Prove di Apocalisse
Posted on Giugno 5th, 2009 in Tempo presente |
“Utopia Experiment”: prepararsi al Disastro Globale. Ma chi parla più di Utopia?
Il tema della difesa dell’ambiente è ormai, possiamo dire, un ritornello quotidiano. All’argomento sono interessati gruppi di studio, scienziati, economisti, ecologi, uomini di governo e perfino… utopisti. Il tema è stato rinfocolato dall’attuale situazione. Per esempio, si potrebbe partire proprio dalla crisi in atto per premiare la costruzione e diffusione di auto ecologiche, come pure di immobili concepiti con criteri di risparmio energetico (oltre che anti-sismici). Alla base c’è un problema reale. Il nostro pianeta sta cambiando, e due elementi essenziali del discorso sono: clima e petrolio.
Ma venendo ai dettagli, a parte una concordanza di fondo su un generico stato d’”emergenza”, si nota che le proposte di soluzioni (indicazioni su tempi e possibili rimedi) solitamente differiscono fino a entrare in antitesi. Anzi, per più d’uno la stessa “emergenza” non esisterebbe affatto, oppure - ed è l’orientamento del nostro governo, per il quale le priorità sarebbero altre - per il momento essa viene tranquillamente ignorata e rimandata a tempi “migliori”.
Non di rado ascoltiamo in tv il tale scienziato (o ne leggiamo) pronto a ricordarci che anche nell’Ottocento l’anno X registrò in inverno 30 gradi all’ombra; o che l’anno Y sopportò uragani e piogge torrenziali come quelle dell’altro ieri. Pessima - se non pagata - informazione, perché subdolamente tace su eventi che in passato furono eccezioni, laddove oggi diventano regola. Ma l’emergenza c’è davvero, dipenda o meno dalle nostre emissioni di gas (per il clima), o che sia prossimo o lontano il “picco” del petrolio. Finora vince chi ha fatto pressioni per lasciare le cose come sono: per esempio le potenti lobby automobilistiche, petrolifere e del carbone. Ci sono poi coloro che deridono chi difende la natura ma poi tirano fuori grosse sciocchezze (chissà se per ignoranza o malafede), pur rivestendo cariche importanti, come io stesso ho potuto personalmente constatare ed evidenziare qualche mese fa (vedere qui, Il mistero dei ghiacci artici).
Tra gli interessati all’argomento “ecologia” ho nominato, non a caso, gli “utopisti”. Vorrei infatti rammentare una iniziativa realizzata non molto tempo addietro in Gran Bretagna: Utopia Experiment. Una vera e propria “scuola di sopravvivenza” (autentica, non un taroccato reality show) che ha immaginato di vivere in uno scenario di collasso ecologico a livello planetario. Un “corso” al quale ci si poteva iscrivere gratis e per un breve periodo (massimo tre mesi… per i più resistenti). Le regole erano semplici; ciascuno doveva: lavorare; collaborare al sostentamento della comunità; seguire criteri di spartanissimo ambientalismo, curando cioé un estremo risparmio delle energie e dei materiali. Per dirne una: fare il bucato nella stessa acqua in cui ci si lava. Insomma, fingere davvero una “fine del mondo”.
E in effetti, Utopia Experiment (durato dal luglio 2006 al dicembre 2007) si è posto come limite massimo, ideologicamente, della sperimentazione sul tema. D’altronde il fondatore del progetto, Dylan Evans, docente di filosofia al King’s College di Londra e di Robotica presso l’Università di Bath, per il suo utopistico esperimento ha preso la mossa da dati concreti.
Ma proviamo a prospettare uno scenario di clima deteriorato e di petrolio esaurito. Fra l’altro, non da ora sono presenti in libreria analisi rigorose e non di parte (quelle che non hanno finanziatori, dichiarati o meno…), le quali ci informano sui mutamenti climatici e i loro effetti su di noi, su fauna e flora, campagna, mari, ghiacciai e così via; sull’esaurimento delle risorse naturali; gli incrementi di popolazione (in alcune zone) e la crescita (questa dovunque) delle disparità sociali. Il fatto è che, comunque, nei prossimi venti anni saremo obbligati a ridurre consumi e comodità. Ergo: sarebbe opportuno, se non doveroso, che tutti cominciassero a prepararsi, a capire cosa fare - per esempio - per risparmiare energia.
