatori consumati quali erano, Paolo e Giovanni avevano parecchie ipotesi che frullavano nella loro mente. Molte riconducevano a Rudy Giuliano, altre a Tommaso Buscetta, altre ancora al fantomatico terzo livello, il punto di incontro tra mafia e politica su cui tanto si era discusso.

Quella sera di metà primavera, stavano a parlare della loro condizione in stretto dialetto siciliano, seduti sulla veranda che dava proprio sul mare, mentre un tramonto mozzafiato colorava di rosso un cumulo di nubi all’orizzonte. A pochi passi, tre uomini vestiti in abiti scuri, li controllavano discretamente, nascosti dietro delle colonne in falso stile coloniale che reggevano il portico. L’aria profumava di salsedine, era fresca e colorata anch’essa di rosso, come il crepuscolo.

– In ultima sostanza, quello che stavamo scoprendo era che la mafia controllava ogni cosa a Roma, e che controllava ogni cosa anche fuori. Che la mafia, non era cosa solo siciliana. – sentenziò Giovanni, con il suo volto nuovo a cui neanche lui si era ancora abituato.

– E lo dici a me? Ti ricordi i documenti che ti passai, proprio qualche giorno prima di Capaci? – rispose Paolo.

– Li feci vedere a Francesca.

Francesca annuì con il capo.

– È per questo che ci hanno impedito di morire, per sapere di cosa esattamente eravamo a conoscenza?

– Questa è più una ragione per morire che per vivere.

– Stammi a sentire che mi spiego. E se, dico per ipotesi estrema, volessero servirsi di noi per ricattare qualcuno, per manipolare, manovrare, insomma mi capisci, vero? – chiese Giovanni.

– Ti capisco, in fondo in mano a una nazione straniera, siamo… Che ci sia forse un quarto livello? – rilanciò Paolo tirando su con il naso, e cercando inutilmente quei baffi che gli erano stati tagliati per cambiargli l’aspetto.

– Allora, ricapitoliamo. – intervenne Francesca tirando le somme. – Il primo livello, la mafia militare, il secondo livello i capi mafiosi, il terzo livello i colletti bianchi e le istituzioni. E questo quarto livello da dove viene?

– Credo di capire cosa vuol dire Paolo. Il quarto livello è internazionale. – spiegò Giovanni.

– Vuoi farmi credere che esiste una mafia globalizzata? – chiese la moglie esterrefatta. – Una mafia che non si ferma all’Italia e che ha legami con altre organizzazioni criminali… Che so?… Russe, cinesi, giapponesi… O magari americane?

– E che è? Cosa nuova questa? Buscetta, Badalamenti, Greco… Tutti tra due sponde dell’oceano hanno operato, o sbaglio?

– Non sbagli per nulla Paolo. E questo mi inquieta, mi inquieta non poco… Sotto scacco siamo. – la voce di Giovanni tremava, cercò istintivamente una sigaretta, ma si ricordò solo dopo qualche istante che in quella nuova condizione era stato impedito loro di fumare.

– Già, vista così, avevano una buona ragione per ucciderci, ma anche una buona ragione per non ucciderci. Cosa possiamo fare? – domandò Francesca alzandosi e avvicinandosi alla balaustra della veranda.

– Fottuti siamo. Non abbiamo altra alternativa che stare a guardare e a vedere cosa accade – disse il marito serrando le labbra.

– Sante parole, dottore Falcone, sante parole. Vossia a sapi longa! Pi i pirsoni a vuatri cari vi cunveni collaborare – disse in perfetto siciliano, uno degli uomini che stavano di guardia.

Paolo lanciò uno sguardo al suo collega e amico, e Giovanni annuì con gli occhi. Entrambi avevano compreso come la loro vita non era più loro.

7.

Sede centrale della POLTEC della Toscana, Firenze – 5 novembre 2067

Michele Sarri girovagava nel suo ufficio come una belva chiusa in gabbia. Quello che era appena accaduto lo aveva messo di cattivo umore. Non si aspettava che quella storia saltasse fuori, soprattutto dopo tanto tempo. Uno dei segreti meglio custoditi d’Italia, lo aveva chiamato il suo diretto superiore, quando, quasi un quarto di secolo prima lo aveva messo al corrente della questione, non appena era divenuto capo della POLTEC toscana.

Ed ora, quel segreto era emerso dalla cripta dove lo avevano sepolto. Era un caso o un piano ben congegnato. Di Martino lo aveva rassicurato, come tutti i professori d’università, occupava la sua poltrona da tempo immemorabile, e quindi era stato presente al fatto; era, oltretutto, fratello dell’attuale ministro della Scienza. Ma… Qualcosa non quadrava. Era il suo vecchio istinto di investigatore, appena mitigato dall’appartenenza ad un corpo tecnologico, che gli stava raccontando qualcosa. Se veramente Di Martino, come aveva affermato durante la loro video conversazione, avesse voluto mantenere la segretezza di quella scottante ed antica vicenda, perché permettere al giovane dottorando di intraprendere gli studi sulla cosa? E poi, perché lo stesso Di Martino si era mostrato gravemente imbarazzato nel dover ammettere che il suo allievo si era spinto forse troppo in là? Forse qualcosa nella natura stessa di quel segreto avrebbe potuto aiutarlo. Si rimproverò di essere stato così accondiscendente, venticinque anni prima, con il suo superiore, da chinare il capo senza fare nessuna domanda; rispondendo con un semplice come lei ordina ad un è necessario che tutto rimanga riservato e segreto. Ma tutto, cosa?

Girò la sedia su cui era seduto in un atto di irrequietudine e guardò la parete dietro la sua scrivania. I ritratti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino troneggiavano proprio innanzi a lui, e gli guardavano da anni le spalle. Li aveva conosciuti per caso, a 10 anni, durante una manifestazione sulla legalità che si era tenuta nella sua scuola, a Napoli. Ovviamente non di persona, ma attraverso filmati e documenti d’epoca, che lo avevano rapito. L’integrità e il coraggio di quelle persone, misto alla loro spasmodica ricerca della verità, lo aveva affascinato.

Amava pensare e aveva piacere di dire, che era stato quell’incontro a cambiargli la vita. Li guardò negli occhi e batté la mano destra sul bracciolo della sedia.

Fu allora che agì d’istinto, quasi intuendo che c’era in ballo fin troppo, e ben più di semplici congetture e segreti. Fu allora che, come in preda al demone della verità decise di consegnare a Matteo Visconti i codici che aveva chiesto.

