Quando la fantascienza si mordeva la coda

Primordi di una critica di science fiction in Italia

Cenni sul faticosissimo inizio e relativo cammino, tutto in salita, d'una critica della fantascienza nel nostro Paese fra sostenitori, oppositori, denigratori e acuti - talora anche illustri - osservatori. Ma i nodi della fantascienza italiana ancor oggi non appaiono del tutto risolti.

di Vittorio Catani

Vittorio Catani (Bari) è componente del comitato di redazione di Anarres. Dopo la pubblicazione del suo ultimo romanzo (Il quinto principio, Mondadori 2009) sono apparsi diversi suoi articoli su Robot, Delos e La Gazzetta del Mezzogiorno.

Lanfranco Fabriani mi ha chiesto un articolo sulla nascita di una critica di fantascienza in Italia, insomma una cronaca dei primissimi anni; e io ho tenuto a precisare che l’avrei scritto secondo il mio punto di vista, che non è quello del “critico” — chè tale non sono — ma del lettore-scrittore (al più, mi ritengo un semplice “divulgatore” della fantascienza). Ebbene, se si accetta questa visuale, ho certamente da dire o rievocare nomi, eventi e atmosfere.

Mi accorsi subito (erano gli anni Cinquanta, avevo dodici anni) che mi sarebbe piaciuto molto leggere “sulla” fantascienza, il nuovo e “diverso” genere narrativo che tanto coinvolgeva non solo me, ma anche qualche amico. A quell’epoca vivevo a Brindisi e l’avvento di Urania nel 1952 precedette di tre o quattro anni il mio trasferimento a Bari. A Brindisi un caro amico e compagno di scuole medie poi perso di vista, Enzo Monaco, acquistava Urania a ogni uscita; era stato lui a segnalarmene la presenza in edicola. Appassionato di “fantascienza” io in verità ero già da qualche anno, benché quel neologismo ancora non esistesse: molti fumetti che apparivano su Topolino degli anni Quaranta, ancora in formato tabloid, erano fantascienza pura. Per non parlare di Flash Gordon. Con Enzo avevamo interminabili chiacchierate serali, se non notturne, in lunghe passeggiate per le strade brindisine e sulla banchina del porto, riguardanti episodi-chiave di romanzi scritti da Jack Williamson, Alfred E. van Vogt, William Temple e altri; autori che trovavamo esaltanti e completamente innovativi rispetto a qualunque cosa avessimo letto fino ad allora (i vari Salgari, Dumas, Verne, Jack London, Fenimore Cooper eccetera).

Quando, poco dopo, la mia famiglia dovette spostarsi a Bari, incontrai un lettore di Urania nella mia classe, il compagno di banco Pino Cioce (frequentavo l’Istituto Tecnico per ragionieri): anche con lui nascevano commenti a non finire sui libri letti, che spesso ci scambiavamo. Intanto esordiva la rivista Oltre il Cielo; pochi anni dopo vennero Galaxy e Galassia, Cosmo Ponzoni e via discorrendo, mentre dal mondo della scuola passavo a quello lavorativo. Su alcune delle pubblicazioni citate si potevano cogliere qua e là, in editoriali che solitamente battevano la grancassa pro domo propria, o nella rubrica dedicata alla posta dei lettori, spunti più specifici e chiarificatori sul genere fantascientifico, o qualche prezioso — quasi centellinato — dato biografico sui fantascrittori (che ingenuamente immaginavo una casta di semidei irraggiungibili e mentalmente privilegiati), o qualche commento più illuminante. Nel frattempo erano nate le fanzine, che spesso dedicavano pagine a recensioni e a una sia pur primordiale “critica”.

Va detto però che quest’ultima, per quanto fosse spesso seria nelle intenzioni, esprimeva soprattutto pareri e giudizi personali, ruotando quasi esclusivamente su se stessa e mordendosi la coda; era cioè tautologica, autoreferenziale, limitandosi a raffronti interni al genere. Peraltro anche striminziti, giacché la fantascienza moderna da noi non aveva nessuna storia cui attingere. Sembrava che autentici strumenti critici non esistessero per questa narrativa; se qualcuno azzardava un passo in avanti, tirava fuori – ahimé – argomenti che mi riportavano ai banchi scolastici e a Dante o Manzoni: già qualcosa di più, ma percepivo una sorta di forzatura; una sostanziale goffaggine, inadeguatezza, una inattualità che non spiegavano l’essenza e il fascino di pagine che io “vivevo” immerso in scenari, tecniche, argomenti, sensazioni, lontanissimi da tutto quanto avevo sperimentato leggendo un libro.