Petrolio in diminuzione significa aumento generalizzato dei prezzi, ma soprattutto “crollo della civiltà”: dal petrolio si ricavano (per dirne una) i fertilizzanti azotati. Senza di questi, secondo lo studioso Vaclav Smil (Storia dell’energia, ed. il Mulino, 2000) la Terra non avrebbe mai potuto sostenere più di 2 miliardi di persone. Per non parlare di auto, di trasporti, elettrodomestici, commercio e così via, a catena.
Utopia Experiment ha dunque voluto tenere conto di tutto ciò, e ha creato a suo tempo un po’ di scalpore (presto fagocitato dal magma mediatico). Peraltro in Inghilterra esistono decine di comunità più o meno analoghe, anche se “non fanno notizia”. Nel mondo intero ce ne sono a dozzine; in passato ce ne sono state migliaia. Sull’argomento si sono scritti saggi, romanzi, si sono girati film (ultimo fra i quali il notevole e controverso Into the wild, 2007, di Sean Penn).
Facendo un bel passo indietro, infatti, ricorderò anzitutto che proprio l’Inghilterra è stata una delle patrie di iniziative tipo Utopia Experiment. L’industriale cotoniero e sindacalista gallese dell”800 Robert Owen è considerato uno dei primi appartenenti alla corrente del “socialismo utopistico”: nel 1825 Owen fondò negli Usa una colonia a carattere comunitario chiamata New Harmony, che restò attiva per tre anni. Ovviamente non esisteva lo spettro della devastazione ambientale, tuttavia New Harmony già applicava modalità di vita spartane, egualitarie e “più vicine alla Natura”. Non era invece una comunità pre-ecologica l’esperimento posto in atto da Henry David Thoreau (Usa, 1845-1847) nei boschi del Massachusetts: lì egli visse infatti tutto solo, dimostrando - sia pure in soli due anni - che ci si poteva benissimo sostenere con i prodotti della terra e concedersi modestissime “comodità”. Ancora oggi è nel cuore di molti il suo racconto autobiografico, con valenze di critica politico-sociale, Walden. Vita nel bosco (Donzelli, 2005). Di Thoreau è stato scritto che “…si ritirò per due anni a Walden capeggiando una rivoluzione d’un solo uomo, e la vinse”. Nel 1847 l’anarchico individualista statunitense Josiah Warren, già discepolo di Owen e poi suo antagonista, fondò nell’Ohio la comunità Utopia, in cui venivano più strettamente messi in atto, tra i componenti, rapporti non verticistici, una più equa ripartizione delle (modeste) proprietà e, sia pure indirettamente, si applicavano precetti pre-ecologisti.
L’Ottocento fu d’altronde il secolo di pensatori e operatori quali Fourier, Kropotkin, Proudhon, Bakunin, gli stessi Marx ed Engels; costoro perorarono una visione “socialista” dalle differenti sfaccettature (con alcuni d’essi siamo alle origini della dottrina anarchica), ma sottintendente sempre un più diretto contatto con la natura e un maggior rispetto per quest’ultima. Agli inizi del XIX secolo l’Inghilterra fu la patria del “luddismo”, movimento popolare capeggiato da Ned Ludd, operaio che per protesta nel 1779 fece a pezzi un telaio meccanico: suprema bestemmia per un mondo che si stava velocemente avviando al Capitalismo; infatti da fine ‘700 la legge prese a punire duramente la distruzione o il danneggiamento degli attrezzi da lavoro. (Che Ned Ludd sia davvero esistito, però, non è certo). Il luddismo contrastava l’introduzione delle macchine, considerate causa di disoccupazione e bassi salari.
Queste “visioni” e iniziative, pur non avendo direttamente a che fare con l’ecologia, lasciavano peraltro intravvedere i primi semi delle future “comuni”, veri gruppi politici di dissidenza; non è qui il caso di farne la storia. Va notato peraltro che esse riemersero poi come funghi nel XX secolo intorno al famoso Sessantotto: hippies, Figli dei Fiori, Maggio Francese. Celebre il raduno di Woodstock, nel 1969, durato tre giorni, con la presenza di 400 mila partecipanti (per alcune fonti, i presenti furono 1 milione).
