Point Break
Posted on Agosto 30th, 2010 in Proiezioni | 5 Comments »
L’ascendente di Point Break su La pattuglia dell’alba è troppo evidente per non parlarne, anche solo per ricordare che surf e poliziesco andavano a braccetto già qualche tempo prima del bravo Don Winslow, tanto più che - ancora - per una volta assistiamo all’influsso del cinema sulla narrativa, non la più frequente e generalmente - ahimè - neanche la più apprezzata delle dinamiche nei flussi bidirezionali che regolano i travasi di immaginario da un medium all’altro. 1991: diciannove anni prima di portarsi a casa l’Oscar e fare incetta di premi in giro per il mondo con The Hurt Locker, quattro prima di regalarci con Strange Days il capolavoro della fantascienza degli anni ‘90, Kathryn Bigelow era ancora la signora Cameron quando mise a segno il primo colpo della carriera, un film che ancora oggi può vantare lo status di cult presso un paio di generazioni di spettatori.
Comprendere il successo di Point Break non è poi difficile: adrenalinica, movimentata, animata da ottimi dialoghi e impreziosita da spettacolari riprese acquatiche, la pellicola ha ancora oggi tutte le carte in regola per chiudere gli interruttori neurali che alimentano i sogni di chi ancora sguazza nelle tempeste ormonali dell’adolescenza e la nostalgia di chi la gioventù dovesse averla già attraversata. Più tutta una serie di trucchetti del mestiere da manuale hollywoodiano di sceneggiatura: psicologie essenziali, schematismo estremo (amicizia/lealtà/amore vs tradimenti/competizione/rivalità), coincidenze improbabili (ma non lo sono forse tutte le coincidenze?) e qualche intemperanza che con il tempo la Bigelow ha imparato a controllare. Il risultato è un compromesso ottimale, al servizio di una storia che, se da una parte si ferma alla superficie dei volti e dei corpi dei protagonisti senza nemmeno azzardarsi a scavare sotto la patina delle spiagge assolate della California, dall’altra cattura dal primo fotogramma (facendo rimpiangere l’epoca in cui si facevano ancora i titoli di apertura) e tiene incollati fino ai titoli di coda.
La storia dovrebbe essere nota a tutti: Johnny Utah, promettente e ambiziosa recluta dell’FBI, viene assegnato alla divisione di Los Angeles, “la capitale mondiale delle rapine in banca”. In particolare c’è una banda che ha messo a segno una trentina di rapine nell’arco di tre anni: si fanno chiamare gli ex-presidenti, colpiscono mascherati da Reagan, Nixon, Carter e Johnson, non puntano mai al caveau e sono praticamente inafferrabili. Angelo Pappas, il veterano a cui Utah viene affiancato, ha una teoria sul loro conto: potrebbe trattarsi di un gruppo di surfisti che attraverso le rapine si finanzierebbe le spedizioni in giro per il mondo a caccia delle onde più pericolose e sfidanti. Utah s’infiltra in un clan di surfisti e parallelamente comincia a setacciare le spiagge a caccia di indizi che possano portarlo alla vera identità dei rapinatori.
Il film è diviso piuttosto nettamente in due parti: nella prima, lo sceneggiatore W. Peter Iliff gioca a carte coperte, disponendo le pedine sulla scacchiera e preparando tutto il necessario per far precipitare la situazione. Quando l’equilibrio s’infrange - la scena centrale della rapina in banca, con l’inseguimento di Utah al rapinatore mascherato da Reagan - il giallo scivola sul gradiente del noir, concedendosi un altro paio di momenti ad elevato tasso spettacolare (la rapina in banca con Utah a volto scoperto e l’inseguimento aereo senza paracadute), fino a un finale dalla vocazione epica, con chiusura sulla famigerata “tempesta del cinquantennio” che, volendo interpretarla secondo la chiave di lettura fornita da Bodhi, il beatnik surfista-rapinatore, segnalerebbe già un’altra vita. E in effetti a quel punto Bodhi ha ormai perso tutta la sua squadra di surfisti-rapinatori e Utah ha ormai rinunciato ai sogni di gloria, per cui la lettura buddhista fornita da Bodhi potrebbe davvero essere quella veritiera. La rottura con la vita precedente è segnata anche dall’atmosfera: dopo il sole della California, la pioggia che si abbatte sulle coste australiane. E la resa dei conti, per una volta, non è tra uomini, ma direttamente con le forze della natura.
Riguardando il film a distanza di anni e, soprattutto, dopo la lettura de La Pattuglia dell’Alba, le analogie che balzano all’occhio e all’orecchio sono una caterva, dal gergo dei surfisti (grommet, point break e tubi a tutto spiano) al ruolo dei personaggi, con Tyler Ann/Lori Petty che fornisce un prototipo moro per la bellezza bionda di Sunny Day (come lei cameriera) e Boone Daniels a sintetizzare in un’unica figura la filosofia zen di Bodhi/Patrick Swayze e le mansioni poliziesche di Utah/Keanu Reeves. Keanu Reeves, da infiltrato, si spaccia da avvocato ed è proprio un invisibile avvocato surfista che nel romanzo di Winslow ingaggia Boone per un’indagine che dovrebbe essere facile ma si complica significativamente man mano che avanza.
Ma il discorso della precessione dei modelli potrebbe proseguire anche all’indietro, verso Un mercoledì da leoni, da cui Point Break eredita un Gary Busey in stato di grazia, praticamente straripante, in grado di annientare ogni altro attore presente sulla scena. Pappas, il suo personaggio, ricorda i suoi trascorsi in Vietnam, e l’allusione alle vicende della comitiva di surfisti della leggendaria pellicola di John Milius è praticamente definitiva per fugare ogni dubbio di paternità sull’ispirazione del film della Bigelow. Da segnalare infine un cammeo di Tom Sizemore (praticamente un provino per Strange Days) e John C. McGinley, che nel ruolo del capo dell’FBI intransigente, logorroico e dalla lingua sferzante collauda le caratteristiche di Perry Cox per Scrubs.
La rete dei rimandi, ancora una volta, è sufficientemente vasta da abbracciare il Creato nella sua interezza.