“Mostriamogli che l’umanità non è ancora morta”.
Agente John Doran
StormWatch era un’organizzazione di pronto intervento post-umana sovvenzionata dalle Nazioni Unite. In seguito a una drastica riorganizzazione del bilancio, StormWatch ha perso tutti i suoi privilegi.
Jackson King deve affrontare l’ennesima missione impossibile della sua carriera: sviluppare nuovi metodi per contrastare nuove minacce, nonostante il budget sempre più ridotto a disposizione. Senza stazione orbitante, senza teletrasporto, senza navicelle spaziali si può ancora pensare di combattere criminali in grado di alterare la realtà e alieni assetati di sangue e potere?
La Post Human Division potrà mai avere una chance di successo?
Ho scoperto StormWatch lo scorso settembre grazie al Professor Zakalwe (alias Ivan Lusetti) in occasione dello speciale delosiano dedicato al Postumanesimo e ho subito approfittato della disponibilità sul Bazaar del primo volume di StormWatch: Post Human Division per fare i conti con questo universo. A dire la verità, come dimostra anche questa panoramica apparsa sul blog del Coniglio di Metallo, il parere degli esperti concorda nel ritenere la prima incarnazione della serie piuttosto scadente, se non proprio orripilante. Fino all’intervento di quel genio irrequieto che risponde al nome di Warren Ellis (anche lui ampiamente trattato da Lusetti nell’articolo linkato, a cui vi rimando), che sul finire degli anni ‘90 trasformò un prodotto mediocre in una delle opere più innovative e impegnate del decennio. Lotta al terrorismo, trame politiche, strategie di controllo di massa e ricadute del progresso divennero i capisaldi del nuovo corso.
Sotto la guida di Jackson King, telepate di medio livello noto con il nome in codice di Battalion, provvisto di una tuta da guerra che ne amplificava i poteri psicocinetici, già comandante in campo della precedente
formazione, l’unità superumana anti-crisi delle Nazioni Unite affrontava minacce che spaziavano da dittature sanguinarie a alieni alle incursioni temporali. Fino a quando l’inglese dalla penna d’oro decise che era giunto il momento di darci un taglio e in StormWatch: Crisis fece sterminare la squadra (quasi) in blocco nella sua base spaziale, nel corso di un assalto di aliens (proprio loro, le creature inventate da Rambaldi per Ridley Scott, che da James Cameron in poi avrebbero invaso i media, dalle pagine dei fumetti a quelle delle novelization, per finire nei videogame). Ellis ne avrebbe approfittato per far sorgere dalle sue ceneri uno dei suoi successi maggiori, The Authority, mentre la franchise si sarebbe reincarnata in StormWatch: Team Achilles, in cui la sezione rivive come contromisura alla proliferazione postumana, in storie dalla forte impronta militarista. E le cose a questo punto si complicano, tra ritorni e influenze incrociate con altre serie della WildStorm.
Nel 2006 l’etichetta decide di rifondare la serie su presupposti nuovi e ne affida la sceneggiatura a Christos Gage (già sceneggiatore di alcuni episodi di Law and Order e Numb3rs) e i pennelli a Doug Mahnke (che già si era fatto apprezzare per il lavoro su Seven Soldiers: Frankenstein, JLA e The Mask). Il risultato è questa StormWatch: Post Human Division, una vera sorpresa. Come prendere 6 perdenti, affidarli alle cure di un agente della NYPD e trasformarli nella nuova Divisione Post-Umana, a presidio della città di New York. Tra di loro abbiamo avanzi di galera, apprendisti stregoni, superuomini ritrovatisi all’improvviso privi di superpoteri, uomini ibridati con Dna alieno e perfino una prostituta d’alto bordo. L’armata brancaleone dei comics, verrebbe da pensare, più scassata dei Watchmen, praticamente carne da cannone da spedire contro l’avanguardia di una minaccia che viene definita postumana, ma che ha molti più tratti in comune con una invasione aliena. Una missione abbastanza disperata da riuscire, al punto che la Divisione verrà inviata a Las Vegas per addestrare una unità analoga, prima di affrontare la terribile sfida finale.