Quest’ultimo movimento, essenzialmente giovanile, si accese praticamente in tutto l’Occidente: si volevano rivoluzionare i rapporti di potere, la famiglia, il lavoro, le istituzioni. Da qui il rifiuto del marcusiano “uomo a una dimensione”, ma anche la presa di coscienza ecologica (il volume Primavera silenziosa di Rachel Carson, 1962, era già stato il primo manifesto ambientalista della storia, oltre che atto d’accusa contro lo scempio perpetrato, in particolare, dal DDT).
Esperienze del genere furono determinanti per gli anni a venire: nonostante tutto, il ‘68 diede un primo scrollone a una società ingessata.
Ma chi scuoterà le coscienze oggi, se è così comodo e legittimo avere tre cellulari, due computer, uno split (che in questo caso non vuol dire “Spalato”) in ogni stanza, e un bel SUV in garage?
Utopia e Fantascienza
Secondo lo studioso Darko Suvin, la fantascienza ha le sue origini nel romanzo utopistico settecentesco. Suvin vi include anche opere quali il Gulliver swiftiano, gli Stati e Imperi di Cyrano, le opere di Luciano di Samosata, Moro, Rabelais, che avevano creato una tradizione di “utopia con satira”. Pianeti e isole lontane divenivano strumento di “radicale sovversione di ogni razionalismo, di satira etico-politica, diretta e indiretta, della civiltà inglese ed europea”.
Ciò appare più che mai veritiero anche in molte storie a tema ecologista. I titoli da citare sarebbero numerosi, ciascuno con una sua particolare tematica, ma data la mole e varietà delle narrazioni l’argomento meriterebbe una trattazione a sé. In questa sede mi limito, per forza di cose, a darne un’idea tramite alcuni dei titoli più rappresentativi.
In Ecotopia. Il romanzo del vostro futuro (1975), Ernest Callenbach descriveva una “utopia ecologica” (da cui il titolo), quasi una nazione a sé stante creatasi nel cuore degli Usa. Il romanzo di Mack Reynolds …Ed egli maledisse lo scandalo (1965) narra di Ezechiele Tubber, predicatore laico che fonda Elisio, libera comunità svincolata dalla società consumistica. Durante un suo sermone, Ezechiele s’infervora e scaglia un anatema: “In verità ora maledico la vanagloria delle donne… Mai più tu troverai piacere nella vanità della tua persona, mai più ti compiacerai di dipingerti il volto e rivestire abiti di ricercata eleganza…” Da quel momento accade qualcosa di assurdo: ovunque le donne non sono più in condizioni di truccarsi e vestirsi con ricercatezza, pena il patimento di insopportabili allergie della pelle… Seguiranno altri “anatemi” di Ezechiele e la storia si evolve con toni di irresistibile satira sul consumismo e i suoi derivati (rifiuti).
Il romanzo Distruggete le macchine (1952) di Kurt Vonnegut, grande autore morto nel 2007, è una satira che descrive una futura rivoluzione di tipo luddista-ecologista negli Usa: ma alla fine i rivoltosi cercheranno disperatamente di ricostruire le macchine che essi stessi hanno fracassato.
E’ da sottolineare che la fantascienza di derivazione strettamente utopistica - cioè con una visione sostanzialmente positiva se non ottimistica del futuro - trionfante nei primi decenni del XX secolo, non da ora è praticamente scomparsa. Ineluttabile segno dei tempi. A parte le storie puramente avventurose o quelle che focalizzano l’attenzione sugli effetti delle prossime strabilianti tecnologie, primeggia una science fiction che anzichè “utopistica” è stata definita dell’”antiutopia” (o “distopia”). La radice concettuale è sempre la stessa: futuro come specchio capovolto e deformato di un presente contaminato. Quindi storie di degrado a 360 gradi: ambiente, efficienza dello Stato, etica, spartizione delle ricchezze, guerre, malattie, penuria di acqua e cibi, inflazione, soprusi, e così via.
