La fantascienza è un genere molto ampio e dai confini sfumati. Generazioni di appassionati si sono sfidati alla ricerca di una definizione senza arrivare a risultati condivisi. Probabilmente perché la fantascienza non va vista come una bolla, un grafico di Venn con un dentro e un fuori, ma come un pozzo di gravità, come un buco nero nel quale la “fantascientificità” è più forte e allontanandosi da esso diminuisce progressivamente.

Se accettiamo questa visione del genere fantascienza, allora Interstellar, il film di Christopher Nolan uscito in questi giorni, è da collocarsi proprio al centro  del buco nero. Interstellar è un film di fantascienza, è fatto per chi vive la fantascienza e i suoi ideali, e difficilmente può essere compreso e apprezzato completamente da chi ne è al di fuori.

Interstellar è un film che si regge quasi completamente sull’emozione. La trama è semplice, gli eventi non molto trascinanti, il ritmo lento. Ma l’impatto emotivo è enorme, e non è basato tanto sui rapporti umani, in particolare il rapporto padre-figlia declinato in due modi diversi, quanto, e qui sta l’essenza fantascientifica del film, su un approccio scientifico al mondo e all’universo. 

Nella prima parte lo spettatore vive insieme a Cooper la disperazione di vedere il mondo morente. Cooper è un ex ingegnere; guarda il mondo e vede cause, effetti, traccia conclusioni. Gli altri attorno a lui badano al presente, cercano di adattarsi; gli agricoltori vedono i raccolti distrutti dalla piaga e dalla polvere e pensano “andrà meglio l’anno prossimo”; il governo provvede a cancellare le missioni lunari dai libri di testo per convincere la popolazione che erano sogni inutili e che bisogna pensare solo a coltivare la terra. Tutti hanno lo sguardo verso il basso; Cooper ha lo sguardo verso l’alto, anche se quello che vede non gli dà speranza ma disperazione.

Nella seconda parte l’impatto emotivo è quello del viaggio spaziale. Abbiamo visto milioni di astronavi che viaggiano tra le stelle in mille modi diversi, eppure Nolan riesce ugualmente a farci emozionare, quasi come se questa volta non fosse un film ma fosse reale. Ci riesce attraverso un realismo e una coerenza scientifica (anche se probabilmente chi non si occupa di questi argomenti avrà più difficoltà a distinguerli dai consueti escamotage) che anche se non perfetti sono comunque ad anni luce di distanza da quanto ci siamo abituati a vedere negli ultimi decenni.

Se l’approccio scientifico alla realtà è l’unico che sembra in grado di salvare il mondo, questo ha bisogno, nel messaggio di Nolan, di essere declinato attraverso le emozioni umane, di armonizzarsi con esse. Cooper è messo di fronte a una scelta straziante, quella di abbandonare la figlia sapendo che, anche se riuscisse a tornare, per gli effetti relativistici per lei saranno passati comunque molti anni. Ma lo fa perché sa che questa è la sola speranza di salvarla, di salvare lei e il resto del genere umano. Più avanti nel film sarà di fronte a scelte analoghe, che metteranno alla prova anche il limite opposto, di fronte a scelte che prevedono il salvataggio della specie umana dall’estinzione con la banca di embrioni congelati rinunciando però a salvare gli abitanti della Terra.

La struttura scientifica del film è garantita da un nome di grande rilievo, Kip Thorne, autore del soggetto. Thorne è un fisico teorico, già collega di Carl Sagan, e ha dedicato una vita di ricerca all’astrofisica relativistica, alla fisica della gravitazione. Il wormhole, o ponte Einstein-Rosen, l’idea usata nel film per permettere il viaggio interstellare, molto diffusa da anni nella fantascienza, è un concetto scientifico sviluppato proprio da Thorne (oltre che da Hawking e altri) negli anni Ottanta.

A Thorne si deve anche un grandissimo lavoro sui buchi neri, che proprio grazie a questo film ha fatto passi avanti; Thorne ha usato i fondi e le risorse del film per eseguire i complessi calcoli che hanno portato al rendering dell’aspetto esteriore del buco nero e dei suoi dischi di accrescimento. In Interstellar è plausibilmente la prima volta che gli esseri umani possono vedere il vero aspetto di un buco nero.

Neanche Interstellar è perfetto. Nonostante tutto anche qui la corenza scientifica è chiamata a fare concessioni alla trama. Non condividiamo le considerazioni sui problemi relativi alla vicinanza al buco nero fatte da alcuni commentatori; ci sembra insostenibile una critica su teorie di questo livello, sia perché da una parte c’è Kip Thorne mentre il curriculum scientifico dei critici è tutto da dimostrare, sia perché si parla comunque di scienza puramente teorica; qualunque cosa riguardi i buchi neri, che sono fenomeni teorici e non fenomeni osservati, è di per sé teoria e come tale lascia spazio anche all’immaginazione.

I problemi veri sono tecnici e di livello molto più basso: a bordo della Endeavor ricevono comunicazioni di ottima qualità provenienti dalla Terra, ma le spedizioni precedenti hanno potuto inviare indietro solo dati minimi, costringendo in pratica Cooper e la sua spedizione ad “andare a vedere” di persona. La spedizone parte dalla Terra usando un vettore multistadio, ma quando atterranno sui pianeti ripartono con una normale navetta spinta dai consueti “razzi magici” che abbiamo visto mille volte nella fantascienza, che con uno sbuffetto azzurro consentono a un veicolo si sollevarsi dal suolo e uscire dall’atmosfera. 

Il modello è quello visto nelle missioni Apollo; la differenza sostanziale è che la gravità sulla Luna è un sesto di quella della Terra e il Lem era progettato per essere leggerissimo. 

Sarebbe stato possibile evitare questi problemi? Difficilmente, ma forse in qualche modo sì.

Nel film ci sono comunque diverse idee straordinarie; in particolare il tesseratto all’interno del buco nero e i robot, di una forma mai vista prima eppure incredibilmente funzionale.

Insomma, siamo stati contenti di vedere un film così. Il cinema di fantascienza degli ultimi anni è stato bello, divertente, appassionante, di grande impatto visivo, non lo rinneghiamo, ma ha perso di vista troppo spesso la vera fantascienza, la speculazione basata sull’idea scientifica, il ripartire da quello che sappiamo o ipotizziamo sull’universo, e non da quello che che sappiamo e ipotizziamo sull’universo della fantascienza. Interstellar riporta al centro della scena il sense of wonder basato sulla meraviglia della conoscenza, propone – cosa che richiede coraggio, nel 2014 – un film dai ritmi lentissimi rispetto alla media, con una durata di quasi tre ore. Il suo posto, nello scaffale, è vicino a 2001: Odissea nello spazio e a Contact. Sperando che lo scaffale possa continuare a riempirsi nei prossimi anni.