L’alchimia tra sceneggiatore e disegnatore funziona a meraviglia e ci regala momenti di autentico stupore,
nella scansione delle scene, nella atmosfere urbane (notturne e sporche), come pure nella caratterizzazione di personaggi che sono, ognuno a suo modo e con le proprie contraddizioni, difficili da dimenticare. Ci vengono tutti presentati dal Direttore Jackson King in persona nel prologo, che ne inscena il reclutamento, e con gli sviluppi della storia evolvono a mostrare le molteplici sfaccettature del proprio carattere. Abbiamo così The Machinist, l’ex-criminale mago dell’elettronica che dopo aver meditato di conquistare il mondo con i propri marchingegni si lascia ora spadroneggiare dall’anziana madre, vivendo nella gloria del ricordo di guappi di strada scopertisi post-umani a loro volta e costretto a barcamenarsi fuori peso-forma tra le mille insidie del lavoro di infiltrato. Oppure la Mostruosità, il brillante dottor Mordecai Shaw, rapito dagli alieni, chirurgicamente mutato in un ibrido, costretto a lottare di continuo con gli istinti primordiali che potrebbero scatenarne la rabbia tremenda (sia essa brama sessuale o furia distruttiva) e, per questo, continuamente sotto effetto di farmaci. Ci sono poi Splendore, la donna esperta in manipolazioni che ha sedotto i peggiori super-criminali della città, e Paris, soldato d’elite che, pur nella sua ipervigilanza ed estrema bravura nell’ammazzare (effetti collaterali del suo potente istinto di sopravvivenza), resta pur sempre un uomo, con i limiti di tutti gli uomini davanti alla trascendenza postumana. E arriviamo infine a quelle che forse sono le due caratterizzazioni più riuscite: Lauren Pennington, reduce da StormWatch Prime dove vestiva i panni di Fahrenheit, capace di dominare il fuoco, che dopo un duro scontro con Cooler, la sua nemesi, si scopre misteriosamente priva dei suoi poteri; e la giovanissima Black Betty, già assistente di Jeremiah Cain, “uno fra i più tosti stregoni del pianeta”, che rifiutò di unirsi a StormWatch per intraprendere la sua esplorazione degli infiniti piani dimensionali alternativi. Ridotta all’impotenza, Lauren vive la sua condizione come una retrocessione al livello umano, e per questo - lei che dovrebbe essere la veterana del gruppo - si trasforma ben presto nell’elemento di maggiore instabilità della Divisione. Abbandonata dal suo amante, Black Betty al contrario non si perde d’animo e, pur non avendo mai abbracciato la rigida disciplina della stregoneria (che le avrebbe imposto di scegliere tra orge disumane e l’astinenza assoluta…), riesce a trovare la via d’uscita da ogni situazione con il solo aiuto dell’astuzia (e, quando proprio necessario, una piccola mano dal sovrannaturale).
A capo della nuova squadra viene messo l’agente John Doran, già in forza al 18° Distretto. Uno sbirro che più sbirro non si potrebbe, attaccato alla famiglia (la moglie è malata di un cancro terminale), ligio alla divisa, indurito dalla strada al punto da sopravvivere a due distinte minacce postumane (inclusa la Cooler che ha messo fuori gioco la potentissima Fahrenheit). Invidiato dai suoi colleghi per il nuovo incarico che gli è stato affidato da King, Doran si rivela subito all’altezza della missione per cui è stato prescelto: trasferire le sue competenze alla squadra. Quali sono queste competenze? La dedizione alla causa, la difesa dei più deboli dai soprusi dei superuomini e… va bene, un po’ di disciplina. Quanto basta per tenere insieme la baracca. Il suo personaggio non scade mai nella retorica spiccia, probabilmente grazie proprio alle doti umane per cui è stato reclutato nella nuova StormWatch umana. Perché, dopotutto, come impara il Direttore King facendo di necessità virtù, non è necessario reclutare a suon di quattrini i migliori postumani sulla piazza per combattere la degenerazione dei loro simili. Bastano uomini e donne per un lavoro sporco come questo. Bastano una semplice guida e un po’ di fiducia per riscoprire il lato umano in ex-delinquenti, incroci alieni e postumani quasi onnipotenti, e trasferirne i valori alle generazioni future.
