Resistendo ai Predatori della Disperazione
Posted on Febbraio 27th, 2010 in Fantascienza, Letture |
L’aurea mediocritas è stato uno dei massimi valori negli ultimi anni della Roma repubblicana, prima dei fasti dell’Impero, cantata tra gli altri dal mio illustre conterraneo Quinto Orazio Flacco come “giusto mezzo” tra gli eccessi di ogni tipo. Ispirato dalla filosofia epicurea, Orazio invitava i suoi contemporanei a godere dei piaceri della vita nel rifiuto degli estremi, in una posizione ottimale intermedia tra il massimo e il minimo. Oggi, duemila anni più tardi, l’espressione è diventata sinonimo sarcastico di mediocrità perdendo l’originario riferimento alla moderatezza, e ovunque intorno a noi si affollano i fieri propugnatori dell’eccesso. Non credo che le due cose siano scollegate: la perdita del significato originario delle parole e la corrispondente crisi del valore.
Questo ha dei riflessi anche nel mondo delle lettere. Non basta essere dei buoni scrittori, si deve essere degli Artisti, e se l’opera è un libro soddisfacente può tranquillamente essere ignorata o demolita nel nome dell’eterna ricerca del Capolavoro. Di gente convinta della legittimità di questo modus operandi la rete è piena: lanciano le loro campagne dai loro blog, sfruttano gli spazi altrui per uniformarsi all’audacia degli ultras più violenti e si giovano della cassa di risonanza delle loro corti per inquinare il dibattito pontificando su ogni cosa, contribuendo a conservare litigiosa, provinciale e dilettantesca la scena del fantastico italiano.
L’ultimo libro di “Urania” (il n. 1555 di febbraio) ha offerto ai soliti arcinoti l’occasione di tornare alla carica, ribadendo la loro azione a difesa del fantastico e/o della purezza dei generi. Questo mi spinge quindi a parlarne come, nel futuro, mi sforzerò di parlarvi ogni volta che se ne presenterà l’occasione di quei libri non perfetti e nemmeno memorabili, ma comuqnue degni di nota e soddisfacenti per trascorrere qualche ora in buona compagnia. Parlo di libri nella norma o magari anche al di sopra della norma, che vanno a costituire quella massa che con il loro numero va a comporre la vera rappresentanza del genere. Sono i libri che, quando si rivelano validi, assolvono al compito di ricacciare indietro il kipple che altrimenti tenderebbe alla saturazione e al soffocamento dei generi stessi (ben oltre, quindi, il famigerato 90% di Sturgeon). Sono questi libri a fornire lo stato di salute di un genere, essendo per la massa molto più facile condizionare la percezione esterna di quanto non lo sia per un singolo titolo (per quanto vicino al capolavoro possa arrivare) o per un singolo autore (per quanto raffinate possano essere le sue capacità artistiche). E questo I predatori del suicidio (The Suicide Collectors in originale), opera d’esordio di David Oppegaard, rientra a pieno titolo nel novero delle opere che oppongono un argine alla marea di kipple che minaccia le coste dei nostri generi. Per questo, se solo qualche tempo fa mi sarei sentito legittimato a sorvolare sui suoi meriti, nella condizione attuale del panorama italiano avverto la necessità di parlarvene.
Come ho scritto sul Blog di “Urania”, nutrivo grandi aspettative intorno a questo romanzo. Per quanto abusato sia il tema dell’apocalisse, fin dall’inizio Oppegaard sembrava aver voluto cercare una sua personale strada verso la fine del mondo: un morbo non meglio specificato e noto solo come Disperazione ha sterminato il genere umano attraverso una sequenza impressionante di suicidi. In ogni parte del mondo, all’improvviso, la gente ha semplicemente deciso di averne abbastanza e ha cominciato a togliere il disturbo. A raccogliere i cadaveri arrivano presto i Predatori del titolo, figure emaciate e inquietanti che battono le strade della Terra avvolti nei loro neri mantelli, rimuovendo i corpi dei suicidi per i loro fini oscuri. Il protagonista, Norman, affronta un ultimo viaggio alla ricerca della speranza dopo aver ucciso un Predatore venuto a raccogliere il cadavere della moglie. Con lui il vecchio Pops, l’unico altro sopravvissuto della loro cittadina, e presto la giovanissima Zero, sopravvissuta al suicidio di entrambi i genitori.