A ogni modo l’esigenza precisa d’una critica di fantascienza si fece strada in me nel 1954. Cito questo anno perché fu allora che mi colpì molto un articolo in coda a un Urania, in una rubrica intitolata “Curiosità scientifiche”. Quella volta (non ricordo il volume specifico, che non possiedo più) la rubrica, inattesamente, non era dedicata ai soliti – benché interessanti – argomenti di astronomia o fisica e simili. Il titolo era infatti: “Che cos’è la fantascienza?”

Vorrei riportarne l’incipit (l’articolo mi interessò al punto che lo ricopiai su un mio quaderno-diario, oggi vecchissimo, per cui ho la possibilità di riportarlo tale e quale):

A Parigi, al “Village” di Saint-Germain-des-Prés, è stato fondato un circolo di “amatori” della Fantascienza. Nella prima riunione fu posta questa domanda: “Che cos’è, in realtà, la Fantascienza?” Ognuno ha cercato di definirla nel modo più esauriente. Ma trovare una definizione esatta per questo nuovo genere di narrativa era difficile e la domanda è rimasta senza precisa risposta. “Tuttavia” fa osservare Claude Yelnick in un suo acuto saggio, “il soggetto è importante. Basterebbe citare due o tre nomi a caso di scrittori di fantascienza delle generazioni passate: Jules Verne, naturalmente; poi, altrettanto naturalmente, G.H. Wells, Rosny Aîné, lo stesso Edgar Poe”. Prosegue lo scrittore: “La fantascienza potrebbe essere considerata la letteratura del condizionale”. Infatti invece del classico C'era una volta delle favole, si potrebbe cominciare con Ci sarebbe una volta… Partendo da tale condizione si può sognare finché si vuole, l’essenziale è rimanere nella logica e non dimenticare le conseguenze implicite del presupposto, fossero anche paradossali. […] Il buon racconto si distingue appunto per questo. Il cattivo racconto invece cambia le carte in tavola distribuendole secondo la comodità narrativa dell’autore.

Questo articolo, seppure grezzo, mi faceva scoprire cose importanti. Anzitutto c’era in un altrove a noi prossimo che non fossero gli Usa – la Francia – gente d’un certo livello culturale che si poneva seriamente i miei stessi (confusi) interrogativi. Avrei ritrovato concetti analoghi, ma più estesi, circa un decennio dopo nel volume La fantascienza di Lino Aldani. Avrei anche ritrovato Yelnick su un “Urania” del 1956, col suo insolito (e unico per l’autore) romanzo L’uomo, questa malattia. Mi stupiva molto che persone presumibilmente serie e compunte s’interessassero con profondità di fantascienza, laddove noialtri lettori italiani vivevamo al riguardo una situazione molto ambigua (ne dirò tra poco). Nell’articolo sul vecchio Urania Yelnick tentava una classificazione del genere, ed era una classificazione tematica (secondo me già allora discutibilissima, in quanto molto vaga ed elastica) del tipo: l’azione si svolge sulla Terra ma nel passato e mette in scena uomini; l’azione si svolge sulla Terra nel presente; l’azione si svolge tra umani nel futuro; gli uomini alla conquista dello spazio; esseri non umani, cioè di “essenza” diversa ma pensanti (“questo è un tema ancora poco sfruttato, se non da van Vogt”, veniva scritto) e così via. Dunque lo stesso Yelnick non sfuggiva alle forche caudine del rimestare internamente al genere.

