Che io ricordi, i miei primi “problemi di comunicazione” (chiamiamoli così) con coetanei e adulti, riguardanti la fantascienza, risalgono al 1950. Ho in mente benissimo una scena: avevo 10 anni, e a quei tempi abitavo a Brindisi. Ero per strada con alcuni amici e compagni di scuola della mia stessa età. Su un muro, in alto, era affisso un manifesto riguardante il film Uomini sulla Luna, che poi avrebbe vinto un Oscar per gli effetti speciali ed era tratto da una storia di Robert A. Heinlein (ma questi dettagli li scoprii qualche decennio dopo). Nei libri dedicati alla cinematografia fantascientifica, è tuttora un’opera che resta in prima fila, ritenuta la prima seria e importante opera del genere. Io – frequentavo la quinta elementare – l’avevo visto e rivisto:  mi aveva conquistato. Nel 1950 Urania non era ancora nelle edicole (lo sarebbe stato due anni dopo) né esisteva il termine “fantascienza”, comunque c’era qualche fumetto con avventure spaziali e avevo letto già storie di viaggi ad altri pianeti restandone ammaliato (Verne in primis). Ebbene, guardando quel coloratissimo manifesto mi venne spontaneo parlarne con gli amici presenti: mai l’avessi fatto. Andare addirittura sulla Luna? Scafandri? Razzi? Astronavi? Fu un coro di risatine, battutine e sberleffi, che mi portai poi addosso come un marchio.

Non andò meglio più tardi, con I Romanzi di Urania (così si chiamava allora la collana). Allorché mio padre ne notò tre o quattro in pila sul mio comodino, volle leggerne uno. Ricordo, anche qui: si trattava di La Legione dello Spazio (del dicembre 1952), storia avventurosissima di Jack Williamson e che mi era piaciuto da impazzire (decenni dopo, alcune scene del romanzo si ritroveranno nel primo Star Wars). Il responso di mio padre fu tranciante: sono corbellerie, è mal scritto, una americanata, cose che guastano la fantasia. Mi pose il veto.

Ma io non potevo farne a meno. Intanto ci eravamo trasferiti a Bari, in una casa più grande, ma l’atmosfera non era mutata. Arrivai a temere o a vergognarmi di andare in edicola e chiedere l’Urania di turno: attendevo che la gente andasse via, poi mi avvicinavo e acquistavo. Mi accorgevo di agire come se fossi un ladro, ma era così. Aggiungo,  anticipando i tempi, che una diecina di anni dopo, in una intervista radiofonica – da  me casualmente captata – a personaggi della cultura e della editoria italiana (non ricordo bene quali, ma credo che tra loro ci fosse Roberta Rambelli, curatrice all’epoca di Galaxy e Galassia) ascoltai qualcosa  di identico: persone che in passato avevano letto fantascienza vergognandosi di andare ad acquistare l’Urania, e si sentivano “una setta, una carboneria” (parole loro), anch’essi aspettavano che non vi fosse gente all’edicola. Il che mi fece “quasi” tirare un respiro di sollievo (“aver avuto” compagni al duol…).

E dunque – torno al discorso – l’avvio del proibizionismo paterno inaugurò le mie letture vietate nella mia cameretta, a letto, a notte alta, sotto lenzuola e coperte, tirandomi appresso il lume acceso per evitare di essere colto in flagrante. Devo a quelle nottate le esaltanti letture di Paria dei cieli di Asimov, Guerra nella Galassia di Edmond Hamilton, Crociera nell’infinito e Anno 2650 di A.E. van Vogt, Anni senza fine di Simak, e altri. Letture che mi prendevano in modo quasi violento, da assuefazione. Ovviamente non ero economicamente autosufficiente, per gli acquisti dovevo contare sulle poche lire che ogni tanto mi venivano elargite, e dunque mi inventai una fonte di quattrini: nel giorno del mercato, installato settimanalmente nella via alle spalle di casa, mi offrivo di andare a fare la spesa. E 20 o 30 lire le recuperavo, ogni tanto. Non sempre riuscivo ad accumulare le 150 lire necessarie, quindi  non potevo acquistare tutti gli Urania:  ogni volume posseduto era un trionfo, ogni titolo assente un rimpianto. Per esempio, non riuscii ad acquistare Cristalli sognanti di Theodor Sturgeon.

Un giorno – qualche anno più tardi – rovistando in una bancarella di libri usati, trovai “Cristalli sognanti”. I soldi li avevo, e subito recuperai il tesoro con straripante gioia. Ma tornando a casa, sfortuna volle che mi incrociassi con mio padre, in compagnia di una persona che non conoscevo. Vide che in mano avevo l’Urania e si rabbuiò. Lo prese, e mentre il tizio accanto cercava di dissuaderlo (“È roba di ragazzi”, diceva e ripeteva), incominciò a strapparne le pagine. Io guardavo annichilito, e già pensavo (disperatamente) di raccogliere quei frammenti e in qualche modo incollarli, per ricostruire il tutto: illusione! Per terra, proprio in quel lato della strada, c’era la grata a maglie larghe di un tombino. Restai immobile a guardare il libro mentre diventava coriandoli che cadevano sfarfallando giù, e galleggiavano nell’acqua di fogna. Per trovare un’altra copia del romanzo dovetti attendere un altro decennio.