Il 2 agosto scorso è apparso su “la Repubblica” un articolo a firma di Cristiano De Majo intitolato “Scritture vagabonde”, che tratta di un  fenomeno letterario emergente. Si tratterebbe d’una svolta – o quanto meno tentativi di svolta – nella struttura tradizionale della narrativa. Sono citati titoli e nomi: il romanzo – di prossima uscita in Italia – The Faraway Nearby di Rebecca Solnit, Città aperta di Teju Cole, Gli anelli di Saturno e altri tre romanzi dell’autore di lingua tedesca W.G. Sebald (che pare abbia dato l’avvio al fenomeno; Sebald era nell’elenco dei possibili  vincitori del Nobel ma morì prematuramente, all’età di 57 anni, nel 2001) e, per citare anche un nome di casa nostra, i libri di Emanuele Trevi. Testi che hanno avuto tutti una certa risonanza nell’ambito del mainstream. Quale sarebbe la “svolta”? La letteratura diventa “arte della divagazione”, ma una divagazione alquanto consapevole per cui, come espone con chiarezza De Majo, “si produce una narrazione ipnotica che finisce con il rappresentare la vita e le sue diramazioni con più fedeltà rispetto al determinismo romanzesco, dove ogni cosa succede per soddisfare una logica interna, una coerenza che non è davvero realistica. Non ci sono soluzioni, né una vera e propria fine (…) Il pensiero come aggregazione di connessioni alla ricerca di un senso, si fa specchio della condizione umana”.

Nella pratica di chi scrive, come si manifesta la “divagazione” del materiale narrativo? È presto detto: “…flusso di pensieri da un argomento all’altro, narrazioni, esperienze in cui ogni molecola d’acqua è collegata a un’altra e diventa un insieme che disperde le tracce dei singoli componenti”.  In definitiva “pensare, ricordare, vagabondare e mettere in relazione i segni della realtà esteriore con le storie piccole e grandi del mondo”. Anche i famigerati “generi” possono intrecciarsi in questo magma, confondersi, non solo: si va dalla pura narrazione al memoriale al saggio alla cronaca alla critica letteraria allo scavo dell’autocoscienza.

Probabilmente chi mi sta leggendo penserà all’Ulisse di Joyce o alla Recherche proustiana, ed è giusto. Colonne fondanti ma di epoche superate, si dirà; la narrativa di ieri e quella d’oggi viaggiano su binari differenti e anche distanti. E tuttavia – ricorda con attenzione De Majo – esistono precedenti più antichi: per esempio Rousseau nel Settecento (Fantasticherie del passeggiatore solitario), e perfino una firma cinquecentesca, Michel De Montaigne, con i suoi Saggi. Dal canto mio aggiungerei il “noveau roman” (in Italia più noto come “antiromanzo”: parola che spiega abbastanza…), creato in Francia negli anni Cinquanta e Sessanta da un movimento culturale d’avanguardia che contava tra altri i nomi di Jean-Paul Sarte e Alain Robbe-Grillet. Più recentemente, penso allo statunitense Thomas Pynchon e al visionario, turbinoso William Burroughs.

A ben guardare anche la narrativa italiana “colta” dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento è stata attraversata e spesso condizionata da correnti culturali, o semplicemente da tendenze, atteggiamenti, che comunque avevano un nome e potevano influire in modo notevolissimo sui moduli narrativi. Basti pensare al verismo, ai racconti e romanzi dei futuristi, al  decadentismo, l’intimismo, il realismo, il realismo socialista, il neorealismo. Altri proclamavano la morte della forma “romanzo” esaltando per contro il “racconto”. Inoltre non di rado il bisogno di descrivere un universo totalmente soggettivo, o di superare una letteratura che si definiva realistica ma si rivelava incapace di narrare il mondo e le nuove istanze dell’uomo, portavano a uno slittamento verso il fantastico. Notevoli esempi ne erano il “realismo magico” di Massimo Bontempelli, alcuni racconti dell’ultimo Pirandello, le storie di Buzzati, Landolfi, Zavattini, Calvino. Va inoltre citato lo scrittore Carlo Emilio Gadda, le cui opere costituiscono un “esempio moderno” (scrisse Calvino) di “romanzo contemporaneo visto come enciclopedia (…) Gadda cercò per tutta la vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, senza attenuarne l'inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento”. Anche in Gadda intravvediamo chiaramente elementi di una “narrativa vagabonda”. Nel complesso dei nomi e dei fatti, come si può constatare, un magma culturale tutto nostrano, attivissimo e ribollente di idee, con una ricerca del “nuovo” e d’una maggiore profondità. (Ciò accadeva anche nella musica cosiddetta “colta”, nella pittura, in architettura, nel cinema, per esempio con registi della “incomunicabilità”, quale Antonioni). Di tutto ciò, delle ragioni di questo fervore entusiasta durato decenni, che dovrebbe far riflettere sui nostri argomenti, pare che oggi non resti alcuna memoria se non nelle biblioteche degli studiosi. Eppure la storia della letteratura talora si ripete, sia pure con qualche variante.