Forse anche per questo la fantascienza non vende come un tempo: la gente è già esasperata. E’ un dato non esaltante ma provato che in epoca di incertezze le vendite dei titoli di fantascienza crollino, mentre per contro si verifichi un boom del fantasy…
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16 Responses
Beh, io credo che quel tanto di vitalità che è arrivata negli anni 80 alla fantascienza era dovuta alla scelta fondamentalmente distopica del cyber-punk. Quindi non legherei eccessivamente le sorti della SF all’utopia.
E in fondo c’è chi sostiene che tra distopia e utopia c’è differenza di forme ma non c’è differenza di funzioni: in entrambi i casi alla base vi è una riflessione critica sulla società attuale.
I problemi del presente vengono sottolineati per contrasto come risolti nell’utopia, o per sviluppo degenerativo nella distopia. Ma lo sguardo è sempre sul presente e sulle scelte giuste da fare ORA
Un distopista come Bruce Sterling si occupa molto di ecologia sul suo blog, e in ciò andrebbe d’accordo con ogni utopista.
Nell’ultima parte ora ho precisato meglio ciò che intendevo dire. Ciao!
Rispondo in due parti - parte prima, Fantascienza.
Io non sarei così pessimista.
La fantascienza sta bene e vi saluta tutti.
Il mercato anglosassone è in crescita - se non quantitativa (il fantasy “tira” di più) certamente qualitativa.
E l’elemento positivista, ottimistico, non stona poi eccessivamente.
Penso ai lavori di Kim Stanley Robinson (autore del quale, come mi diceva un amico, da noi hanno tradotto tre libri che abbiamo letto in quattro), certo il più espansivo e battagliero autore di SF a tematiche ambientali.
Penso al giovanissimo Karl Schroeder, che oltre a scrivere fantascienza avventurosa immaginando mondi ed ecologie diverse, è titolare di una azienda che usa la fantascienza per educare all’amministrazione intelligente delle risorse.
Penso all’australiano Joel Shepherd, solido autore di fantascienza d’azione ma con una forte componente etica.
E l’elenco potrebbe allungarsi.
Il mio sospetto è che - così come per il fantasy si tenda ad orientare il mercato al minimo comun denominatore dell’intrattenimento disimpegnato (al limite con qualche messaggio “profondo” e banalissimo), così nella distribuzione della fantascienza si cerchino di evitare dei testi che potrebbero andare contropelo allo zoccolo duro del pubblico, che è (come sosteneva recentemente David Brin sul suo blog) la comunità di progressisti più conservatori al mondo.
Parte seconda - Ambiente
Concordo pienamente sullo scarso risalto dato alle piccole comunità eco-friendly e autosufficienti sparse per il mondo - anche se non userei Into the Wild come modello
È interessante da questo punto di vista, il vecchio “paradigma dell’astronave” - secondo il quale la comunità dovrebbe strutturarsi in modo da esere completamente autosufficiente anche qualora venisse tagliata fuori dal resto del mondo (come una nave spaziale nel vuoto, appunto).
Ciò che manca, io credo, è una solida e matura educazione ambientale - il genere che permetta di dare una risposta secca e circostanziata a quei derelitti che, dopo che gli hai spiegato per due ore i vantaggi dell’energia rinnovabile, ti rispondono “E a me cosa ne verrebbe in tasca?”
È una strada lunga, e intanto le lancette girano.
Ma non è ancora detto che l’abbiano vinta i Maya e la loro profezia del piffero.
Ciao Davide. Per la prima parte (Fantascienza) sono totalmente d’accordo con te. Purtroppo io conosco male l’inglese, per cui rinuncio ai testi originali. Qui in Italia, come chiunque può constatare, la fantascienza è praticamente scomparsa dagli scaffali delle librerie anche le piu’ importanti, salvo qualche Dick dimenticato o invenduto, qualche Asimov residuato postbellico, un Ballard perché è morto da poco, e qualche altro titolo caduto per caso dove non era programmato che apparisse.
Quanto alla seconda parte (Ambiente) non siamo messi meglio. L’altra sera sono capitato per caso in una discussione dove un ecologista - purtroppo non ricordo il nome - si sgolava per far capire che tutti i rimedi relativi alle fonti energetiche alternative sono pure illusioni, e si sforzava di dimostrarlo. Mi ha messo una tale depressione che sono uscito dalla libreria. Scusa ma arriva il momento della saturazione anche per le cose serie; il momento in cui ti stanchi a contraddire. Non credo una parola di cio’ che diceva il tizio, ma dovrei prima verificare quei dati… Ciao, V.