Il professor Di Martino giunse nell’ufficio del Ministro della Scienza, suo fratello Carlo, alle 12.05 in punto. Non era cosa strana che lui lo andasse a trovare, e quindi nessuno degli impiegati, tanto meno il capo gabinetto, ne rimase stupito.

Il ministro era intento a sorseggiare il caffè e a leggere alcuni documenti, quando vide entrare il fratello lo invitò con lo sguardo a sedersi innanzi a lui.

– L’Agenzia Spaziale Italiana mi sta tormentando con le questioni ecologiche nella colonizzazione di Marte, i Neopanteisti minacciano azioni di sabotaggio.

– Si…

– Cosa ne pensi?

– Ecco, non saprei cosa pensare.

– Cos’hai? Ti vedo assente?

– È accaduto qualcosa, qualcosa di maledettamente fastidioso – disse il professor Di Martino come intimidito dalla reazione che il fratello avrebbe potuto avere.

– Cosa hai combinato? – domandò il ministro con piccata superbia.

– Ecco, non pensavo proprio che potesse accadere.

– Vuoi dirmi cosa è successo?

– Avevo dato un compito di ricerca a un mio dottorando, e questi per sbaglio si è imbattuto nel segreto meglio custodito d’Italia e, di sua iniziativa, lo giuro, ha chiesto alla POLTEC della Toscana l’autorizzazione 8 punto 97.

– 8 punto 97! È quello che penso io?

– Esattamente, il quarto livello.

– Ma non era stato distrutto?

– Evidentemente no.

– Ascolta, quando tre decadi or sono ti abbiamo messo a capo del più prestigioso dipartimento scientifico della più prestigiosa università italiana, ti avevamo assegnato un paio di compiti, chiari, netti e precisi… E tu li hai inattesi tutti.

– Non parlarmi così. Io… Insomma, io…

– E smettila di balbettare. Nostro padre aveva ragione, a volte il nepotismo non è un buon affare.

– Cosa facciamo?

– Togli al dottorando qualunque contatto con la fonte, e magari promuovilo, dagli qualche incarico di responsabilità, promoveatur ut amoveatur… E togliti quella espressione da ebete dalla faccia.

Il professor Di Martino non rispose. Si alzò con le gambe ancora tremanti e si diresse verso l’uscita, si fermò appena un attimo sulla soglia della porta, ma non ebbe il coraggio di voltarsi indietro, sapeva bene che suo fratello lo avrebbe ignorato.

CTE di Pisa – 8 novembre 2077

Matteo Visconti era su tutte le furie.

Si trovava davvero a portata di mano di una scoperta straordinaria, ed era stato frenato dalla burocrazia.

Non credeva, nel suo io più profondo, che un’eventuale intercessione da parte del suo mentore, il professor Di Martino, avrebbe potuto fare la differenza.

In effetti, non credeva proprio che qualcuno o qualcosa avrebbero fatto cambiare idea a quel pusillanime e ottuso funzionario statale, quel Sarri che lo aveva quasi deriso per la sua richiesta.

Fu allora che, con sua enorme sorpresa si vide apparire proprio Sarri innanzi alla porta del suo laboratorio, all’Università.

Istintivamente fece un passo indietro.

Temeva, e forse in cuor suo lo aveva anche previsto, che qualcuno sarebbe venuto di persona ad interrogarlo e, perché no? Ad arrestarlo.

Ma Sarri gli porse la mano in modo franco e sincero, accompagnandola con un cordiale buongiorno.

– Cosa è venuto a fare qui? – balbettò Matteo.

– Sono qui per aiutarla.

– Aiutarmi? Ha parlato con il professor Di Martino?

– Sì, ho parlato con lui. Ma no, non è stato lui a convincermi ad intervenire in effetti…

– In effetti?

– In effetti, lui era piuttosto urtato dal suo operato. Quasi infastidito che lei fosse giunto così avanti nella sua ricerca.

– Infastidito? – domandò perplesso Matteo aggrottando le sopracciglia.

– Già… Lei, caro amico, ha toccato dei segreti a cui forse non avrebbe dovuto accedere.

– Ma si tratta solo di vecchi computer in disuso. Hanno attirato la mia attenzione solo come forma di speculazione scientifica, nulla più.

– Fatto sta, che io le darò quei codici, perché, come lei, voglio vederci chiaro in tutta questa vicenda.

Matteo sgranò gli occhi. Non si aspettava quello che era, a tutti gli effetti, un colpo di scena.

– Guardi, dottor Sarri, io sarò alieno ai fatti della vita, ma ho un quoziente intellettivo abbastanza alto da domandarmi il perché di questo improvviso cambio di atteggiamento da parte sua nei miei confronti.

– Se questa è una circonlocuzione per sottintendere che in qualche modo le sto tendendo una trappola, la tranquillizzo subito. Non è una trappola. Ma ha solo la mia parola come garanzia, le basta?

– Me la farò bastare.

– D’altro canto, appena io le avrò dato i codici, dovrò fidarmi a mia volta della sua buona fede nei miei confronti, perché, nonostante sia a capo della POLTEC, non ho una conoscenza così profonda dei sistemi informatici.

– Ok, ci fideremo l’un l’altro. Non vedo altra via.

CTE di Pisa, computer H.A.L. 1900 – 8 novembre 2077

– Mi sento più libero, Paolo, come se qualcuno mi avesse ridato i ricordi.

– Ti parrà strano, ma anch’io mi sento così.

– Ho la netta sensazione che qui non ci siamo per caso.

– Te lo dissi, un programma sperimentale fu. Ci convinsero a…

– No, no… Non dico questo, sperimentale un cazzo… Qui ci misero sul serio, per zittirci.

– Ma di morte naturale morimmo.

– Naturale ci ricordiamo che è stata.

– Troppi film ti sei visto.

– Quali film?

– Che ne so io, film. Di quelli che ti impastano il cervello, morti siamo e la nostra mente è qui dentro a fare da insegna di negozio.

– Potrebbe darsi, ma allora perché io ricordo un’esplosione… Una grande esplosione.

– La ricordo anch’io, Giovanni… Ma sei sicuro che non è l’effetto di un sogno. Per quanto ne sappiamo, anche noi siamo sogni.

– Io ricordo che stavamo indagando, su qualcosa. Un quarto livello.

