«Le macchine emersero dalle ceneri dell'incendio nucleare. La loro guerra per sterminare il genere umano aveva infuriato per anni e anni. Ma la battaglia finale non si sarebbe combattuta nel futuro: sarebbe stata combattuta qui, nel nostro presente... Oggi.»

Nei lontani anni Ottanta, precisamente nel 1981, prima che il Terminator di James Cameron portasse il viaggio nel tempo alla ribalta nel circuito hollywoodiano, Chris Claremont, l'anima nera dell'universo mutante della Marvel, scrisse e sceneggiò, per le matite dell'intramontabile John Byrne, una saga destinata a influenzare pesantemente proprio il futuro dei suoi personaggi. Giorni di un futuro passato, il fumetto, parla di guerre razziali, di discriminazione, di sterminio e di campi di concentramento con una voce rara per un fumetto di supereroi del periodo, con uno spessore in grado di far riflettere il giovane lettore quanto quello adulto. Su fondamenta di questa portata un Claremont abilissimo costruisce una storia di fantascienza in grado di tenerti col fiato sospeso fino all'ultimo e di concentrare l'attenzione dello spettatore sull'orrore della stupidità umana senza cadere nello stucchevole o nel retorico. Diventato ormai una pietra miliare ed un punto di riferimento per qualsiasi autore voglia misurarsi sulle testate mutanti, Giorni di un futuro passato ha conosciuto innumerevoli sequel come incarnazioni innestandosi e ramificandosi per decenni sia in ambito fumettistico sia in altri media. Dalla versione a cartoni animati, in almeno due serie dedicate agli X-Men, si arriva ai videogiochi passando da citazioni anche recenti su serie come Heroes dove uno dei protagonisti ammette che proprio la Kitty Pride di questa saga gli ha permesso di capire la meccanica dei viaggi temporali. 

Bryan Singer, alla regia di X-Men: Giorni di un futuro passato, ha quindi dovuto misurarsi con uno dei più intramontabili miti mutanti rischiando ad ogni passo di non reggere il confronto con il passato ed allo stesso tempo avendo l'onere di dover riattualizzare la storia senza snaturarla. Da bravo appassionato di fumetti e buon allievo di Claremont, il regista statunitense decide da subito di rimescolare le carte in tavola portando alcuni oculati cambiamenti, a volte molto sottili, per poter creare una buona atmosfera ed una solida struttura.

Negli anni Ottanta sia l'idea del viaggio nel tempo come modo per ricostruire il futuro sia l'idea di vedere il presente attraverso gli occhi di un viaggiatore proveniente da un tempo in cui le nostre scelte hanno causato l'apocalisse avevano ancora un certo fascino, soprattutto non avevano subito innumerevoli reiterazioni o variazioni sul tema. Singer decide quindi di contrapporre al gioco futuro-presente messo in campo da Claremont una dilatazione narrativa che sposta il piano temporale di arrivo nel passato, in modo da permettersi un più ampio campo di gioco quanto di recuperare l'atmosfera ricca di fascino da lui stesso creata per X-Men: First Class. Scrollandosi di dosso tutta la pesante continuity mutante

ambientando la storia in un nebuloso periodo percorso dai fumetti ma mai esattamente contestualizzato, si crea un'atmosfera, anche per lo scafato lettore degli X-Men, allo stesso tempo esotica ma conosciuta, misteriosa ed intrigante ma appena al di fuori dalla portata anche del più esperto che già nel primo capitolo della nuova serie aveva dato i suoi frutti. Una seconda importante differenza fra saga a fumetti e lungometraggio cinematografico è la scelta del fulcro della storia. In un periodo in cui Claremont poteva permettersi di giocare con ognuno dei suoi personaggi e di approfondirne di volta in volta caratterizzazione ed immagine, scegliere la giovane ed innocente Kitty Pryde (meglio conosciuta come Shadowcat) era stato un colpo di genio in grado di dare all'opera un taglio innovativo ed allo stesso tempo di donarle un punto di vista insolito per il lettore. In questo caso Singer non vuole e non ha il tempo di rischiare e decide invece di giocare sul sicuro designando come trait d'union della sua versione l'inossidabile Wolverine, ultimamente fin troppo inflazionato, interpretato dall'altrettanto inossidabile Hugh Jackman, ormai legato a doppia mandata alle sorti del personaggio. Come se non bastasse doppia razione di Xavier e di Magneto, vere colonne portanti non solo di X-Men: First Class ma anche dei film precedenti, nella versione giovane quanto in quella attempata. Se James McAvoy e Michael Fassbender hanno fatto faville interpretandoli di recente, nessun vero appassionato delle vicende mutanti può dimenticare negli stessi ruoli Patrick Stewart e Ian McKellen, anch'essi scritturati da Bryan Singer. Giocare col tempo ha infatti permesso al regista non solo di schierare tutti i validi attori che poteva avere a disposizione ma anche di aggirare i machiavellici vincoli contrattuali gravanti sui mutanti Marvel e di mostrarci in anteprima la sua versione di Quicksilver (al volgo Pietro Maximoff), in barba a quanto apparirà sul secondo film degli Avengers.