Sulla fantascienza mi pare che Davide abbia già detto tutto o quasi.
Sul discorso ambientale, ciò che a volte mi sconcerta è il fatto che l’attenzione sia scarsamente rivolta alla radice del problema: atteso che poco o nulla possiamo fare per quei fenomei dovuti alla ciclicità dei cambiamenti climatici planetarii, tutti gli altri problemi vengono causati da un problema di massa. Massa antropica. Il pianeta è sovrappopolato; e non di poco. Nessun risparmio energetico o altro potrà salvare la nostra civiltà se la popolazione non verrà drasticamente ridotta (ammesso di essere ancora in tempo per farlo). Temo sia l’imperativo biologico a condizionare la psicologia della specie, anche contro ogni logica. Certo, c’è la possibilità che venga trovato il modo di produrre energia da fonti illimitate (fusione nucleare), ma continuare a vivere come se questo debba sicuramente avvenire è un po’ come bluffare contro un poker d’assi con in mano una coppia di sette.
V.
Ciò che dici è verissimo. Ma se è per questo, una drastica riduzione della popolazione mondiale risolverebbe molti altri problemi, non solo quello ambientale. Da questo punto di vista temo che la strada sia senza ritorno. I cinesi crescono come formiche, il papa contrasta la contraccezione, la gente se ne frega. D’altronde, dopo aver gozzovigliato per secoli, l’Occidente dovrebbe dire a tutti gli altri: voi no, voi fermatevi, non fate figli, non mangiate, non producete rifiuti, restate senza frigo auto tv cellulare pc…
E’ quel che temo anche io.
Per “ambiente” chiaramente non intendo la ovvia pura sfera ecologica. Ambiente è le città sovraffollate in cui viviamo; è l’agricoltura che abbandona i campi per entrare nelle serre dove non entra il sole, ma anche l’agricoltura intensiva che abusa dei terreni; è l’allevamento fatto nelle stalle e nelle stie dove vivono animali che non conoscono la luce solare; è una produzione di rifiuti di ogni genere che tra qualche lustro sarà forse il nostro problema più immediato; è la penuria d’acqua che sta fatalmente trasformando l’acqua da elemento base della vita in merce sempre più preziosa e quindi preziosa da controllare; è un’energia sempre più difficile da produrre e sempre più necessaria per sostenere l’attuale organizzazione della vita sul pianeta (che non può essere rivoluzionata, ma è vitale riformare); è un dispendioso sistema planetario di trasporti che ha interconnesso il mondo e lo ha reso dipendente da sé. E’ Homo sapiens che si riproduce come fossimo conigli. La terra è una antroposfera sempre più articolata, complessa. Elefantiaca. Il rischio è che la massa critica perché collassi sia sempre più vicina. Ma soprattutto che sia ormai troppo tardi per bloccare l’inerzia che ce la farà raggiungere.
V.
Si tratta di un caso di eccessivo successo.
Non è la prima volta che capita - il primo e più clamoroso esempio (al cui confronto l’Homo sapiens scompare) è quello dei cianobatteri.
Il prodotto di scarto della loro attività era l’ossigeno - che per loro era letale.
Ebbero un tale successo che resero il loro ambiente invivibile, saturandolo di ossigeno.
Oggi sopravvivono nel nostro intestino, e in altri luoghi difficili da visitare - i fondali oceanici, certe profonde caverne ipogee.
Sagan e Margulis parlarono di “olocausto dell’ossigeno”.
Noi, come i cianobatteri abbiamo avuto troppo successo.
A differenza dei cianobatteri, abbiamo un maggior controllo - o dovremmo averlo - sulla nostra attività.
Possiamo limitare la crescita.
Possiamo distribuire più razionalmente le risorse.
Possiamo evitare di rendere l’ambiente invivibile per noi stessi a causa del nostro eccessivo successo.
Basta volerlo.
E per volerlo, basta capirlo.
E per capirlo, basta che venga spiegato.