Accennavo a una “ambigua situazione” di noialtri lettori. Il fatto era che la fantascienza, salvo rarissime eccezioni, venne subito guardata dalla cultura ufficiale come il fumo negli occhi. Inutile tornare su (dolorosi) argomenti oggi noti e sviscerati. Aggiungo solo un dettaglio a mo’ d’esempio: un mio insegnante delle elementari ci aveva ribadito che mai si sarebbe potuti andare sulla Luna, perché nello spazio non c’è aria e un aereo non potrebbe sostenersi. Figurarsi come doveva essere giudicata correntemente una narrativa che non si limitava a immaginare viaggi sulla Luna, o su Marte, ma metteva in scena extraterrestri, o concetti per l’epoca assolutamente folli e demenziali come il “viaggio nel tempo”. Ma si sa, negli anni Cinquanta l’Italia era – a parte radio e luce elettrica – una propaggine dell’Ottocento, dominata, specie nel profondo sud, da una cultura che si poteva definire contadina se non rurale. “Spiegare” l’argomento di un Urania o farsi scoprire con uno di questi libri tra le mani poteva mettere in serio imbarazzo. Mio padre buonanima — per tornare a eventi a me vicinissimi — detestava quella pubblicazione, mi aveva proibito di leggerla e quando ne scopriva una copia la sequestrava facendone coriandoli. Secondo lui si trattava di “libri scritti male"  e che "rovinano la fantasia”. In definitiva mi ero ridotto ad acquistare gli Urania guardandomi prima bene intorno e facendo incursione all’edicola quando non c’era altra gente. Oggi può sembrare grottesco, eccessivo: ma ebbi conferma che la mia non fosse paranoia qualche tempo più tardi (erano i primi anni Sessanta) allorché, in una trasmissione radiofonica cui mi pare partecipasse Roberta Rambelli, qualcuno se ne uscì dicendo che noialtri lettori di fantascienza avevamo vissuto i primi anni della nostra insana passione di nascosto, “come carbonari”. Una verità sacrosanta! Orbene: se questa era la situazione della fantascienza in Italia, si può immaginare cosa potesse essere la critica di fantascienza in un contesto simile.

E tuttavia, lentissimamente, qualcosa incominciò a cambiare. Ho già accennato all’uscita del saggio di Aldani (1962). Io non lo sapevo, non potevo saperlo, né lo sapeva probabilmente alcuno dei fanta-lettori, ma già negli anni Cinquanta c’erano stati tentativi di critica ad alto livello. Nel 1953 sulla rivista letteraria Nuovi argomenti era apparso forse il primo vero contributo critico di rilievo, a firma di Sergio Solmi: Divagazioni sulla Science Fiction, l’Utopia e il Tempo. Lo stesso Solmi avrebbe firmato poi, nel 1957, l’illuminante saggio posto a prefazione dell’antologia Le meraviglie del possibile. Intanto, quasi contemporaneamente al volumetto di Aldani ci fu la pubblicazione di un libro rimasto anch’esso celebre e che per molti anni fu l’unico altro riferimento per il lettore nostrano: Nuove mappe dell’Inferno di Kingsley Amis (1962). Un saggio che aveva i suoi limiti, ma che aprì altri orizzonti e fece conoscere o apprezzare più compiutamente autori e titoli di cui non avevamo cognizione (tipo Un cantico per Leibowitz di Walter Miller jr., gli scrittori della cosiddetta social science fiction: Pohl, Kornbluth, Sheckley, Tenn; e altri). Quanto al versante dei saggisti italiani, in verità le acque stagnanti ogni tanto si  smuovevano: per esempio Umberto Eco si occupò anche di fantascienza nel suo Apocalittici o integrati (1964); uscirono alcuni scritti di Gillo Dorfles, di Luce d’Eramo (Introduzione alla fantascienza sulla rivista Nuova antologia, 1966; Fantascienza e fantareligione su Studi cattolici, 1969); e qualcun altro. Mosche bianche, roba senz’altro interessante ma ignota ai più e senza alcuna influenza su un tetragono establishment culturale, saldamente se non stizzosamente arroccato nella sua torre d’avorio.

Va anche detto che a fine anni Sessanta non mancavano, fra gli stessi lettori, voci indifferenti (se non addirittura insofferenti) alla nascita e allo sviluppo d’una critica nostrana. Citerò per tutti il prof. Paolo Todesco, docente di chimica presso l’università di Bari poi trasferitosi Bologna, assiduo lettore e accanito collezionista di fantascienza. Secondo Todesco una critica si sarebbe dimostrata precoce per la troppo giovane e acerba fantascienza italiana e avrebbe potuto nuocerle se non inibirla.

Ad ogni modo, di rilievo in ambito strettamente fantascientifico – eravamo già nel 1965 – la nascita della rivista Gamma, che usava proporre brevi contributi critici, specie a firma di Valentino De Carlo e Vittorio Spinazzola. Ma non solo. Spesso c'era uno scambio abbastanza approfondito di pareri con i lettori. Val la pena citarne un paio, a mio parere significativi circa i temi che poi avrebbero diviso in due l'universo fantascientifico nostrano. Sul n. 15 di Gamma (febbraio 1967) nella rubrica della posta un lettore (Maurizio Fabbri, Milano), scriveva:

(...) L'unico racconto insulso è Dies Illa di Marco Paini (...) Per me qui non c'è molta sf. E' una favoletta, un abbozzo tirato giù, molto sbrigativo e dimesso; inoltre non ha la minima parvenza di rigore scientifico (...)