– Il primo livello è il mafioso di strada. Il secondo il capo mandamento. Il terzo il Politico…

– Il quarto livello è internazionale, mio caro amico. E questa discussione l’abbiamo già fatta.

– Al quarto livello siamo arrivati?

– Mai, non ricordo un quarto livello, ricordo solo di averne parlato, c’eri tu, Francesca, un posto strano… Il mare, ecco c’era il mare. Ora i ricordi stanno iniziando a fluire… Veloci, mi sento scoppiare la testa.

– Testa non hai, ti vedo come una stella.

– Li senti anche tu i ricordi?

– Sì, li sento anche io… Una marea di cazzate ci hanno raccontato, che ictus e infarto, morti ammazzati siamo stati.

– Ma perché metterci qua, perché farci rimbambinire con minchiate se ci hanno fatto fuori.

– Una sola spiegazione c’è, amico mio. Pare che siamo ancora pericolosi.

– Un’altra logica potrebbe esserci… Potrebbero volerci usare.

CTE di Pisa – 8 novembre 2077

La voce di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino usciva dal sistema fonico del computer come distorta, eppure il loro tono, inconfondibile per chi li aveva tanto ammirati come Michele Sarri, fu immediatamente riconoscibile.

Il poliziotto sgranò gli occhi e guardò Visconti con sorpresa e stupore, come fulminato da una scossa improvvisa di energia elettrica.

– Mi dica che è una registrazione.

– Per nulla, la stanno anche sentendo, chiunque essi siano.

– Ma come? Non li riconosce? – domandò Sarri sconvolto dall’ignoranza del suo interlocutore.

– Francamente, no!

– Sono i giudici Falcone e Borsellino – balbettò il capo della POLTEC.

– Chi?

– I giudici che sono morti 85 anni fa, uccisi da un attentato mafioso a Palermo. Ma possibile che non li ricorda?

– Forse ho letto qualcosa, da qualche parte, non saprei.

Visconti era come deluso, aveva sperato di trovare qualcosa di più importante e sostanziale dentro quel vecchio computer che non gli schemi mentali di due personaggi misconosciuti alla storia e alla sua generazione. Oltretutto, non riusciva a comprendere fino in fondo lo stupore che si era impossessato di Sarri, il quale non smetteva di fibrillare per quella che, ovviamente, riteneva una grande scoperta.

– E ora cosa facciamo? – domandò il giovane studente.

– Ci facciamo raccontare tutto, ma proprio tutto… Io sono pur sempre un questore di polizia e quello della morte dei giudici è un caso ancora non del tutto risolto.

– Uno sbirro è… – gracchiò al computer la voce di Paolo Borsellino.

– Visconti, mi dica, come è possibile tutto questo? – chiese Sarri.

Matteo, ancora perplesso dall’accaduto, guardava i display luccicanti dei suoi terminali sfiorando una serie interminabile di tasti con una velocità che poco o nulla aveva di umano. Sentiva sotto le sue dita che quello che stava venendo alla luce, era una delle scoperte più sensazionali che l’uomo aveva saputo compiere dai tempi dalla rivoluzione copernicana. In effetti, avere le prove che, in qualche modo, gli schemi mentali di un essere umano potessero essere conservati, apriva ad infinite possibilità e a una sorta di immortalità.

– Le ho chiesto come è possibile che tutto ciò sia vero? – domandò ancora una volta il dirigente della POLTEC.

– In teoria, il computer quantistico può mappare la rete neurale umana a livello, appunto, quantistico. Mio padre stava lavorando a questo circa quarant’anni fa. Poi è morto. Pensavamo che questo ramo della ricerca si fosse estinto, ma evidentemente qualcuno lo ha continuato.

– Quindi la sua risposta è sì! Ciò che stiamo sentendo non solo è possibile, ma è vero.

– Sembra così, sto eseguendo delle diagnostiche. Devo ripulire le tracce neurali e i file, sembra che alcuni percorsi si siano degradati, lancio un software per ricostruirli, ci vorrà un po’ di tempo.

Sarri si guardò intorno e si avvicinò a quello che aveva tutta l’aria di essere un sistema di interconnessione audio. Si schiarì la voce e parlò.

– Dottore Borsellino, mi può sentire?

8.

USA, luogo imprecisato – 1998

– Dottore Borsellino, mi può sentire?

– La sento eccome, e le ripeto che non ho più nulla da dirle.

Paolo spinse in là il microfono e sbuffando gli voltò le spalle. La camera in cui era chiuso da diverse ore era fredda e gelida, illuminata da luce forte e accecante che lo circondava completamente. Era l’ennesimo interrogatorio a cui era sottoposto da mesi, ormai. Qualcuno, la cui voce era ben nascosta dietro a un effetto distorcente, lo vessava con continue domande sulle sue inchieste e sui suoi rapporti con Giovanni Falcone. Lui rispondeva come poteva, anche perché, periodicamente, era informato degli spostamenti dei suoi familiari. Fotografie dei suoi figli, dei suoi fratelli, di sua moglie, gli venivano sottoposte come monito per ricordagli che era molto più conveniente collaborare che intestardirsi a non rispondere.

E lui collaborava, come poteva, collaborava. Ma non intendeva tradire la fiducia né di Giovanni, né delle persone che erano morte credendo in lui e proteggendolo.

– Allora, mi vuole rispondere? – gracchiò la voce.

– Le ripeto che non è emerso nulla, nelle mie ricerche, sui rapporti tra i partiti del centro destra e i servizi segreti russi. Oltretutto è una cosa che esula completamente dalla ragione delle mie indagini.

– Lei lo sa che quest’uomo di cosa nostra ha incontrato il capo delle FSB russa, e che quest’uomo di cosa nostra lavorava presso la residenza privata di questo politico italiano che lei sicuramente conoscerà bene?

Paolo guardò di sfuggita le foto che erano proiettate su uno schermo proprio innanzi a lui, e trattenne a stento una smorfia di disappunto.

– Vedo che la questione non la lascia indifferente.

– Dopo quello che è accaduto con Mani Pulite, fareste meglio a cercare altrove le risposte alle vostre domande – sentenziò Paolo Borsellino, girando il capo dalla parte opposta da dove parlava il suo interlocutore.

– Chi le dice che non lo stiamo già facendo?

– Nessuno, ma non capisco tutto questo accanimento con me e con quello che ho potuto scoprire con le mie indagini, ormai sono passati anni e anni da quando ero sul campo. Vi ho aiutato a catturare Riina. Avete trasmesso alcune nostre ricerche ai colleghi di Milano e questi le hanno fatte ben fruttare con le loro indagini sui rapporti tra politica e mondo economico. Cosa volete da noi, da me, ancora?