Malgrado le alte aspettative, la mia partenza a razzo nella lettura ha subito una battuta d’arresto dopo le prime cento pagine a causa del sovrapporsi di altri libri (effetti collaterali dello scheduling in multitask…), ma adesso, in prospettiva, mi sento di poter dire che in effetti la storia di Oppegaard patisca un calo di ritmo intorno a metà libro, quando il pellegrinaggio dalla Florida a Seattle giunge a metà strada e s’impantana tra le praterie e le Montagne Rocciose, per poi risollevarsi all’arrivo a destinazione dove, dopo aver sfiorato la morte e aver perso i suoi compagni di viaggio, Norman si trova davanti una città devastata. A risollevare il ritmo ci pensa la figura del dottor Briggs, nel classico ruolo strumentale del deus ex machina, che offre a Norman il proprio provvidenziale aiuto per i suoi progetti di vendetta. Malgrado un ricongiungimento con Zero decisamente troppo forzato nella tempistica e nelle modalità per risultare credibile, l’ultima parte si dispiega con slancio rinnovato fino al finale, perfettamente in linea con il tono dimesso del resto del romanzo. Forse è questa moderatezza dei toni la particolarità più significativa de I predatori del suicidio, che non manca comunque di sussulti ora orrorifici negli incontri inquietanti con le comunità di sopravvissuti regredite a uno stadio primitivo o all’oscurantismo di un nuovo medioevo, ora lirici ed elegiaci nella descrizione del viaggio on the road attraverso il cuore dell’America.
La prima e l’ultima parte sono quelle che mi hanno convinto di più, e probabilmente sono proprio quelle in funzione delle quali Oppegaard ha costruito il suo romanzo. L’Isola della Morte è decisamente efficace come rappresentazione e trae la sua forza dall’essere delineata proprio con la massima economia di pennellate. Ma è l’intero lavoro di Oppegaard a essere sintonizzato su questa frequenza: I predatori del suicidio è una storia sussurrata, nel silenzio che ha preso il posto dell’umanità sull’orlo dell’estinzione. Un romanzo che non aspira al rango del capolavoro epocale, ma che resta un discreto prodotto di fattura artigianale, privo di velleità o aspirazioni filosofiche, fruibilissimo dalla maggior parte dei lettori come dimostrano i commenti lasciati su Urania Blog da chi il libro l’ha letto davvero senza soffermarsi alla quarta di copertina.
Credo che gran parte delle critiche di fronte a scelte come questa nascano dal fraintendimento di fondo che un Oppegaard di meno avrebbe significato un Vinge o un Egan o un MacLeod di più. Mai convinzione fu più sbagliata o in malafede, perché sono proprio gli Oppegaard, i Somers, i Sawyer, a giustificare le punte di diamante di una collana, che avrebbero altrimenti difficoltà a ripagarsi. Ce ne fossero quindi di libri come I predatori del suicidio, capaci di consolidare a questi livelli la media della fantascienza, anche sposando la strada delle contaminazioni come accade in questo caso con l’horror. Lungi dall’inno alla Disperazione intonato con instancabile dedizione dai Pred(ic)atori di ogni fede.
11 Responses
Integro qui il mio commento al racconto di Antonino Fazio, pubblicato in appendice al volume di “Urania” n. 1555, che non ho riportato nel post essendo la mia in sostanza una replica alle denigrazioni circolate negli ultimi giorni intorno al lavoro di Oppegaard.
“Prima della fine del mondo” è la ciliegina sulla torta di questo mese. Un racconto gustoso, che fonde l’ansia sempre viva per il disastro imminente (paventato da scienziati un po’ naif allo start up dell’LHC del CERN) ai topoi della SF classica (la capsula temporale). Veloce e dissacrante, si fa perdonare un refuso sulla trascrizione dei TeV.
Seconda integrazione: la copertina di Franco Brambilla merita tanti, tanti complimenti.
Grazie X, anche a me il libro è piaciuto… e anche io ho trovato la parte che si svolge a Seattle e il ricongiungimento con Zero inferiore al resto
del libro… comunque l’autore promette bene, ho gradito molto lo humor con cui ogni tanto questo scrittore stemperava le descrizioni dei suicidi e le varie “follie” che i personaggi trovavano lungo il loro cammino.
Opperbacco! Che inusuale vervé polemica!