Risposta della rivista:

Lei non sarà mica di coloro che danno l'ostracismo a Bradbury perché trascura la precisione parlando dello zero assoluto o descrive un Marte che non esiste? In questo noi siamo con Bradbury (e con Paini), perché ogni autore ha il diritto di crearsi il mondo che desidera: d'altro canto ha anche il dovere di dare verità artistica a questo suo mondo, e se non ci riesce le critiche sono più che meritate. Su questo piano ha ragione lei, o l'abbiamo noi, secondo i punti di vista: a noi il racconto di Paini non è dispiaciuto affatto , dati gli scopi che si prefiggeva (...)

Sullo stesso n. 15 una lettrice, Lina Bisson di Milano, scriveva:

Sul n. 22 della rivista Atlante è stato pubblicato un saggio di argomento fantascientifico o, più precisamente, di critica "sociologica" della letteratura di fantascienza. L'autore, Alessandro Casiccia, ha cercato, a quanto pare, d'individuare alcuni caratteri costanti o ricorrenti in questa materia e ne ha tratto una classificazione a fini interpretativi (...) Il punto però ora è questo (...) Sarà possibile, e ammissibile, applicare un metodo strutturalistico di analisi non più solo al mito, alla favola, al folclore, ma anche alla narrativa fantascientifica? Ritengo, forse immodestamente, che la domanda sia d'importanza fondamentale, specie se si desidera acquisire una più chiara consapevolezza di ciò che si può e non si può fare, e anche dei veri significati e delle vere funzioni (...) che stanno sotto la superficie della materia in questione...

Lettera indubbiamente precorritrice di quanto sarebbe accaduto, ma non prima di un decennio, anzi di più. Risposta della Redazione:

La sua è una domanda veramente interessante, anche se la risposta non è così facile e semplice come la sua fiducia nelle nostre "doti" lascerebbe credere (...) A nostro giudizio la fantascienza, quella buona almeno, si deve considerare quale letteratura di pieno diritto e non soltanto una merce di consumo: quindi ad essa non si possono applicare classificazioni schematiche a scopo interpretativo, forzatamente semplicistiche. Un esempio: nella grande letteratura esistono due romanzi, Madame Bovary e Anna Karenina, i quali potrebbero essere classificati come "indagini psico-sociologiche sul comportamento e le relazioni di due donne borghesi, colpevoli d'adulterio e abbandonate dall'amante". Facile, vero?, voler fare a ogni costo i cacciatori di tendenze. Ma nessuno si è mai sognato di farlo. Perché dunque farlo per la fantascienza, quella d'autore almeno? Comunque non intendiamo chiudere la discussione sull'argomento (...)

Come si può rilevare, Gamma riprendeva se non anticipava temi che sarebbero stati fortemente e talora anche acerbamente dibattuti specie negli anni '70/80, senza peraltro addivenire a conclusioni definitive.

Umberto Eco sopportò a sua volta l’onere (durato decenni) d’aver inquadrato la fantascienza come “letteratura di idee” (se non ricordo male, in Apocalittici e integrati). Successivamente, cioè negli anni Settanta, questa concezione venne duramente contestata dalla nascente e fervente (evviva!) critica italiana di fantascienza. Personalmente, e credo d’essere in eccellente compagnia, resto del parere che le “idee” abbiano avuto una particolare importanza nella science fiction e ne costuiscano — oltre che una peculiare caratteristica — un reale patrimonio, molto più di quanto non accada per altri generi narrativi; benché verosimilmente non possa fondarsi su tali basi la critica d’un genere letterario.

