È il 2277. Sono passati duecento anni dalla guerra nucleare che ha devastato la Terra e trentasei dagli eventi di Fallout 2, oltre a qualche migliaio di chilometri. Quelli che separano la West Coast degli episodi precedenti dalla East Coast, nei dintorni di Washington, dove invece è ambientata la vicenda di Fallout 3. Il numero nel titolo non deve infatti ingannare. Questo è un Fallout tutto nuovo, anche se gli sviluppatori, in forze allo studio responsabile di Oblivion, da cui eredita la tecnologia, si sono impegnati per non tradire lo spirito della serie, tra le lodate meraviglie della defunta Black Isle.

L’ultima fatica di Bethesda Softworks restituisce un gioco di ruolo monumentale, in cui convergono la tradizione del genere, ma anche l’anima più spiccatamente cinematografica e avventurosa del videogame contemporaneo. Stavolta, però, per la felicità degli appassionati di lunga data, i fondamentali non sono stati particolarmente intaccati nella ricerca di maggiore dinamicità e Fallout 3 conserva tutti gli elementi simbolo della famiglia di appartenenza. In primis il ritorno a un mondo aperto all’esplorazione e che vive indipendentemente dal giocatore, senza omologarsi al suo livello statistico, ma in grado di relazionarsi in maniera più profonda con il protagonista, interprete se non vero e proprio coautore della storia, attraverso le scelte che chi impugna il joypad è chiamato a operare.

Lo scenario è talmente vasto e le variabili così numerose, a seconda del personaggio creato, della strada intrapresa e di quella già percorsa, che una partita non è mai uguale all’altra. Confrontandosi con gli amici, potrebbe sembrare di stare a parlare di giochi diversi. E quand’anche si scoprisse di aver compiuto le stesse azioni, probabilmente non si sarebbe seguito il medesimo ordine. Fin dall’infanzia si viene posti di fronte a piccoli dilemmi che aumentano e si intersecano andando avanti, definendo che tipo di persona saremo e come appariremo agli occhi degli altri abitanti del mondo post-atomico di Fallout.

Pur mantenendo il peso specifico dei giochi di ruolo classici, i progettisti di Bethesda si sono ingegnati per rendere meno traumatica l’esperienza, nascondendo per esempio il solitamente rigido menu di creazione del personaggio in un prologo giocato, in cui si accompagna la crescita dell’alter ego, dalla culla all’età adulta. Compaiono vecchi retaggi, come il sistema Special, la griglia sulla quale sono distribuiti abilità e caratteristiche, e un adattamento indolore delle logiche a turni, grazie a un tasto che permette di congelare la battaglia e decidere con calma e precisione le proprie mosse, quantificate in punti azione. Gli ingranaggi però sono stati ben oliati per non risultare anacronistici in un videogame che non lesina sparatorie e preferisce farsi controllare in soggettiva.

Ma in Fallout 3 anche le parole sono importanti. L’ampia libertà di scelta concessa al giocatore non ha impedito agli sceneggiatori di concepire una storia ricca e avvincente, in cui i dialoghi rivestono un valore chiave e che entra nel vivo abbandonando il bunker dove il protagonista ha vissuto fino all’improvvisa scomparsa del padre.

Ovviamente uno dei temi cardine è il rapporto tra chi ha deciso di chiudersi nei rifugi sotterranei e chi invece ha optato per le terre selvagge della superficie. Quali segreti si celano in un paese in rovina, che sembra essersi fermato agli anni ’50 del XX secolo? La bontà narrativa viene testimoniata inoltre dalla quantità e dalla qualità di trame secondarie nelle quali si incappa a volte per caso e che senza accorgersi si intrecciano, disegnando un amabile pastiche fantascientifico che spesso interroga l’etica.

D’altronde il quesito naturale che nasce dal contesto caotico e violento di un mondo apocalittico è quanta umanità riesca a sopravvivere. In un certo senso è questo l’esperimento condotto in Fallout 3, che trasfigura nel segno dell’eccesso, in maniera cinica e grottesca, la società dei consumi occidentale. I suoi resti costellano il viaggio del protagonista, in una sorta di fusione western tra Mad Max e gli zombie di Romero, sulle note di una nostalgica colonna sonora d’epoca, da Bob Crosby a Cole Porter ed Ella Fitzgerald. Tra i doppiatori spiccano altre celebrità: Liam Neeson, Malcolm McDowell e la voce narrante di Ron Perlman, una tradizione per la serie.