Ovviamente non mi riferisco alla recensione del romanzo di Oppegaard, che non ho letto e non leggerò, quanto piuttosto alla premessa e quindi alle motivazioni che ti hanno indotto a stendere questo post.
Se non ho capito male tu rimproveri i soliti noti (a proposito, chi diavolo sono? che io tra quelli che hanno mal digerito I predatori del suicidio conosco solo Elvezio Sciallis) di demolire la proposta uranica media per a) partito preso, b) per una generica miopia riguardo la composizione qualitativa media della produzione di genere, c) per un innato pregiudizio italico nei confronti dell’imbastardimento della purezza fantascientifica.
Se per quanto riguarda a) e c) mi pare inutile perdere più del minimo tempo indispensabile, che chi si fa portavoce di simili posizioni si pone di default in un vicolo cieco evolutivo (ma di nuovo, chi è ’sta gente? fornisci qualche link, ti prego!), per quanto riguarda il punto b) ho un’opinione che non so quanto coincida con la tua.
La prima osservazione è che data la tua recensione non avrei alcun dubbio nel porre il romanzo di Oppegaard tra il 90% di sturgeoniana memoria. Il che non vuol dire che un romanzo simile sia illeggibile, significa solo che non costituisce un’opera tale da rimanere eternamente scolpita nella memoria del lettore: è un prodotto medio, e come tale destinato all’oblio.
Declinare una recensione come la tua in positivo o in negativo è questione di sfumature, che da quel che mi pare di capire non c’è niente nel romanzo che faccia gridare al capolavoro. Se anche a te, che lo giudichi in maniera sostanzialmente positiva, non sono sfuggito alcuni punti deboli, a un lettore che nel complesso non lo ha gradito non mancherà certo materiale per stendere una recensione negativa.
Per tornare su un terreno che conosco meglio, penso all’ultimo romanzo di Haldeman pubblicato da Urania. Il mio giudizio è stato positivo, ma non mi ha per nulla sorpreso - tanto meno indignato - leggere la quantità di reazioni negative che ne hanno accompagnato l’uscita. Anche Cronomacchina accidentale è un romanzo medio, che rientra altrettanto quietamente nel 90% di produzione fantascientifica dimenticabile. Le stesse reazioni hanno suscitato l’ultimo ciclo neanderthaliano di Sawyer, o i romanzi di MacLeod.
Insomma a me pare che le premesse del tuo post siano invalidate da una percezione molto parziale di quel che dice la voce della rete - e sul suo peso - riguardo alle proposte di genere che arrivano in Italia.
Del resto non trovo per nulla scandaloso che a fronte di proposte come queste - che non si discostano appunto da una generica produzione media - si invitino gli editori a un esame più approfondito di quel che offre il mercato estero. Oltretutto se tu offri la possibilità al lettore di esprimersi non puoi poi esecrare le sue opinioni se solo non corrispondono ai tuoi desideri, o no?
Insomma, arrivato alla fine, quello che forse mi sfugge è il senso della tua reazione, che ho trovato smisurata rispetto all’oggetto del contendere.
Vedi, Giorgio:
La prima osservazione è che data la tua recensione non avrei alcun dubbio nel porre il romanzo di Oppegaard tra il 90% di sturgeoniana memoria. Il che non vuol dire che un romanzo simile sia illeggibile, significa solo che non costituisce un’opera tale da rimanere eternamente scolpita nella memoria del lettore: è un prodotto medio, e come tale destinato all’oblio.
La differenza sta proprio qui. E non è una distinzione da poco. Se un’opera media viene assimilata alla spazzatura, be’… non so davvero se è questione di miopia, malafede, incontentabilità o quello che ti pare. Per quanto mi riguarda, è un atteggiamento che mi fa semplicemente incazzare. E mi dispiace vederlo condiviso da te, sapendoti lettore intransigente ma solitamente dotato di acume critico e sempre di onestà.
Quindi ti chiedo: a tuo giudizio, quanti dei classici di fantascienza sarebbero finiti in quell’oblio se tutti i lettori e gli editori avessero applicato alla tua maniera il metro di Sturgeon? Così su due piedi mi vengono subito alla mente: molte cose di Asimov, molte cose di Clarke, molte cose di Dick. Anzi, voglio spingermi ancora oltre: se a Dick avessero applicato il metodo suddetto fin dagli esordi (ricordi Il mondo che Jones creò? Io lo trovo estremamente simile, qualitativamente parlando e al di là del debole affettivo che ho per quel romanzo, a I predatori del suicidio), allora Dick avrebbe dovuto restare uno sconosciuto inedito per tutto il resto della sua carriera.