Giunti a questo punto, ovvero ai prodromi d’una seria riflessione critica sull’argomento, la mia “rievocazione” supera i limiti temporali convenuti e non avrebbe motivi per proseguire. Vorrei però chiudere con alcuni cenni "anticipativi". Gli anni Settanta avrebbero visto un ricchissimo proliferare di volumi, articoli, saggi, convegni, relazioni, finalizzati – spesso entusiasticamente – alla elaborazione critica della fantascienza, con variegati se non contrastanti punti di vista. Periodo intenso e viscerale i Settanta, che purtroppo non si sarebbe più ripetuto. Va peraltro aggiunto che anche un apparato critico più attento e pertinente, cioè quello che prese il via da quegli anni, non ha comunque avuto mai vita facile in Italia, anche se si possono fare numerosi nomi: Piergiorgio Nicolazzini, Carlo Pagetti, Antonio Caronia, Nicoletta Vallorani, Vittorio Curtoni, Oriana Palusci, Riccardo Valla, Giuseppe Lippi, Gianni Montanari, Domenico Gallo, Roberto Lombardi, Domenico Cammarota, Mario Fabiani, Claudio Asciuti, Silvio Migliaccio, Daniele Brolli, Mirko Tavosanis (certamente me ne sfuggono altri). C’erano i “fanatici” dello strutturalismo, che per un certo periodo – soprattutto negli anni Ottanta – imperversarono quasi dominando la scena: la science fiction doveva essere analizzata non con strumenti ad hoc ma con gli stessi “attrezzi” validi per la letteratura in genere, lo strutturalismo in particolare. Riconosco la serietà e l’utilità di questo indirizzo critico-filosofico, (già accennato in una delle "lettere" a Gamma sopra riportate); tuttavia ricordo ancora con terrore gli schemi complicatissimi — roba da fisica dei quanti — che venivano esibiti con massima serietà e intransigenza sulle pagine delle riviste specializzate e di alcune fanzine, accompagnate da un linguaggio esoterico e talora dallo scherno verso coloro che praticavano approcci differenti alla fantascienza. Fra l’altro lo strutturalismo (com’è noto) prescinde rigidamente da qualsiasi valutazione estetica ed extratestuale. Oppure ci si interrogava – per opposto verso – nella febbrile, inesausta ricerca d’uno “specifico fantascientifico”, insomma di una “teoria unificatrice” (per far coppia con la similitudine dei quanti) che contemperasse le esigenze d’una critica adulta con quel non-so-che di “diverso” che ineluttabilmente, lo si volesse o no, continuava come un beffardo diavoletto a strizzare gli occhi dalle pagine delle pubblicazioni specializzate e pareva vanificare ogni apparato critico, o scavare fossati rispetto ad altri generi narrativi anch’essi d’origine “popolare” (per non dire del confronto con la letteratura “alta”).

Circa questo specifico cruciale argomento, però, aveva già gettato una pietra nello stagno addirittura Aldani dal 1962 con il suo citato saggio allorché precisava, nel corpo della sua famosa definizione della fantascienza, come quest’ultima sia “capace di porre il lettore, attraverso l’eccezionalità o impossibilità della situazione [descritta], in un diverso rapporto con le cose”. Un’affermazione che quindi riconosceva e sanzionava inequivocabilmente le valenze anche extraletterarie della science fiction, il suo “entrare e uscire” dal mondo reale. Scoglio questo sul quale si sono scontrati — e continuano a scontrarsi — critici e lettori. D’altro canto la science fiction è una narrativa che molto spesso si fonde con una percentuale variabile di saggistica: i francesi parlano non per nulla di roman scientifique, si tratti di scienze hard o soft, di sociologia, economia, psicanalisi o quant’altro. La fantascienza attinge inoltre alla satira, e partecipa del romanzo utopistico settecentesco. Ciò su cui ci si interrogava nei decenni trascorsi era se fosse corretto e soprattutto esaustivo valutare queste letterature, la fantascienza in particolare, considerando solo — per dirne alcune — le “funzioni” di Vladimir Propp, o la struttura sottostante alla narrazione, o l’aspetto puramente estetico. Ma quante sono le storie di fantascienza rimaste immortali semplicemente per un’idea brillante, o per un dettagliato e crudo scavo in qualche meandro del presente?

Per quali vie si siano evoluti simili interrogativi, se esistano nuovi punti fermi, diranno adeguatamente altri autori e altre pagine della rivista alla quale ho l’onore e il piacere di collaborare, e i cui fondatori ringrazio. Aggiungendo che da molto tempo in Italia si sentiva la necessità di una pubblicazione del genere. Per troppi anni la science fiction italiana ne è rimasta orfana, la critica ha languito, l’editoria relativa — già prevalentemente amatoriale in Italia — è praticamente scomparsa salvo estemporanei interventi, si è persa l'abitudine alla critica seria e anzi molti dei nuovi lettori — che non hanno avuto modo di leggerne — non sanno neanche cosa sia. Sono venuti meno un dialogo e un confronto aggiornato, essenziali per lo stesso sviluppo d’una fantascienza locale e per una più ampia visione della fantascienza in sé. Alcune cicatrici, temo, appaiono già indelebili. La strada da percorrere non è facile.

A maggior ragione: lunga e proficua vita ad Anarres!

 

Bari, agosto 2007