– La cattura di Riina deve averla soddisfatta molto.

– È un lurido bastardo, ecco cos’è!

– Appartiene a una vecchia mafia, provinciale.

– Certo, ora abbiamo il quarto livello. Abbiamo il respiro intercontinentale.

– Ma lei crede davvero che avremmo lasciato l’economia del mondo in mano a gestori così ignoranti e, francamente, regionalizzati come i vari Riina e Provenzano.

– Provenzano non l’avete ancora preso.

Paolo guardò la luce accecante innanzi a lui con occhi di sfida. Poi prese il pacchetto di sigarette che faceva bella mostra sul tavolo e se ne accese una. Una nuvola di fumo gli coprì il volto.

– Non l’abbiamo ancora preso, è vero. Ma sono sicuro che lei ci aiuterà.

– Vi aiuterò, è mio dovere. Ma tutto quello che so ve l’ho detto.

– Allora ci aiuterà a capire ciò che sappiamo noi.

USA, luogo imprecisato – 2001

Giovanni Falcone stava scrivendo in una piccola agenda imbolsita e sgangherata. La sua era una calligrafia minuta, quasi invisibile, che metteva in fila come un bambino fa con dei soldatini. Gli occhiali, calati fin sulla punta del naso, rivelavano una precaria condizione della vista; ma il suo sguardo attento e vivace faceva trasparire un trasporto inusuale, quasi spasmodico, nel suo atto di registrare su carta i rivoli di un pensiero altrimenti inespresso.

La stanza era buia, appena illuminata dalla luce di una lampada resa fioca da un fazzoletto di stoffa che la ricopriva quasi del tutto. Innanzi a lui, nella penombra, stava Francesca, che lo guardava scrivere e che poi, ritmicamente, come sollecitata da una paura incombente, guardava fuori da una finestra.

Dopo lunghi minuti Giovanni finì di scrivere. Prese l’agenda, la legò con un elastico, sollevò un lembo del tappeto sotto i suoi piedi, fece leva su una delle assi del pavimento con lima per unghie e fece scivolare il libriccino. Ricompose il tutto, e quindi si lasciò andare pesantemente sullo schienale della poltrona su cui era seduto. Sospirò profondamente senza dire nulla, prese i suoi occhiali e li richiuse posandoli su un tavolino e iniziando a tamburellare sullo stesso con le dita, in un atto di puro nervosismo.

Francesca lo guardò per un lungo istante, mentre lui era sinistramente illuminato da quella lampada fioca che generava più ombre che luci. Quindi fece scivolare tra le sue mani una fotografia che rifletté, con il suo fondo traslucido, i volti di alcuni suoi familiari immortalati durante un pranzo.

– Smetti di guardare quelle immagini, ti fai solo del male – disse Giovanni.

– Li controllano, e noi non possiamo fare nulla.

– Stiamo collaborando, cos’altro possiamo fare?

– Cosa hai scritto?

– Credo che sia in atto un tentativo di sovvertire le istituzioni europee, questa storia dell’Euro deve dar fastidio a molti. Ho appuntato alcune riflessioni in base alle domande che ci hanno fatto oggi. Quando usciremo da qui potrebbero tornare utili.

– Davvero? Pensi che usciremo? Pensi che ci faranno recuperare i tuoi appunti e ce li faranno usare?

– Dobbiamo provare. Dall’attentato il controllo si è molto allentato. Ho contato solo quattro persone di guardia. È stata una cosa grossa.

– Sono morte migliaia di persone, non sappiamo che ruolo questa gente abbia avuto – disse Francesca, continuando a passeggiare nervosamente. – Tu che idea ti sei fatta?

– Semplice, non si organizza un attentato di questa portata senza avere molti complici nei posti chiave, anche tra le forze dell’ordine, anche tra i servizi segreti.

– Quindi anche tra i nostri secondini?

– Probabile, si è ipotizzato un quarto livello, un livello internazionale. Quello che è accaduto ha un respiro mondiale. Ci sarà una riduzione dei diritti civili, con la scusa di combattere il terrorismo. Si entrerà nella vita delle persone, si spierà ogni singola comunicazione, sempre con la scusa di combattere il male. In tutto questo la mafia o è vittima o è artefice. Mi viene in mente quando essa ha determinato la resa dell’Italia nella seconda Guerra Mondiale, aiutando gli americani a invadere la Sicilia, ad esempio.

– Vuoi dire che dietro quello che è accaduto c’è la mafia? – domandò Francesca stupita.

– Magari non da sola, magari insieme ad altri. E non la mafia di provincia, quella dei Riina, per intenderci, o di Corleone. Una mafia internazionale, appunto, di colletti bianchi.

– E cosa accadrà?

– Accadrà, che prima o poi, anche loro cadranno.

Giovanni si accese una sigaretta, inalò ben bene il fumo, e guardò la moglie che lo fissava esterrefatta, immersa nella nuvola di fumo che aveva appena prodotto. La donna gli si avvicinò, gli toccò la mano e sussurrò sottovoce: – Voglio chiederti solo una cosa: ma non ti stanchi mai di avere fiducia nella giustizia?

9.

CTE di Pisa – 12 novembre 2077

Sarri ascoltava e riascoltava da quasi tre giorni l’incredibile flusso di informazioni che era riuscito a raccogliere dalle deposizioni degli engrammi mnemonici di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La sua mente era confusa, in effetti non riusciva a trascendere tanto quanto bastava per considerare quegli engrammi mnemonici risalenti a quasi mezzo secolo prima, i veri giudici antimafia che credeva morti da ottantacinque anni.

– Visconti, mi ascolti, fino a che punto queste cose parlanti sono attendibili? Perché ciò che ho raccolto è veramente inquietante.

Doveva fidarsi di quello che lui considerava un piccolo pallone gonfiato, figlio di una generazione di baroni universitari, intellettualmente dotato, ma solo per creare imbarazzo nel suo interlocutore di turno.

– Sono copie quantistiche di engrammi mnemonici gestiti da un sofisticato software di simulazione vitae. Direi abbastanza attendibili. Oltretutto ho scoperto che il programma gestisce 18.000 giga quad di dati.

– Diciamo che mi fido della sua esperienza e valutazione.

– Non vedo altra alternativa.