La lungimiranza, specialmente verso gli autori esordienti, dovrebbe essere una condizione imprescindibile per ogni editore e per ogni lettore. Il che non vuol dire inneggiare al capolavoro (le bolle, prima o poi, scoppiano tutte), ma estrarre criticamente i meriti e valutare a partire da quelli le potenzialità che potranno essere pienamente espresse, con un serio lavoro di cura e “vivaio”, nei prossimi anni.
Giovanni prima di incazzarti considera che la legge di Sturgeon recita che il 90% di tutto quanto viene pubblicato è fuffa. Da questa premessa ne consegue che sì, effettivamente la produzione media di qualsiasi genere è fuffa. Non è questione di opinioni, è un fatto (sempre prendendo Sturgeon come riferimento, è ovvio).
Come cercavo di dire nel mio commento, questo non significa che non ci sia fuffa divertente e piacevole da leggere. Ho citato qualche esempio tra le mie letture e ho considerato in maniera analoga - prendendo come riferimento la tua recensione - anche il romanzo di Oppegaard.
Ritenere fuffa questo genere di romanzi non significa condannare al rogo decine di opere o autori, semmai essere consapevoli di quel che ha da offrire un genere nel suo complesso e avere ben chiaro cosa consideriamo memorabile e cosa invece semplicemente divertente.
Sono stato più chiaro?
Per questo motivo incazzarsi per una recensione negativa de I predatori del suicidio mi pare esercizio sterile e controproducente. Per rispondere a un esigenza di equilibrio non sarebbe stata sufficiente postare la tua critica positiva del romanzo? Perché in definitiva a me pare che il tuo approccio sia stato quello di chi arriva con un autopompa a spegnere il fiammifero appena usato per accendere una sigaretta.
Credo che se vogliamo affrontare sul serio i problemi che la letteratura di genere si trova indubbiamente ad affrontare in italia non sia necessario ricorrere al paravento di un Urania qualsiasi, ma fare piuttosto esempi chiari ed espliciti di comportamenti che ritieni aberranti, indicando eventuali strategie di approccio sane e costruttive, evitando di rimanere sempre sul vago per non si sa bene quali motivi (in realtà i motivi si conoscono, e in parte sono più che condivisibili: a bazzicare l’ambiente siamo in quattro gatti, ci conosciamo tutti e temiamo che affrontare di petto la questione rovini o comprometta i rapporti umani costruiti nel corso di anni di frequentazione. È già successo e probabilmente succederà ancora. Io spero che non sia il nostro caso, ma oh… non dipende solo da me :-))
Allora, cerco di essere anch’io più chiaro: problemi tra me e te non ne vedo, però sulla questione in merito al post proprio non ci siamo. Non ho ben capito se mi stai contestando le cose che ho scritto nella mia premessa (o meglio, l’atteggiamento che esse esprimono) oppure ciò che sta a monte, ovvero il mio scazzo giunto ormai a livelli stratosferici grazie a quello che da diversi mesi a questa parte sto avendo modo di apprezzare in giro. Ma cercherò di chiarire la mia posizione (cosa di cui non credo tu avessi bisogno, ma chi ci legge potrebbe non avere le stesse informazioni che hai tu).
