"Confusione [...] e melodramma. Perché le persone non restano al loro posto e non fanno come gli viene detto, dannazione?"

Confusione e melodramma: è questo il nucleo principale del romanzo. Lo stesso Gorgas Loredan, autore delle parole citate, non resiste alla tentazione di andare fuori dagli schemi e agire di sua iniziativa, creando confusione e situazioni melodrammatiche. E come è buona tradizione del melodramma i personaggi nulla possono contro il destino, tanto da apparire, in generale, figure assai misere. Tra essi non spicca nessuno, nessuno è in grado di dominare la situazione; quello che dovrebbe essere il protagonista, Bardas Loredan, non risalta nella lettura come figura prevalente: rimane una delle tante pedine che si muovono tra le righe, convinte di avere vita propria ma in realtà impotenti. La sensazione generale è che l'autore non abbia fiducia nelle sue creature, che per questo risultano essere allo sbando, trascinate dalla corrente degli eventi. Anche quelle più volitive e sicure, come Niessa, in fin dei conti si arrendono e cambiano strada, non riescono a realizzarsi secondo i propri piani; sebbene Niessa sia la Direttrice della Banca di Scona e apparentemente sia lei alla guida della famiglia Loredan, i suoi fratelli e la figlia svicolano spesso dai tentacoli del suo potere. Analogo discorso vale per i personaggi che le si oppongono: neppure tra loro esiste un vero cattivo o un vero nemico da combattere; si parla piuttosto di fazioni, senza dei leader dichiarati. Quanto detto però non significa che i protagonisti siano privi di un loro carattere, anzi. Sono di particolare effetto le descrizioni dei fratelli Loredan, dei loro sentimenti, del rapporto di amore/odio che provano nei confronti dei propri familiari. Essi sono in continua tensione, alla ricerca del "bene della famiglia" oltre che di pace interiore; ma non riescono a scrollarsi di dosso il desiderio di vendetta. E allora, il destino incombe su di loro, pronto a scattare, come un arciere che sfrutta le doti di flessibilità ed elasticità della sua arma. Bardas è ben cosciente di tale situazione e con un arco in mano non può che pensare: "Come la famiglia Loredan [...] alcuni di noi si piegano e si allungano, altri schiacciano e vengono schiacciati, ma un po' di sangue e di segatura, e una pelle in comune ci tengono uniti insieme senza poter fare nulla per impedirlo, e quando ci pieghiamo e ci allunghiamo e ci schiacciamo insieme, nel momento che precede la rottura possediamo capacità infinite di fare danni. Io sono stato lontano da questa famiglia per molti anni, e adesso mi trovo al centro dell'arco, nel punto in cui la compressione si trasforma in espansione, dove la forza immagazzinata si trasforma in violenza. E ho costruito quest'arco per mio fratello Gorgas."

Confusione e melodramma, dicevamo; melodramma soprattutto. C'è sempre qualcuno che pensa di avere il controllo della situazione, magari tramite l'utilizzo di magie, maledizioni e affini, poi di fatto è il destino ad averla vinta. Inutile dire che proprio questi sono i mezzi con cui Niessa e la Fondazione di Shastel, in lotta tra loro per il potere, vogliono vincere: arcieri ed alabardieri si scontrano sul campo di battaglia solo "pro forma", in realtà la vera guerra è tra i maghi che i due contendenti hanno, di nascosto, assoldato. Magia? I "maghi" coinvolti, Alexius e Gannadius, non ne sono per nulla convinti. A detta di tutti, popolo, studiosi e politici, con la magia si può cambiare il corso della storia, influendo su quello che viene chiamato il Principio. Ma quest'ultimo, per Alexius e Gannadius che hanno speso la propria vita a studiarlo, non è modificabile; essi sono fermamente convinti che la magia non esista, e che dunque la loro collaborazione sia superflua e inutile. Così la trama si svolge su due "scenari": quello materiale, dove la vita quotidiana dei Loredan si scontra con le vicende militari, e quello "astratto" dove il Principio viene manipolato, o forse semplicemente osservato dai protagonisti. E questi due scenari sottolineano le sostanziali somiglianze tra i contendenti: la disunità, la disorganizzazione, l'impotenza difronte ai fatti reali, i desideri e le aspirazioni, quasi ad indicare che non esiste un "migliore" o un "buono". E' un libro riflessivo, dunque: non mancano i colpi di scena, ma la narrazione rimane spesso lenta e attenta più alle miserie umane che non allo sviluppo vero e proprio della trama. A tratti, soprattutto nella parte centrale, il romanzo risulta un po' pesante e prolisso, il ritmo della narrazione cala e si perde in discorsi di politica e filosofia che, pur non dispiacendo, non riescono a tenere viva l'attenzione del lettore. Proprio in tali discorsi si riconferma la sfiducia dell'autore nelle capacità dei suoi personaggi: essi infatti sono trascinati dalla guerra in corso in un vortice più grande di loro, vortice di cui sono essi stessi gli artefici principali. Di fatto, sia il Principio malleabile o meno, chi si trova a combattere non lo fa certo con cognizione di causa: più che di vincitori si può parlare di non perdenti, nel senso che la vittoria arride loro più per caso che per merito. Se il perdente (sul piano tattico) è veramente un disastro, il vincitore non è certo da meno... Allora, sarà il Principio a fare la differenza?