– Potrei andare a parlare con il professor Di Martino, se non sbaglio ha molta più esperienza di lei.

– Potrebbe, ma ben sa che non è così. Questi affari li ho scoperti io, li ho rianimati, ho permesso loro di parlare con lei. – Matteo Visconti sbuffò, mentre continuava a palpeggiare con sicurezza le tastiere tridimensionali della sua consolle, spostando immagini sospese per aria con violenta nonchalance.

Sarri lo guardò di sbieco poi si alzò dalla sedia in cui aveva trascorso le ultime nove ore e si stiracchiò senza emettere un gemito. Prese il foglio elettronico su cui aveva registrato tutto, e diede un’occhiata agli appunti fittissimi che aveva preso mentre i due giudici raccontavano la loro incredibile storia. Stentava ancora a credere ai suoi occhi e, mentre leggeva, passeggiava nervosamente da un lato all’altro del laboratorio dove si trovava.

– La smette di camminare alle mie spalle? – domandò innervosito Visconti.

– Perché? Che fastidio le do?

– Devo svolgere un lavoro di estrema precisione, pare ci siano altri dati criptati, dovrebbe inserire il suo livello di autorizzazione.

Sarri guardò l’immagine fluttuante dove apparivano numeri, grafici, colori e sinusoidi, e scandì ad alta voce una sequenza alfa numerica. Lo schermo si dissipò, per poi riapparire con una sequenza fittissima di numeri che si diradarono, per poi comporre una serie infinita di righe che si accendevano e spegnevano ininterrottamente.

– Ci sono sovrastrutture quantistiche anomale in questa zona del tracciato engrammatico di Paolo Borsellino.

– Cosa vuol dire?

– Sembrano aggiunte posticciamente, come se qualcuno avesse voluto modificarle.

– Potrebbe essere un decadimento dovuto al tempo trascorso?

– Potrebbe, ma anche no.

– Non faccia l’enigmatico, mi dica qualcosa in più. Entrambi qui stiamo rischiando culo e carriera.

Matteo Visconti prese un foglio elettronico accanto a lui e lo porse a Sarri. Questi lo attivò e apparve il titolo di quello che aveva tutta l’aria di essere un ebook. Elementi di Quantistica Computazionale di Andrea Visconti.

– Cosa dovrei farci? – chiese il poliziotto.

– È il libro di mio padre, se lo legga e poi mi ponga le domande corrette.

10.

USA, Università di Princeton (New Jersey) – 27 luglio 2027

Andrea Visconti stava riponendo il suo tablet dentro la valigetta, che aveva ottenuto come regalo per il suo venticinquesimo compleanno dalla nonna paterna. Si trattava di un cimelio che risaliva a quasi cento anni prima, in vera pelle animale, con modanature in ottone e una vecchia serratura con chiave. Apparteneva alla famiglia da generazioni, ed era giusto, in fin dei conti, che fosse giunta fino a lui.

L’aula dove si era svolta la lezione era quasi deserta, pochi restanti studenti stavano abbandonando velocemente gli scalmi dove erano stati seduti. E Andrea vedeva tutto come in un sogno sfocato. Giovanissimo laureato, aveva appena tenuto un seminario sulle frontiere della Quantistica Computazionale, sottolineando come le recenti scoperte sul qubit rendevano possibile perfino duplicare gli engrammi mnemonici di un essere umano. In verità, la platea era stata un po’ freddina o, comunque, non così entusiasta da far prevedere che l’università o qualche d’un altro, potessero essere interessati ai suoi studi; ma Andrea Visconti non demordeva. Non aveva intenzione di arrendersi.

Uscì dall’Università con la sensazione di aver lasciato qualcosa di incompiuto. I viali alberati e le architetture classiche lo distraevano, insieme al caldo tepore di luglio. Fu a quel punto che si abbandonò a sedere su una panchina e, reclinando la testa, chiuse gli occhi pensieroso. Rimase in quello stato per alcuni secondi quando si sentì toccare una spalla. Con gli occhi accecati dal sole riacquistò la posizione eretta del capo.

– Lei è Andrea Visconti? Corretto?

– Sono io, con chi ho il piacere…

– Non importa, volevo sapere se può ascoltare per qualche minuto una proposta.

Era una donna sulla quarantina. Il viso increspato da rughe di espressione. Gli occhi neri e i capelli mossi con ampie zone grigie. Le labbra, serrate, parlavano quasi senza muoversi.

– Mi dica.

Andrea era incerto se continuare quella strana conversazione. Il suo interlocutore aveva in sé qualcosa di inquietante che lo metteva profondamente in imbarazzo. Comunque fece cenno alla sconosciuta di sedersi sulla panchina che occupava, proprio accanto a lui.

– Cosa ne direbbe di ricevere un finanziamento di venti milioni di dollari per condurre i suoi esperimenti sulla digitalizzazione degli engrammi mnemonici?

– Venti milioni? Solo venti? – chiese Visconti sorridendo.

– Non è uno scherzo, professore.

– Non sono professore.

– Comunque non è uno scherzo.

La donna lo fissò a lungo, allungando la sua mano fin sulla mano di Andrea.

– Per chi dovrei lavorare?

– Per un’agenzia governativa.

– Di quale paese? – domandò Visconti, visibilmente imbarazzato dal tocco della donna.

– Del paese che la ospita. Di questo paese.

– Io sono italiano, sono un cittadino dell’Unione Europea.

– Lo sappiamo. E quello che le chiederemmo di fare è per il bene anche del suo paese.

– Guardi, così su due piedi non so cosa dirle.

– Capisco, le sto inviando un promemoria con le nostre proposte – disse la donna sfiorando un dispositivo che aveva al polso. – Le guardi con attenzione, ma stia attento. Il file si cancellerà tra ventiquattr’ore ed è impossibile farne copia.

– Ah! – esclamò Andrea perplesso e sorpreso.

– Veda anche di non mostrarlo a nessuno è protetto da una password retinica, solo lei lo può guardare.

– Ehi, un momento come avete fatto a…

– Lo studi con attenzione, ma faccia presto.

La donna si alzò, fece un breve cenno di saluto con il capo, poi si dileguò discretamente così com’era apparsa, lasciando in Andrea Visconti la strana sensazione di aver viaggiato nel futuro, almeno una decina d’anni nel futuro.

11.