E questa è solo una questione di volontà politica.
Ovvero di convenienza economica.
In realtà guardando dentro le pieghe della demografia emergono anche altri aspetti; per esempio nelle maggiori aree urbane cinesi la popolazione cresce soprattutto a causa dell’immigrazione interna. Sembra che un tratto comune al raggiungimento di certi standard di vita occidentali sia anche la brusca decrescita naturale della natalità. E’ vero che questo non basta di certo, ma è per dire che i fenomeni sono più complessi di quanto non possa sembrare.
E’ vero anche che non sempre certe soluzioni hanno il valore che crediamo; i pannelli solari ad esempio, sono meno eficaci di quanto si creda. Ormai i dati di venti-trent’anni dimostrano che i coefficenti di assorbimento decrescono con rapidità, dopo dieci anni un pannello funziona meno. E in ogni caso si tratta di silicati, non robetta che si butta nella pattumiera, un pannello vecchio va trattato come una lastra di eternit etc.
Ovvio che il bilancio energetico finale del solare tradizionale è sempre di gran lunga migliore rispetto a quello degli idrocarburi, però non è il mantra dell’energia pulita che credevamo.
Ma nel frattempo è arrivato il solare termico, quello che si comincia a vedere in Spagna e negli Stati Uniti (non da noi, a Rubbia abbiamo preferito i raccomandati di turno) e anche rispetto al solare tradizionale si intravedono altre soluzioni.
Insomma di cose in campo ce ne sono tante, non necessariamente impraticabili.
Anche rispetto al consumo di terreno agricolo ci sono soluzioni possibili; senza pretendere soluzioni draconiane, il solo dimezzare i consumi di carne bovina rimpiazzandola con carne di pollo, quindi altra carne, permetterebbe di riguadagnare quantità di energia e acqua enormi.
L’antroposfera è difficile da governare, è un dato di fatto, ma non ha vita propria, la politica puo elaborare soluzioni, se ci prova.
Soprattutto, direi che quando guardiamo ai fenomeni globali dobbiamo sempre sforzarci di fare la tara rispetto al nostro osservatorio.
Oggi i dati e le cifre non li studia più nessuno, ma se si prova a farlo, risulta lampante che noi non viviamo in un paese occidentale.
Dell’occidente non abbiamo le retribuzioni, i laureati, il consumo di libri e cultura, l’efficenza dello stato, la produzione tecnologica, le tipologie quantitative e qualitative di uso del web e chi più ne ha più ne metta… perchè mai dovremmo averne il civismo?
Ogni dato ci urla che solo la massa economica, l’insieme di ricchezza prodotta e messa a valore in mezzo secolo, ci trattiene statisticamente in occidente; per il resto siamo in zona Turchia-Polonia.
E’ un fenomeno degli ultimi vent’anni, e nemmeno irreversibile, però c’è, e bisogna tenerne conto prima di scoraggiarsi di fronte al vicino di casa che non capisce il valore del riciclo. E’ un esperienza che ad un parigino capiterà di poche volte, ma per un italiano o un turco non ha nulla di eccezionale, è ora di prenderne atto e dismettere l’automatismo di rapportarsi a una Europa cui apparteniamo sempre meno.
Lì, in Europa occidentale, si tornerà solo quando si prenderà atto della situazione guardando alla realtà concreta, non ai sociologismi di pancia.
E se osserviamo questo occidente abbandonando la lente deformante della nostra neoarretrata realtà nazionale, scopriamo che certo non è il paradiso, ma certamente è un girone del purgatorio meno peggiore. Dalle città americane che rispettano autonomamente i criteri di Kyoto ai paesi europei che programmano l’uscita dal nucleare, dal ritorno dell’agricoltura tradizionale alle esperienze mutualistiche… insomma, la situazione è bruttarella assai, ma qualcosa si muove eccome.
Non bisogna scoraggiarsi, ma sforzarsi di capire, tutto qui.
Si dovrebbe volere per potere, appunto. Ma non si vuole. E’ (sarà) questo a condannarci.
V.