Negli ultimi tempi ho assistito - tra le altre cose - a una campagna di diffamazione (non saprei come altro definirla) scatenata ai danni di Francesco Verso come autore, di E-Doll come libro e del premio Urania come istituzione. Sono stato zitto (anche per non dare adito a chi non perde occasione per ribadire l’esistenza di una mafia connettivista). Ho visto un gruppo di discussione in cui ho imparato moltissimo all’epoca dei miei primissimi passi nel fandom (non esito a definirlo una scuola per il valore che ha avuto nella mia introduzione al mondo della SF italiana) esplodere di un’acrimonia e tollerare una maleducazione tale che per molto, molto meno a scuola - ai tuoi tempi ma anche ai miei - chiunque di noi si sarebbe meritato una nota sul registro e qualche giorno di meditazione a casa. Me ne sono rimasto zitto e in disparte (memore, tuttavia, che almeno un caso simile in precedenza aveva giustificato l’espulsione dalla lista del cervellone di turno). Continuo a vedere da mesi (sul blog che amministro e altrove) un atteggiamento di strisciante omologazione verso quello che non ho esitato a definire in un’altra sede come “squadrismo digitale”. E ho retto finora… Ecco, ho cercato finora di evitare il rischio di polemiche e diatribe, ma arriva il punto in cui uno si ritrova stanco ed esasperato e la famosa goccia etc. etc. A quel punto, la delusione e lo sconcerto nell’assistere giorno dopo giorno alla degenerazione senza fine del panorama iniziano a chiedere un po’ più di spazio alle tue funzioni cognitive, ed eccoci qua a parlarne anche con toni piuttosto accesi (ciò non toglie che si possa riprendere l’argomento davanti a un cesto di tigelle).
L’antidoto, secondo me, sarebbe semplicissimo, eppure l’approccio corrente lo fa sembrare come qualcosa di alieno e innaturale: basterebbe passare attraverso un recupero dell’onestà. Uno scrittore che si ripara dietro il paravento della critica per attaccare o cercare di sminuire e ridicolizzare un collega non è un bello spettacolo e di certo non contribuisce all’evoluzione (mi sembra un po’ presto per parlare di maturazione) critica né del diretto interessato né dell’ambiente. Il diritto alla critica e alla libertà di espressione è sacrosanto, un lettore ha il pieno diritto di esprimersi su qualcosa per cui ha pagato un prezzo o ha investito del tempo, ma mi pare che da qualche tempo l’esercizio sia diventato appannaggio di gente che qualche interesse in più del semplice “stato di salute del genere” ce l’ha: la preponderanza delle loro voci su quelle dei “semplici” lettori è troppo forte per non darmi l’impressione che ci siano dietro fini diversi o magari solo astio e un banalissimo malanimo.
Ovviamente, tu potrai contestarmi a questo punto di essermi prestato al gioco, oppure domandarmi perché l’ho fatto se ritengo infantile l’atteggiamento che mi ha dato tanto fastidio. La risposta è semplice: perché finora non ho visto nessuno contestare pubblicamente lo stato delle cose invalso nella nostra microscena. Il fantastico italiano sta diventando sul serio una gabbia di pazzi. Dall’esterno ci guardano un po’ come animali esotici in una gabbia: all’inizio si divertono se ci vedono azzannarci i polpacci, poi dopo un po’ tornano a guardare altrove. Chi sta dentro la gabbia o non si sottrae al divertimento generale e se vede qualcuno azzannare il polpaccio di qualcun altro, be’, si fionda subito sull’altro polpaccio gareggiando con i vicini per assicurarsi la polpa migliore; oppure decide di restarsene in disparte, stretto contro le sbarre, senza prendere parte ai giochi, tutto intento a elaborare una strategia di fuga. Se a tutti questo va bene, mi dispiace, ma a me no.
Quindi d’ora in avanti facciamo così: io mi prendo tutti gli scarti destinati al 90% e mi do da fare per restare in quel 90% e migliorarlo dall’interno. Gli altri sono liberi di continuare a setacciare l’universo o a spremersi le meningi all’inseguimento del capolavoro o del messia o di quel che pare a loro (portando avanti, ovviamente, i loro piani di conquista del mondo). Pensavo di riassumere questo concetto nel mio post e spero che dopo questa non ci sia bisogno di ulteriori precisazioni.
In realtà non ti stavo contestando, stavo semmai criticando il tuo approccio al problema che mi pareva fuorviante e foriero di ulteriori degradazioni polemiche della discussione.
Quello che avrei preferito leggere erano semmai due post. Uno sul romanzo di Oppegaard, l’altro che facesse il punto sullo stato dei rapporti tra la rete - intesa come insieme di persone - e la scrittura di genere.
Vedo comunque che alla fine mi hai accontentato.
Dopo la nostra telefonato della settimana scorsa mi auguravo davvero di vederti esplicitare lo scazzo che avvertivo. E non per un morboso desiderio di rissa (quel genere piacere lo lascio ad altri) ma per poter finalmente vedere annotata nero su bianco la natura del problema. E magari partire da qui per una discussione che possa chiarire i rispettivi punti di vista.