CTE di Pisa – 16 novembre 2077

Sarri si affacciò dalla finestra e vide che il sole stava lentamente tramontando all’orizzonte. La grande cupola di alluminio trasparente che proteggeva il centro storico di Pisa emanava un riflesso accecante, anche da alcuni chilometri di distanza. Le nuvole in cielo, dalla consistenza polverosa, macchiavano di bianco l’orizzonte e trattenevano a stento il rosso vivo del bagliore solare.

– I giudici mi hanno detto di aver conosciuto suo padre.

– È probabile, mio padre ha lavorato a lungo negli Stati Uniti.

– Mi hanno anche detto che è stato lui a convincerli a prender parte all’esperimento della registrazione quantistica dei loro engrammi mnemonici.

– È probabile anche questo.

Visconti scriveva con un pennino su un foglio elettronico e si toccava l’orecchio destro con fare perplesso. Ogni tanto tirava su con il naso, poi tamburellava con la mano non impegnata, e si stiracchiava come in preda a uno spasma nervoso.

– Cosa c’è? La vedo nervoso…

– Ci sono alcune cose che mi fanno pensare che sia tutta una messa in scena.

– L’esperto è lei, lei me lo dovrebbe dire.

Sarri era nervoso e irrequieto. Aveva appreso molto dalla lunga conversazione con i due giudici siciliani, o con ciò che ne rimaneva. Aveva compreso la maggior parte della storia del XXI secolo, in un modo diverso da come lui la conosceva. E, sopra ogni cosa, aveva capito perché tutto era stato tenuto nascosto e perché quello era il segreto meglio custodito d’Italia. Ora, quell’essere arrogante e pomposo, stava ipotizzando che tutto era artefatto, che ogni cosa andava nuovamente rivista.

– Insomma, Visconti, mi deve dire a che gioco stiamo giocando.

– Il gioco si chiama scienza. Nella scienza contano i fatti. E se da un lato è plausibile che in qualche modo gli engrammi cerebrali di due persone credute decedute da quasi un secolo vengano registrate su un computer quantistico; dall’altro, questo è impossibile visto i dati che sto rilevando. Ci sono degli errori ricorrenti a livello modulare nelle nanoparticelle di base che compongono i file.

– Cosa significa?

– Può significare che qualcuno ha modificato le registrazioni per far credere che siano false, oppure che le registrazioni sono false.

– Quindi tutto e il contrario di tutto!

– Benvenuto nel mondo dei Neutrini di Majorana.

Roma, luogo sconosciuto – 17 novembre 2077

– Cosa hanno scoperto?

– Quello che volevamo scoprissero.

– Hai fatto un buon lavoro, a volte il nepotismo è un buon affare.

Il ministro Di Martino parlava dal suo studio con il fratello attraverso un collegamento visivo di altra generazione, su uno schermo bidimensionale vecchia maniera. Era un modo sicuro e discreto per dialogare senza timore di essere intercettati e spiati. L’unico problema era che i due interlocutori erano solo dei volti piatti e sfocati, piatti e sfocati, s’intende, rispetto alla tridimensionalità e profondità di un collegamento olografico. Ma il ministro aveva già fin troppo fastidio dell’inadeguatezza del fratello per poterlo vedere oltre le due dimensioni, e quel collegamento lo soddisfaceva appieno.

– Il segreto dunque è salvo. – affermò il professore. – Visconti farà la fine del padre, deriso e esiliato dalla comunità scientifica.

– Immagino di sì, perché? Hai qualche ripensamento?

– No, non credo. Ha cercato di scavalcarmi, mi ha messo in imbarazzo. No, nessun ripensamento. E Sarri? Cosa ne sarà di lui?

– Non so, dovrò sentire il mio collega agli interni. Probabilmente lo faremo prefetto e lo allontaneremo dal suo incarico.

Il ministro si fermò, aveva colto nel fratello come un accenno di perplessità. La comunicazione bidimensionale, in questo caso, era fallace. Non riusciva a trasmettere le sfumature di un volto pensoso.

– Cosa ti rende incerto?

– Ecco, io ho agito senza saper nulla di ciò che conteneva quel tracciato engrammatico, ma la curiosità è rimasta…

– Meglio non porsi troppe domande.

– Ma è passato quasi mezzo secolo, cosa mai ci potrà essere di così maledettamente segreto che dopo cinquant’anni non possa essere rilevato?

– Carissimo fratello, ma non hai capito nulla dell’Italia? Qui tutto è ereditario, ogni cosa lo è. Il potere, l’abuso di potere, l’ingiustizia, l’abuso dell’ingiustizia. Si eredita la dittatura, la nostalgia della dittatura, il nome della dittatura. Noi siamo un paese costruito sulla malinconia del si stava meglio quando si stava peggio, quindi non cinquanta, ma nemmeno cinquecento anni possono bastare per dimenticare.

E la conversazione finì lì, perché tutto ciò che c’era da dire, era stato detto.

12.

USA, Luogo imprecisato – 13 ottobre 2029

Francesca era una donna sola. Quando Giovanni era morto, pochi giorni prima, aveva cercato invano di seguirlo, aveva pregato un Dio in cui credeva poco, lo aveva implorato di farla morire, ma rimanendo inascoltata. Ora guardava fuori dalla finestra della sua piccola casa, tra i boschi di un territorio sconosciuto, sorseggiando un caffè lungo, americano, brodaglia imbevibile che era riuscita a farsi piacere.

Paolo e Giovanni erano scomparsi, avevano raggiunto una bella età, in barba a chi, il secolo prima, li voleva morti. Ma non c’erano più. Le uniche persone con cui poteva conversare, dialogare dei tempi andati, delle loro battaglie, delle loro speranze. Non c’erano più.

Il bosco rifletteva una luce solare insistente. Il sole che non era più il sole, ma una palla di fuoco che non si poteva reggere senza adeguata protezione. E il verde degli alberi, che era venato di striature giallastre e rossastre, come solo l’autunno sa disegnare, riempiva gli occhi della donna quasi soffocando la sua immaginazione.

Un trillo insolito l’avvertì che era in arrivo una videochiamata. Non riceveva nessuna videochiamata da quasi sette giorni. In effetti, da ultra ottuagenaria, non riusciva ancora ad abituarsi a quella forma di comunicazione, ma tant’è, era cosciente che ci avrebbe convissuto ancora per poco.

– Buongiorno Francesca.

– Buongiorno Andrea, in cosa posso esserti d’aiuto?

– Ho portato a termine il lavoro di cui ti parlavo.