Purtroppo i fattori in campo sono troppi, di natura troppo varia, e troppo complessi: è questo il motivo per cui, pur condividendo pienamente le vostre analisi, resto estremamente scettico sui risultati possibili. Ne abbiamo una prova eclatante proprio oggi, sotto i nostri occhi: ormai le attività si coalizzano e tendono solo ad arraffare quanto più si può, fregandosene allegramente del domani. La mentalità dominante e generale è quella di coloro che a vari livelli (banche, cosiddetti esperti finanziari, istituzioni di controllo, governi, eccetera eccetera) hanno permesso che si gonfiasse una bolla gigantesca ben sapendo che sarebbe scoppiata; una roulette russa nella quale moltissimi hanno perso e stanno perdendo e perderanno molto (se non tutto) ma pochi sono diventati e stanno diventando straricchi. Il pianeta ormai è un casinò con le nostre vite e il nostro futuro come posta. Chi ha la forza (economica, finanziaria, politica, etica, forse anche militare) per fermare tutto questo e addirittura invertire la marcia? Pensate che le misure che stanno prendendo i governi (primi colpevoli anch’essi: possibile che nulla sapessero? oppure sono tutti governi imbelli?) abbiano la capacità di farci diventare tutti razionali, disposti al sacrificio (perchè sacrifici occorrono, eccome), traboccanti di buona volontà, non più mafiosi e rinunciatari al mangia-mangia? Mettendo improvvisamente d’accordo popolazioni anche in contrasto, e per di più in tempi non tanto lunghi da rendere inutile le contromisure? Mah… A meno che non si voglia attuare l’idea “uovo di Colombo” dello zoologo evoluzionista Eric Pianka, secondo il quale basterebbe eliminare 4 miliardi di persone per stare finalmente bene (dice lui. Non sappiamo se lui per primo sarebbe disposto al sacrificio).
Io resto estremamente fiducioso nei confronti delle piccole realtà - la reazione e l’adattamente a scala del condomionio, del paese, del quartiere.
La politica ha fallito - clamorosamente nel nostro paese, malamente altrove - e l’economia è ormai dominata dalla psicopatologia - fra guadagno e sopravvivenza, si sceglie il guadagno.
Ma i singoli, ed i piccoli gruppi, possono ancora fare una differenza.
Un buon esempio (scoperto grazie al solito K.S. Robinson) è Mondragon, in Spagna.
http://www.mcc.es/
Il sito naturalmente non ha una versione in italiano - ma c’è una buona scelta.
Naturalmente, per arrivare a qualcosa del genere, bisognaconvincere le persone che è ora di rimboccarsi le maniche - per questo, forse, i piccoli gruppi riescono dove la massa (narcotizzata da partite di pallone, politica spettacolo e reality show) non reagisce.
Conosco Mondragon. Occorrerebbe riacquistare, ri-sollecitare, ri-metabolizzare idee di cooperazione a livello locale. Gruppi spontanei che cercano una loro autoefficienza e/o collaborano con altri gruppi analoghi e complementari. Da qualche generazione siamo stati abituati - o siamo nati - in tutt’altra atmosfera: attività estremamente frammentate, vite spersonalizzate come in una gigantesca catena di montaggio in cui chi preme un pulsante per qualcosa ignora a cosa serve il pulsante premuto dal collega accanto (volte ignora anche a cosa serve il proprio). Crolla non solo l’idea di comunità e solidarietà quanto anche la consapevolezza che ciascuno sta operando - ed è bene che operi - per costruire qualcosa unitamente a tutti gli altri. Isolamento, orizzonte limitato, egoismo, assenza di visione globale, svogliatezza, indifferenza per cio’ che non sia il proprio piccolo mondo, individualismo, demonizzazione per qualunque cosa possa includere concetti come “collettività”, comunanza di intenti e di beni, eccetera…
Personalmente non ho nessuna fiducia. Per salvarci occorrerebbe un ciclopico cambiamento di mentalità e psicologia, che colmasse il gap creatosi tra la nostra cultura tecnologica e quella sociale, ma fino a oggi i tempi dei cambiamenti della mentalità umana sono sempre stati dell’ordine dei secoli se non dei millenni.
V.
[...] a comment » La colpa naturalmente è di Vittorio Catani, che in un suo recente post ha considerato il legame fra utopia, fantascienza ed esperimenti di utopia ambientale attualmente in [...]