Il ritratto che fai della scena fantascientifica nostrana è verosimile ma secondo me un filo distorto (in assoluta buona fede, intendiamoci, è il tuo punto vista che ti costringe ad una visione parziale del panorama, spero di spiegarmi meglio più avanti).
L’esistenza di un clima da “squadrismo digitale” è percepibile ed effettivamente irritante, a prescindere dalle opinioni specifiche (anch’io ho criticato E-Doll e il Premio Urania, e credimi, vedermi accomunato con chi la spara più grossa solo il gusto del rumore che provoca non mi piace per nulla).
Il punto in cui differiscono le nostre percezioni è nel peso da dare a questi soggetti, che per me è prossimo a zero, mentre per te assume proporzioni evidentemente insostenibili.
Per le claque gamberetta-style, gli stroncatori da forum o in generale in produttori di rumore di fondo andrebbe riscritta e ribadita la famosa regola don’t feed the troll.
In fondo ’sti simpaticoni sono una cerchia chiusa e ristretta che si parla addosso e non ha sbocchi nella vita vera. Non sono loro - e non devono esserlo - il tuo pubblico di riferimento. Non sono loro che possono discernere la qualità di un testo, o la serietà di una autore, non sono loro che possono essere in grado di esprimere giudizi approfonditi o determinare il valore di alcunché, loro vivono dell’applauso dei loro simili, del rumore che provocano, del dolore che procurano. Sono i coprofagi della catena alimentare digitale.
Tu mi dirai, sì, sarà anche vero. Ma ’ste merde sono tante, fanno un sacco di rumore e disturbano anche la più costruttiva delle discussioni. Non se ne esce. Forse.
Tu parli di un recupero di onestà come possibile rimedio alla marea montante di astio e malanimo. Io non ci credo, credo piuttosto che l’unico argine al rumore sia l’informazione. Che l’unico rimedio alla superficialità del giudizio e della chiacchiera sia l’approfondimento di temi e argomenti.
Non credo alle prediche o alle dichiarazioni di principio o all’educazione delle masse. Ma sono convinto che qui fuori siamo in più di quel che credi a saper distinguere il grano dal loglio.
Stare a lamentarsi costantemente della degenerazione dei costumi fa solo il loro gioco. Meglio andare alla sostanza. Leggere e scrivere e guardarsi attorno piuttosto che precipitare come i melnetti di cui sopra in un mondo autoreferenziale fatto di gente il cui massimo divertimento è stare a sputare addosso al bersaglio, piccolo o grosso che sia.
Poi è vero. Con il blog che ti sei ritrovato a gestire ti trovi quotidianamente a sguazzare nella merda, e non dev’essere bello (è a questo che facevo riferimento quando sopra parlavo di punto di vista parziale e distorto), ma sono convinto che in giro esistano ancora zone temporaneamente autonome dove è possibile confrontarsi apertamente anche sulle questioni più scomode. Questi spazi devono essere il nostro riferimento, non altri.
Detto questo, il discorso che facevi sul valore del prodotto medio rispetto a quello del cosiddetto capolavoro, merita un ulteriore approfondimento. CI risentiamo più tardi.
(oh… ma l’appuntamento mangereccio è saltato? non ho più avuto tue notizie…)
Il post sul “valore del prodotto medio” è in gestazione. Per arrivare arriverà, solo ho sopravvalutato il mio tempo libero (e poi le ultime notizie in arrivo da Mondadori sono piuttosto disturbanti…).
Insomma, porta pazienza!

Be, Giorgio, secondo me qui potremmo andare avanti a oltranza, ma resto convinto che non mi schioderei di un millimetro dalla mia posizione attuale. Come resto convinto che anche quello che sta succedendo in Mondadori si tinge di una nuova sfumatura in una scena avvelenata e intasata di astii, rancori pregressi e invidie persistenti com’è quella italiana.
(Per la cena, risentiamoci in privato, ma in linea di massima rinnovo la mia disponibilità per la prossima settimana.)
Sicuro sicuro?
Vai, leggi e torna, che poi ne riparliamo!
Per quanto riguarda Mondadori, alla fine tocca sperare che sia l’ennesima operazione di facciata che cambia tutto per non cambiare nulla (dopotutto le menti pensanti delle varie testate son rimaste le stesse, se non sbaglio…).
Certo che il primo approccio del nuovo Direttore col suo pubblico è stato davvero terribbbbile.