– Hai studiato a fondo il cervello di Giovanni? – la donna sogghignò pensando a ciò che avrebbe detto il marito di quell’incredibile tentativo di mappare la sua mente.

– Vedo con piacere, di averti messo di buon umore.

– Oh, non avertene a male. Mi fa piacere vedere come qualcuno lavori sui cervelli di Falcone e Borsellino, anche per capire come possano essere stati così pazzi da rischiare tutto ciò che avevano per un ideale.

– In fin dei conti anche Eistein ha donato il suo cervello alla scienza.

– Loro non lo hanno donato, ve lo siete preso. – Questa volta il volto di Francesca non sogghignava, ma ebbe una profonda smorfia di disprezzo.

– Io non credo di aver fatto qualcosa di male, credo di averli resi immortali, ecco tutto. – Andrea Visconti si difendeva come poteva e, in fin dei conti, credeva a ciò che diceva. – Li ho resi in parte immortali. La loro mente continuerà a funzionare, a elaborare, a essere utile. In cosa pensi che io abbia sbagliato?

– Il tuo errore è di essere complice di qualcuno che ci ha privato della nostra vita. – Sentenziò Francesca posando su tavolinetto accanto a lei la tazza colma di caffè che aveva in mano.

– Nessuno voleva dar seguito alle mie ricerche, loro mi hanno finanziato. Io… Insomma credo di non aver fatto del male a nessuno.

Visconti balbettava e gesticolava. La sua interlocutrice ebbe un moto di compassione. In fin dei conti se lui era colpevole, era il meno colpevole. Lo guardò in silenzio mentre il volto dell’uomo si oscurava di tristezza.

– Vienimi a trovare uno di questi giorni. E spiegami esattamente cosa sei riuscito a ottenere dal cervello di quei due poveri matti.

Andrea annuì con la testa, ma non aggiunse parola.

USA, Luogo imprecisato – 16 ottobre 2029

– Un momento, un momento, arrivo!

Francesca si alzò lentamente dal letto e diede un’occhiata a una vecchia sveglia analogica che aveva sul comodino, proprio accanto al suo letto. Erano le tre di notte. Il bosco nel mezzo al quale era immersa la sua casa era completamente silenzioso, e si udivano solo i colpi di qualcuno che bussava insistentemente alla sua porta.

Una donna anziana, sola, non del tutto in salute, avrebbe dovuto usare più cautela in casi come quello, in cui uno sconosciuto in piena notte, si presentava bussando incessantemente senza usare l’apposito campanello. Ma Francesca Morvillo era stata moglie di Giovanni Falcone, non sapeva neanche dove risiedeva la cautela.

– Ah, sei tu!

Andrea Visconti aveva il volto pallido e tirato. Il sudore, copioso, scendeva dalle sue tempie. Gli occhi, sgranati, guardavano con sospetto tutt’intorno. Le mani tremanti si stringevano a vicenda.

– Cosa ti è accaduto?

– Spero che non mi abbiano seguito.

– Chi ti dovrebbe aver seguito?

Loro.

– Capisco, entra.

– Non sono sicuro che posso restare senza metterti nei guai.

– Ho ottantacinque anni, cosa vuoi che me ne importi.

Francesca scrollò le spalle e invitò Andrea a sedersi proprio innanzi a lei, su una sedia di vimini.

– Dimmi tutto – lo incitò.

– Mi hanno tolto il progetto. Ho avuto il tempo di copiare gli engrammi mnemonici dei due giudici. Di installare il software di simulazione vitae e testarlo, ma poi mi hanno buttato fuori.

– Lo hai testato?

– Sì, l’ho testato. Funziona. Sembra funzionare, almeno. L’H.A.L. 1900 è perfetto per gestirlo.

– Se lo dici tu…

– Ho avuto modo di parlare con loro.

– Con chi? – chiese Francesca frugando nelle tasche della sua vestaglia.

– Con i giudici. Ho parlato con loro.

– Ah, ma davvero? E cosa ti hanno detto? – la donna si accese una sigaretta e aspirò profondamente.

– Non dovrebbe fumare.

– Ti ho già detto quanti anni ho?

– Sì. Me lo hai detto. Comunque, ho parlato con loro. Brevi frasi disorganiche. Il software deve imparare, poi imiterà i loro percorsi neuronici. Ci vorrà un po’ di tempo, ma è un tempo che io non avrò.

– Cosa ti hanno detto.

– Poco, mi hanno chiesto di te. Mi hanno chiesto dove si trovavano.

– E tu? Tu cosa hai detto loro?

– Che si trovavano al sicuro. – Andrea balbettò e arrossì. – Ma non è vero! – Si alzò e iniziò a passeggiare nervosamente.

– Visto che sei in piedi passami quella scatola sopra la credenza.

Visconti si guardò intorno e vide un contenitore di legno intarsiato di fattura orientale. Lo prese e lo porse a Francesca che, una volta apertolo, ne trasse fuori alcuni taccuini ingrossati da una pesante calligrafia e da numerosi ritagli di giornale che erano incollati tra le pagine.

– Sono di Giovanni. Ha preso una serie di appunti, diciamo così alla vecchia maniera, ho come l’impressione che solo questo resterà del suo lavoro e della sua memoria. Prendili.

Andrea tese la mano e afferrò quegli appunti con devozione e rispetto.

– Pensi che cancelleranno tutto il mio lavoro? – chiese.

– Forse si, forse no. Ma certo lo insabbieranno sotto una tale coltre di polvere, da essere dimenticato.

– E con questi cosa dovrei farci?

– Riportali in Italia. Tienili cari come un’assicurazione sulla vita. Cercheranno di limitarti, di imbrigliarti, tu fai sapere loro di avere queste carte. Faglielo sapere con astuzia, tra il dire e il non dire. Tu saprai bene come fare.

– Pare vero. – sbuffò Visconti.

– Ho fiducia che ci riuscirai.

– E tu? Cosa farai tu?

– Mi ucciderò di sigarette pensando e ripensando a quando eravamo giovani e incoscienti e andavamo incontro alla morte senza paura.

13.

CTE di Pisa – 19 novembre 2077

Fuori dalla finestra il sole era tramontato da un pezzo. Sarri guardava lo schermo tridimensionale innanzi a sé, spostando immagini e fissando parole, con la velocità di un uomo curioso che vuole giungere presto al dunque.

– Il segnale è ancora incerto, continui a parlare… – lo esortò Matteo Visconti.

– È quello che sto facendo.

– Continui non si fermi.

Sarri gli rivolse uno sguardo pieno d’odio e continuò a parlare con i due giudici attraverso il pannello di controllo olografico.

– Giudice Falcone, secondo lei, e in ultima analisi, perché siete stati rapiti?

– Vede, potrei citarle mille particolari oltre quelli che io e il mio collega abbiamo già raccontato. Io credo che, in un primo momento siamo serviti loro per distruggere alcuni personaggi politici e mafiosi che stavano intralciando con le loro azioni interessi più alti. Il quarto livello, per intenderci. E da qui gli arresti e le morti eccellenti. Poi, una volta che si sono liberati di questi personaggi obsoleti e ingombranti, in un secondo momento, siamo serviti loro come fonte d’informazione per conoscere i personaggi chiave della nuova generazione di potenti.

– Ma perché copiare i vostri engrammi mnemonici? Perché mettere su tutto questo?

– Non ne ho idea, non ne abbiamo idea, – rispose Paolo Borsellino. – È come se quest’informazione mi mancasse, come se avessi un vuoto dov’era contenuta. Lo senti anche tu, vero Giovanni?

– Il segnale si sta degradando, quella anomalia, l’errore ricorsivo, ha tutte le caratteriste di un virus a decompattazione, sta eliminando i file a livello subatomico.

– Cosa vuol dire? – chiese Sarri.

– Si stanno cancellando e non so come rimediare.

– Qualcuno è intervenuto? Dall’esterno, ovviamente…

– Probabile, è molto probabile.

Matteo Visconti tremava, era in preda a una crisi di nervi. Velocemente spostava file e impostava percorsi subengrammatici sfruttando il pannello olografico che aveva innanzi a lui. Ma il suo sguardo frustrato e inquieto non trasmetteva nulla di buono.

– Cosa sta accadendo, dottor Sarri? – chiese Giovanni.

– Qualcosa sta distruggendo i vostri percorsi engrammatici.

– Evidentemente non sono del tutto sicuri di aver cancellato dai nostri tracciati neurali il ricordo di quale sia il fine ultimo di questo esperimento. – disse Paolo Borsellino.

– Qualunque sia la risposta, qualunque sia questo ricordo o questa informazione deve essere per forza conservata anche in forma non digitale. Non avrei mai affidato a una sola fonte questioni così importanti. – chiarì Falcone.

– Vuol dire che esiste qualcosa di scritto, una registrazione su nastro, qualche fotografia, insomma qualcosa di analogico che possa spiegare tutto? – chiese Sarri sorpreso.

– Sicuramente, in fondo siamo uomini del XX secolo, non del XXI. – sentenziò Paolo.

– Il segnale si degraderà del tutto tra trenta secondi. E non riesco a fare un backup, non ci riesco. – annunciò Matteo Visconti.

– Giovanni, lei mi deve dire dove posso trovare questi documenti conservati, diciamo così, alla vecchia maniera.

– Venti secondi – scandì Visconti.

– Non ne ho idea. Ma Francesca avrebbe sicuramente trovato il modo. – rispose Falcone.

– Sua Moglie?

– Sì, mia moglie, lo avrebbe trovato.

– Il modo… – ripeté Paolo Borsellino.

– Dieci secondi.

– Cosa posso fare per voi? – chiese Sarri lanciando uno sguardo perplesso a Matteo Visconti che continuava ad armeggiare con lo schermo olografico.

– È evidente che nelle nostre tombe ci sono solo fantasmi, la prego trovi i nostri veri corpi e li riporti in Sicilia. – disse Giovanni Falcone.

– Sarà un mio impegno. Vi riporterò non solo in Sicilia, ma in Italia. È giusto che il nostro paese sappia del vostro destino.

– Non la possono più sentire – disse Visconti.

– Mi sentiranno – rispose Sarri.

Livello liquido di spin quantistico, relazione tra due quasiparticelle.

– Ti vedo ancora come una luce, Giovanni.

– Anch’io Paolo, una luce intermittente. Una volta esisti una volta non esisti.

– Abbiamo sognato, o stiamo sognando?

– E chi lo sa. Siamo sospesi tra l’essere e non essere.

– Non ci hanno cancellato, ci hanno resi invisibili.

– Minchia se siamo invisibili!

– Meglio sarebbe stato se fossimo morti dove siamo morti. – disse Paolo. – Per quanto mi riguarda io sono rimasto su quel marciapiede in via D’Amelio.

– Meglio mi sento, io in un’aula di tribunale. – rispose Giovanni.

E il suo sorriso, apparve a livello subatomico, come un’onda del mare che riga l’orizzonte.

Rilevanze scientifiche

1.

Nel 2014, un analogo del fermione di Majorana è stato osservato per la prima volta dagli scienziati dell'Università di Princeton. Per rilevare la quasiparticella, è stata impiegata una tecnica di spettroscopia ad alta risoluzione. Il fermione di Majorana è comparso all'interno di un superconduttore di piombo con una lunga catena di atomi di ferro. L'immagine del fermione è stata catturata all'estremità del filo di metallo, come era stato previsto negli anni 30. I risultati dell'osservazione sono stati pubblicati il 31 ottobre 2014 sulla rivista scientifica Science. Una prova della sua esistenza è stata annunciata dai ricercatori del Oak Ridge National Laboratory che lavorando in collaborazione con i colleghi del Max Planck Institute e dell'Università di Cambridge il 4 aprile 2016, in concomitanza della rilevazione per la prima volta dello stato di liquido di spin quantistico.

2.

Zhang also continued to develop ideas on other topological states of matter, including ‘Majorana states’, because they mimic the behaviour of elementary particles — first hypothesized by Italian physicist Ettore Majorana — that are their own antiparticles. Majorana states are considered to be promising candidates on which to base future quantum computers. In a paper published in October, Zhang and his collaborators described a scheme to put this into practice that could be simpler than those suggested in previous proposals. (fonte Nature.com)

[Zhang ha anche continuato a sviluppare idee su altri stati topologici della materia, tra cui gli "stati di Majorana", perché imitano il comportamento delle particelle elementari – ipotizzate per la prima volta dal fisico italiano Ettore Majorana – che sono le loro stesse antiparticelle. Gli stati di Majorana sono considerati candidati promettenti su cui basare i futuri computer quantistici. In un articolo pubblicato in ottobre, Zhang e i suoi collaboratori hanno descritto uno schema per metterlo in pratica che potrebbe essere più semplice di quelli suggeriti nelle precedenti proposte.]